SCAFFALE LECCHESE/149: autobiografia di Pio Galli, da operaio a grande sindacalista

«Le officine degli artigiani erano centinaia: nel centro della città c'erano le fabbriche più grandi, ognuna con la sua ciminiera. Al mattino, a mezzogiorno e alla sera si sentiva per tre volte il suono delle sirene: dieci, cinque minuti prima e all'ora esatta di inizio lavoro. La città era animata da migliaia di giovani e donne che venivano in bicicletta o in tram dai paesi della bergamasca, oppure da quelli della Brianza. La sera, passando davanti al Caleotto, i forni che colavano l'acciaio sembravano enorme bocche di fuoco. Per quelli del capoluogo eravamo "i ferrascett de Lecc", gente che lavorava il ferro». E' la rievocazione del paesaggio della Lecco industriale, una città come una sola grande fucina, che apre il libro con il quale Pio Galli ha raccontato la propria vita intrecciata alla storia sindacale del secondo Novecento. Ed è già un mondo altro, un mondo dimenticato.

Pio Galli

Galli, nato nel 1926 e morto nel 2011, è stato un operaio metalmeccanico entrato in fabbrica all'età di 10 anni e diventato poi uno dei più importanti sindacalisti italiani, fino a segretario nazionale della Fiom, l'organizzazione che raccoglie i lavoratori metalmeccanici della Cgil. Attraversando dunque gli anni delle grandi lotte operaie volte a ottenere condizioni di vita e lavoro migliori. E diritti politici. "Da una parte sola. Autobiografia di un metalmeccanico" è il titolo del volume pubblicato nel 1997 da "Manifestolibri". La Cgil ne ha realizzato anche un film
Di autobiografia si tratta. Il racconto infatti segue le vicende personali di Galli. Che sono molto lecchesi nei primi capitoli, quelli dedicati alla giovinezza. Poi, la nostra città scompare quando Galli se la lascia alle spalle per gli incarichi sindacali che lo portano prima a Brescia e poi a Roma. Si intrecciano così il ricordo intimo (le amicizie, il matrimonio, i figli e più avanti la morte del padre e del fratello) e la rievocazione dei grandi eventi, della storia italiana del secondo dopoguerra vista dalla prospettiva del sindacato.

Il racconto prende le mosse dall'inizio, dall'infanzia, tra Annone e Valmadrera e infine Lecco nel rione di Rancio, dalla vita famigliare, dagli stenti e dalle fatiche della condizione popolare e operaia negli anni Venti e Trenta del Novecento: «In famiglia eravamo sempre tesi, con rari momenti di serenità. Quegli anni li ricordo come un periodo triste, amaro. Le prime scarpe le ho messe a otto anni. Prima ho sempre portato gli zoccoli. (...) In terza, quasi tutti i ragazzi avevano la divisa da Balilla. Era una specie di imposizione, ma costava un aquilino. A forza di giocare con i pennini e le figurine misi insieme i soldi per comprarla. Era un vestito che mi avvicinava agli altri. Ma mio padre, quando lo vide, ebbe una reazione furibonda: "Che cos'è questa? Non ti voglio vedere mascherato in quel modo!" Non l'avevo mai visto così arrabbiato. Me la strappò dalle mani e la buttò nella stufa. Impietrito, con le lacrime agli occhi, guardavo bruciare il vestito che mi era costato tanto; ancora non l'avevo neanche provato.»
Finita la scuola elementare, è già tempo di andare in fabbrica: «Andai a lavorare. Era la sorte che toccava alla maggior parte dei ragazzi di Rancio. Mi sarebbe anche piaciuto continuare a studiare, ma quelli del mio stato andavano a lavorare, non c'era neanche bisogno di parlarne. Certe condizioni di vita ti fanno maturare in fretta: o non riesci a sopravvivere oppure diventi più grande della tua età (...) Avrei voluto fare qualcosa di diverso da mio padre. Da grande volevo essere un operaio meccanico, un mestiere che comporta qualche privilegio. (...) Non riuscii a entrare subito in un'officina meccanica. Trovai un posto alla Valsecchi, dove si facevano reti da letto, zerbini, trappole per uccelli. Era a poche decine di metri da casa.»
Intanto, crescono la coscienza politica, lo spirito antifascista e all'appuntamento con l'8 settembre, Galli arriva preparato: con altri amici è subito pronto a "salire in montagna", viene arrestato e sfugge fortunosamente alla deportazione, ritorna tra i partigiani sui monti di Premana. Nel contempo, l'avvicinamento al Pci: «Non sapevo molto del Pci. Per me comunista voleva dire antagonista del fascismo. Voleva anche dire conquistare una società migliore, avere il diritto al lavoro, alla libertà di parola. Significava continuare la lotta contro il fascismo e affermare i valori di libertà e giustizia. Mi sembrava che il Pci fosse la forza impegnata con più coerenza in questa lotta. Di Togliatti, come anche di Nenni e De Gasperi, cominciai a scoprire qualcosa solo a guerra finita, leggendo i giornali o partecipando ai comizi dei leader politici. (...) I punti di riferimento erano Stalin, l'Unione Sovietica, l'esercito rosso. La vicenda del ritorno di Togliatti e della svolta di Salerno sono cose che ho conosciuto dopo. In montagna avevo combattuto nella brigata Rosselli senza sapere bene chi fossero i fratelli Rosselli.».
Finita la guerra, "archiviata" la Resistenza («La cosa strana è che in seguito se ne è parlato poco, non si è cercato di rievocare, di rivivere. (...) Era un discorso chiuso», il ritorno al lavoro, ma adesso «io volevo una grande fabbrica. A Lecco erano decine quelle con più di cinquecento dipendenti, ma la vera grande fabbrica era una sola: il Caleotto Arlenico, due stabilimenti siderurgici affiancati e collegati da un binario ferroviario, che occupavano duemila lavoratori.» E «a vent'anni, entravo come operaio qualificato nell'officina meccanica, il reparto migliore del Caleotto».

L'autunno caldo

 

Al Caleotto lavorano anche il papà e lo zio. Fanno parte della commissione interna. Nella quale viene eletto anche il giovane Pio. Ma più che un passaggio di testimone, sono strade che si dividono. Vecchi e giovani: «Per il loro comportamento erano sempre stati un punto di riferimento per gli altri lavoratori, avevano tenuto alta la bandiera dell'antifascismo. Ma per la nuova generazione entrata al Caleotto dopo la guerra, della quale facevo parte anch'io, erano un po' troppo disposti al compromesso con l'azienda».
C'è davvero tutto un futuro da costruire, i giovani mordono il freno ma peccano anche di ingenuità e nel 1953 una vertenza durissima si conclude con un licenziamento collettivo. E tra gli espulsi dalla fabbrica c'è anche Galli: «Abbiamo offerto con le mostre mani il pretesto per farci fuori tutti. Dall'altra parte c'era gente che sapeva elaborare una strategia e studiarne la realizzazione, mentre noi avevamo sottovalutato le mosse della direzione. Nella lotta di classe non bisogna farsi trascinare dai sentimenti, né dall'orgoglio, soprattutto se si tratta di salvaguardare per il futuro i rapporti di forza. Appena l'avversario riesce a prendere il sopravvento, anche il tuo orgoglio viene sconfitto».
Con il licenziamento, l'operaio Galli dismette la tuta e diventa sindacalista a tempo pieno. E in quel primo scorcio degli anni Cinquanta, l'organizzazione sindacale era ancora tutta da inventare: «A parte qualche lavoratore politicizzato che trovava il coraggio di denunciare alla Camera del lavoro ciò che avveniva nella sua fabbrica, gli altri venivano a farsi controllare il trattamento di liquidazione, oppure a verificare se erano stati versati regolarmente i contributi previdenziali. L'evasione contributiva era diffusissima soprattutto nelle piccole e medie aziende dell'abbigliamento. In questa miriade di fabbrichette lavoravano migliaia di ragazzine dai dieci anni in su. Alcune usavano ancora le loro biciclette giocattolo. (....) Adesso basta una telefonata all'Inps per verificare lo stato dei tuoi contributi, allora scoprivi solo alla fine se ti avevano fregato. Spesso a fronte di trentacinque o quaranta anni di lavoro, i contributi versati non ne coprivano più di venticinque o trenta.»

In quel periodo si colloca anche l'episodio della morte di Giuseppe Di Vittorio avvenuta proprio in occasione della sua venuta a Lecco per inaugurare la nuova Camera del lavoro. Era il novembre 1957: «Parlò per tre quarti d'ora e distribuì i diplomi agli attivisti che si erano impegnati nella sottoscrizione. Poi sedette accanto alla moglie, non si sentiva bene. (...) Eravamo in allarme. Dopo averlo accompagnato, chiamammo i migliori medici disponibili al [l'hotel] Croce di Malta. (...) Erano passate due ore e i medici gli avevano appena detto che non doveva neanche pensare di partire per Roma la sera o la mattina dopo. Non doveva assolutamente muoversi dal letto. (...) Lui era scocciato dalle troppe precauzioni e voleva andare in bagno. Cercò di alzarsi, con cautela, mise le gambe fuori dal letto e ricadde indietro. [La moglie] Anita aprì la porta, chiamando aiuto: "Venite, venite! Peppino sta morendo!" Entrammo assieme ai medici. Di Vittorio era rovesciato di traverso sul letto con le gambe fuori. Rantolava. Un medico mi fece salire a cavalcioni su di lui per muovergli le braccia e farlo respirare, mentre un altro gli massaggiava il cuore; chiedemmo una bombola di ossigeno. Ma in pochi minuti, dopo un rantolo più grosso degli altri, era morto. Anita si scagliò contro di noi. "Me l'avete ammazzato!" Dopo un attimo di smarrimento ci siamo riavuti. (...) Allestita la camera ardente nella sede appena inaugurata, lo abbiamo vegliato tutta la notte.».

Nel portico di piazza Garibaldi che fu l'ingresso dell'hotel Croce di Malta rimane ancora la targa con un dipinto di Ernesto Treccani, affissa nel 1997 dalla Cgil.
Pio Galli resterà nel sindacato fino al 1985, quando deciderà di andare in pensione senza aprire quel "ristorantino" che qualche volta si era immaginato ma impegnandosi nel partito, diventando consigliere regionale lombardo, dopo che aveva lasciato Roma per tornare in riva al lago.
In quanto all'attività sindacale, è stato indubbiamente un protagonista, vivendo i momenti più significativi della storia del sindacato italiano nel secondo dopoguerra. La rottura dell'unità sindacale dopo le elezioni del 1948 e nel contempo la "questione" dell'autonomia del sindacato rispetto ai partiti politici di riferimento che a lungo hanno avuto un ruolo non indifferente nelle scelte delle organizzazioni dei lavoratori. Ma anche la stessa autonomia delle singole categorie rispetto al sindacato confederale. Nella fattispecie l'autonomia della Fiom nei confronti della Cgil. Con momenti di tensione non indifferente. Ma anche il tentativo di ritrovare proprio l'unità sindacale perduta della quale avrebbe potuto essere preludio quella che fu la Flm, la federazione dei lavoratori metalmeccanici che riuniva sotto un'unica sigla i sindacati di settore delle tre organizzazioni confederali (Cgil, Cisl e Uil) ma l'esperienza non sarebbe poi sopravvissuta sale turbolenze economiche e politiche degli ultimi lustri del secolo.
Incrocia tutti i leader sindacali, attraversa i momenti drammatici come i giorni del paventato golpe del 1964 o le manifestazioni di Reggio Calabria nel 1972, la questione meridionale.
In venti e trent'anni, il sindacato è riuscito migliore le condizioni dei lavoratori. A fine secolo, l'operaio aveva guadagnato un ruolo nella società.
Il libro si ferma agli anni Novanta e pertanto l'erosione di quei diritti che arriverà negli anni successivi non è ancora contemplata. Anche se la data spartiacque fu il 1980, l'anno della cosiddetta "marcia dei quarantamila" a Torino che mise fine all'agitazione operaia alla Fiat in corso da più di un mese. Un momento che Galli visse in prima linea e che rappresentò una sconfitta cocente della Fiom e del sindacato in genere. Dopo tutto sarebbe stato diverso, le relazioni sindacali sarebbero cambiate completamente, in virtù anche della grande crisi degli anni Ottanta, delle grandi dismissioni industriali, un processo che proprio la nostra città ha vissuto sulla propria pelle.
Però, Galli fa una riflessione a proposito dei "padroni", perché così ancora li chiama, alla vecchia maniera. E scrive: «I padroni italiani non hanno mai davvero riconosciuto il sindacato. La mia esperienza mi spinge a questa conclusione. Nell'immediato dopoguerra il risorto movimento sindacale unitario conseguì alcune conquiste democratiche che rientravano nella coscienza di tutti e, secondo me, anche dei padroni che si sentivano colpevoli del fascismo e avevano molto da farsi perdonare. Gli azionisti del Caleotto, tutti piccoli e medi industriali, pensavano che con noi era necessario fare i conti. Però, appena hanno potuto - nei primi anni '50 - ci hanno fatto fuori. (...) I padroni hanno subito l'affermazione di alcuni nostri diritti, ma senza riconoscerli, pensando che erano costretti a ingoiare dei rospi che avrebbero risputato fuori alla prima occasione. La storia delle relazioni industriali in Italia è diversa da quella tedesca. Il padronato tedesco non è migliore di quello italiano, ma senza dubbio si è rivelato più intelligente».

Con Lorenzo Bodega il giorno della consegna della benemerenza civica



Nel 1999, la città gli ha assegnato la benemerenza civica e nel 2017 gli ha intitolato una via proprio nel quartiere di Rancio dove era cresciuto (CLICCA QUI).




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D.C.
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