Bindo: la realtà del carcere e la giustizia riparativa nel racconto di don Marco Tenderini

Buona partecipazione giovedì sera all’incontro di formazione con la testimonianza sulla cura nel carcere da parte di don Marco Tenderini, tenutosi presso la Casa della Carità di Bindo di Cortenova, a cui hanno preso parte anche don Bruno Maggioni e don Lucio Galbiati. L’evento, inserito all’interno del Festival della Missione (che per quest’anno ha come tema Vivere perdono), è stato organizzato grazie alla collaborazione con il Decanato di Primaluna.
Don Marco Tenderini, prete di origine premanese, è cappellano presso la Casa Circondariale di Lecco, oltre che responsabile della Caritas cittadina. Il suo racconto ha preso le mosse dalla descrizione del contesto in cui opera ogni giorno, quello appunto del carcere. Si tratta di un istituto penitenziario esclusivamente maschile, che ospita attualmente poco meno di settanta detenuti, tra cui si trova “di tutto”, dal momento che, racconta don Marco, “è uno specchio della società”. Preoccupante, tuttavia, seguendo sempre le parole del cappellano, l’incidenza dei giovani.


Don Bruno Maggioni e don Marco Tenderini

Don Tenderini si prende quotidianamente cura dei detenuti, che, ha sottolineato in apertura, “sono innanzitutto delle persone”, ribadendo quanto sia sbagliato e controproducente identificare un uomo, una donna, un ragazzo, un papà, un figlio semplicemente con il reato che ha commesso, perché “la sua realtà va ben al di là della sua colpa”. È fondamentale, dunque, l’attenzione alla persona, che deve sempre mantenere la sua dignità e che merita rispetto. “Per questo motivo - ha proseguito don Marco - io chiamo sempre i detenuti per nome, a differenza di quanto fanno le altre figure del carcere, e stringo sempre loro la mano. In più, evito di far compilare loro la cosiddetta “domandina” (necessaria per qualsiasi semplice e minima richiesta) quando vogliono avere un colloquio con me”. “Indispensabile, poi, è prestare attenzione ai bisogni più concreti della persona, a quelle necessità pratiche verso le quali spesso manca la giusta considerazione negli istituti carcerari: dal tabacco a una scheda di memoria... Andare incontro alle loro esigenze immediate mostra ai detenuti che ci si sta facendo carico di loro, e questo fa una grande differenza”.



“Cura e attenzione alla persona, alla sua individualità: questi sono dunque i concetti cardine” ha ribadito don Tenderini, aggiungendo che “è l’umanità, il modo di rapportarsi ai carcerati, che può davvero cambiare le cose”. Nello specifico, il compito di una figura come quella di un prete è quello di “aiutare i detenuti a fare chiarezza, a sciogliere dei nodi, a ricostruire quei legami e quelle relazioni che dietro le sbarre si deteriorano o distruggono completamente. Hanno bisogno di qualcuno che li sappia ascoltare, che abbia la giusta pazienza per prestare loro l’attenzione di cui hanno bisogno”. Un lavoro che coinvolge anche i famigliari del detenuto e che in generale prosegue anche fuori dal carcere, con il cappellano che va spesso a fare da tramite con il mondo esterno.
La religione “entra in scena”, invece, con la Messa, la catechesi e la Confessione. Il compito della Chiesa, rappresentata in questo caso specifico dal cappellano del carcere, è quello di accompagnare i detenuti in un vero cammino di fede, aiutandoli invece ad abbandonare quella religiosità superstiziosa, devozionale e legata agli oggetti, spesso diffusa, su più vasta scala, nell’ambito criminale. “Un esempio su tutti - ha raccontato don Marco - è quello dei boss mafiosi che inviano i pizzini tra le pagine della Bibbia”. “Il mio compito è quello di mostrare come fede e vita, fede e azioni, siano fortemente legate tra loro”.



Don Tenderini ha poi voluto concludere con un focus di natura più teorica, introducendo il concetto di giustizia riparativa, un approccio nato nei paesi anglosassoni, ma che a poco a poco si sta facendo strada anche nelle carceri italiane. Come recita la definizione fornita in occasione del Forum Europeo per la Giustizia Riparativa (2018), si tratta di “un approccio per affrontare il danno o il rischio di danno coinvolgendo tutte e tutti coloro che ne sono influenzati per raggiungere una comprensione comune e un accordo su come l’illecito possa essere riparato e la giustizia ripristinata”.
“Significa dunque chiamare in causa tutti coloro che sono stati implicati nel reato: l’autore dello stesso (il colpevole), la vittima, ma pure la comunità, la quale ha subito anch’essa una ferita” ha spiegato don Marco. “Praticare” una giustizia riparativa significa quindi prendersi cura delle persone, andare in profondità, con una vocazione diversa tanto, chiaramente, dalla giustizia vendicativa, quanto anche da quella retributiva, nella quale rimane sempre un debito da scontare, un qualcosa da pagare per ciò che è stato fatto.
“Il carcere così com’è oggi andrebbe chiuso” diceva Don Luigi Melesi (valsassinese, per oltre trent’anni cappellano a San Vittore), in riferimento all’approccio ancora vigente fino a poco tempo fa nel mondo detentivo italiano. E anche Don Marco ha sottolineato che “a lungo il carcere è stato soltanto una “università del crimine””, precisando anche quanto sia inutile e dannosa la permanenza dietro le sbarre per i tossico-dipendenti. “Il carcere pensato e vissuto nel modo sbagliato fa solo accumulare rabbia e rancore, che poi si riverserà nuovamente all’esterno, sulla comunità” ha spiegato.


Dal lato delle vittime, invece, non basta una punizione “esemplare” del colpevole, non basta dire “giustizia è fatta”. È necessario invece ricostruire dei legami, è la comunità stessa che vuole vedere uscire dal carcere una persona migliore di quella che vi è entrata. Anche a Lecco esiste, da undici anni, un Tavolo per la giustizia riparativa, L’Innominato, dove si lavora a dei percorsi per riabilitare e per “curare le ferite di tutti”, con tre diktat: ascoltare il dolore (della vittima, ma anche del colpevole), schiodare il rancore (far “venir fuori” il risentimento e la rabbia da tutti gli attori, in modo da affrontarli e sconfiggerli), riparare i legami.
Don Marco ha preferito, in chiusura, parlare di una giustizia rigenerativa, perché “riparativa forse è ancora poco. Non serve solo riparare, serve ricostruire qualcosa di nuovo, dei legami rinnovati: questo è il modo in cui ci si può prendere realmente cura di tutti. E questo è il vero futuro della giustizia”.
A.Te.
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