Repubblica, donne e voto: i ricordi di tre signorine di allora di quel 2 giugno 1946 (e dintorni)
2 giugno 1946. Una data spartiacque nella storia dell'Italia. Quel giorno, milioni di italiani si recarono alle urne e scelsero la Repubblica. Tra quei milioni di persone, c'erano anche le donne. Ma che clima si respirava in quelle settimane? Quale fu il rapporto tra le donne e il voto in un'Italia uscita distrutta dalla guerra? Lo abbiamo chiesto a tre ultra novantenni, a quel tempo adolescenti. Il quadro che restituiscono le loro testimonianze, molto diverse tra loro, è quello di una zona, il lecchese, in cui il desiderio di voltare pagina attraverso il voto si adagiò temporaneamente, come una delle copertine che si usano d'estate, su ferite profonde e difficili da guarire.
“Fare il mio dovere come madre e come moglie. Questo avevo in mente, non andare a votare. La vita in quegli anni era dura”. Ricordi. Passano i ricordi negli occhi di Maria Anghileri. Ricordi di un’esistenza segnata da un dramma, quello della guerra, che per chi ha vent’anni oggi è qualcosa di inimmaginabile. Classe 1930, valmadrerese doc, Maria Anghileri ha vissuto per tanti anni a San Tomaso assieme al marito Gerolamo Rusconi e al suocero Francesco. “Durante la guerra mio suocero rimase vedovo con sette figli. Per anni, non seppe niente di loro, impegnati al fronte. Un giorno, la mattina presto, a San Tomaso arrivarono i tedeschi. Qualche spia aveva detto loro che su quelle colline c’erano i partigiani, i disertori e le loro armi” ha proseguito l’anziana signora. “Cercavano Pietro, il fratello di mio marito, ma non lo trovarono. Trovarono invece mio marito e suo padre. Li picchiarono, li portarono in gendarmeria a Lecco e lì li picchiarono ancora”. Era il 1944, l’Italia era divisa. A nord, la Repubblica di Salò. A sud, gli alleati. “Da Lecco li caricarono su un treno e li portarono a Montorfano, dove c’era il comando della famigerata Decima mas. Poi arrivò un bombardamento e i due riuscirono a scappare”.
Maria Anghileri e Emilia dell’Oro
Nel soggiorno della piccola abitazione in via San Martino, cala il silenzio. Poi all’improvviso, un’esclamazione. “Io ho visto tutto! Abitavo in centro a Valmadrera e ho visto i tedeschi che portavano giù Gerolamo e Francesco, grondanti di sangue”. Di Emilia dell’Oro colpisce l’energia. Un’energia così profonda e intensa da riuscire a combattere anche l’inesorabile scorrere del tempo. Classe 1932, la signora Dell’Oro è un personaggio molto conosciuto a Valmadrera. E’, infatti, tutt’ora presidente della sezione locale dell’associazione nazionale famiglie caduti e dispersi in guerra. Suo padre, Alessandro Dell’Oro, morì nel campo di concentramento di Mathausen, dove fu rinchiuso anche suo fratello Pietro. “Quando sono tornati a casa dalla guerra o dalla prigionia, quei ragazzi erano vuoti, in coma. Quando mio fratello tornò io gli corsi incontro ma lui non reagì. Poi mi voltai e vidi mia madre piangere” racconta Emilia Dell’Oro, nominata Cavaliere della Repubblica dall’ex Presidente Giorgio Napolitano. Il suo è un punto di vista diverso da quello della sua amica Maria, seduta lì vicino. “Quando aprimmo il circolo degli operai c’erano i reduci della Prima guerra mondiale che accusavano i reduci della Seconda di aver disfatto l’Italia che loro avevano costruito. Si discuteva tanto e contava molto anche l’indirizzo del parroco” prosegue. “Le donne, soprattutto quelle più grandi, erano del tutto fuori da queste dinamiche. Non avevano una preparazione politica. Siamo diventate consapevoli con il tempo, salvo qualche eccezione. Mia sorella Lilliana, per esempio, era molto attiva. Aiutava i partigiani, lavorava in fonderia e si impegnava per la comunità portando giù tutti i giorni il latte da San Tomaso”. Emilia Dell’Oro sorride. I suoi occhi brillano di vitalità. “Lei andò sicuramente a votare il 2 giugno 1946. Il re non era ben voluto dagli italiani. Si vociferava che il re non fosse figlio di Vittorio Emanuele ma fosse stato adottato perché la moglie di Vittorio Emanuele non poteva avere bambini. I politici di quel tempo erano ambigui, non mi convincevano fino in fondo”. Una riflessione che lascia perplessa Maria Anghileri. “Conducevamo una vita contadina. Badavamo ai vitelli. Mio cognato faceva il muratore. Era una vita dura. Mio suocero mi voleva bene. Solo dopo sposata, a inizio anni Sessanta, in pieno boom economico, iniziai ad andare a votare”.
Per una parte della popolazione femminile, quindi, la possibilità di votare non segnò un cambio epocale. C’erano le ferite della guerra da riparare, bisognava pensare alla famiglia. A cosa mettere in tavola per i pasti. “E poi gli uomini non volevano le donne in giro. Ma quando andai a votare la prima volta, dopo aver compiuto 21 anni, ero emozionata” la chiosa Emilia Dell’Oro.
Per una parte della popolazione femminile, quindi, la possibilità di votare non segnò un cambio epocale. C’erano le ferite della guerra da riparare, bisognava pensare alla famiglia. A cosa mettere in tavola per i pasti. “E poi gli uomini non volevano le donne in giro. Ma quando andai a votare la prima volta, dopo aver compiuto 21 anni, ero emozionata” la chiosa Emilia Dell’Oro.
Bianca Lenti
“Quando fondammo l’associazione Amici di Parè in tanti ci dissero che eravamo matti. Invece, avevamo ragione”. Dopo aver raggiunto la casetta dalla frazione di Caserta dove abita – percorrendo dunque un chilometro a piedi – a parlare è Bianca Lenti, anch’ella classe 1930. “Sono nata a Lecco, abitavo con la mia famiglia in una casa signorile in via Digione. Casa Todeschini si chiamava, fu una delle prime ad avere i caloriferi in città. Mio padre, Lorenzo Villa, era un dirigente delle ferrovie” ha raccontato la novantatreenne. “Mio nonno materno, Filippo Tocchetti, fu un alto funzionario della Banca d’Italia. Il fratello di mia mamma era Pino Tocchetti, storico giornalista attivo tra Lecco e Como. Mia sorella era laureata in lettere mentre mio fratello era un dirigente di una nota industria di lampadine”. Alle spalle, Bianca Lenti ha una lunga carriera da insegnante di ceramica. “Mi avvicinai a quest’arte durante la guerra. Da Lecco, infatti, ci rifugiammo a Sala al Barro, a casa di mio nonno materno. Da lì, andavo a scuola tutti i giorni a Galbiate, dove si trovava il collegio Bianconi, scappato da Milano” spiega. “Il dopoguerra fu un periodo molto brutto. Mancavano posti di lavoro. I beni di prima necessità costavano tanto e per alcuni alimenti c’era ancora la tessera. Tante persone emigravano verso il nord Europa” ha proseguito la signora Lenti. “Quando De Gasperi indisse il referendum, ci fu un entusiasmo enorme. L’idea di poter contribuire a migliorare le condizioni in cui si viveva era qualcosa di bellissimo. Certo, c’erano le fazioni: il nord Italia era per la Repubblica e il sud Italia era per la monarchia”. Sulla partecipazione delle donne al voto, invece, l’entusiasmo fu di gran lunga minore. “All’epoca le donne lavoravano e badavano alla famiglia. In tante si recavano in fabbrica ogni giorno a piedi. Le signore del ceto medio, invece, di solito facevano le insegnanti” racconta novantatreenne. “I miei genitori, però, sono sempre andati a votare. Mio padre lo considerava un dovere ed era contento che anche le donne potessero votare. Ma a casa mia si parlava di sport, non di politica”. Lorenzo Villa, padre della signora Lenti, ottenne una stella d’argento del CONI per meriti sportivi. “Sapevo che durante la dittatura mio padre prese la tessera del partito fascista. Fu obbligato, altrimenti non avrebbe potuto lavorare. Dopo la sua morte, però, abbiamo scoperto che mentre noi eravamo a Galbiate lui organizzava le riunioni dei partigiani in casa sua. Abbiamo trovato la tessera del raggruppamento partigiano a cui era iscritto”. Le chiediamo come interpreta la scarsa affluenza registrata nelle ultime elezioni. Bianca Lenti si ferma per un attimo a riflettere. “In quel momento si stava veramente male e il voto rappresentava una via possibile per migliorare le cose. Oggi si sta molto meglio di allora quindi alla gente non interessa più andare a votare”.
Andrea Besati