Mandello: la rocambolesca liberazione di Michele Zucchi in un libro italo-tedesco sugli internati
All’inizio, sembrava una normale presentazione di un libro. La sala consiliare del municipio di Mandello del Lario era gremita di concittadini e turisti, alcuni dei quali appena tornati da una scampagnata in riva al lago. “Vi ringrazio per essere presenti così in tanti. Di fatto con oggi inauguriamo la nuova edizione del festival della letteratura. Il testo che presentiamo si intitola “Abbiamo detto No: dieci internati italiani nei campi nazisti 1943 – 1945” ha esordito Doriana Pachera, assessore alla cultura.
Doriana Pachera
Al termine del saluto istituzionale, proprio come durante le normali presentazioni di libri, la parola è passata agli autori: Enrico Iozzelli, responsabile della didattica presso la Fondazione Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato; Susanne Wald, ricercatrice svizzera e collaboratrice del memoriale KZ Neuengamme di Amburgo. “Il libro nasce da una richiesta del Presidente del Comites di Hannover Giuseppe Scigliano. È stato lui a trovare i finanziamenti che ci hanno permesso di stampare gratuitamente il libro. Abbiamo avviato le ricerche nel 2019” ha spiegato la seconda. “Ogni testimonianza è in italiano e in tedesco. Laddove non siamo riusciti ad intervistare direttamente i sopravvissuti abbiamo cercato delle testimonianze scritte. L’aiuto delle famiglie è stato fondamentale”.
Susanne Wald
Enrico Iozzelli
Al di là del forte accento tedesco, l’italiano dell’autrice, come sottolineato dallo stesso Iozzelli, era pressoché perfetto. “Abbiamo cercato di scegliere delle storie di internati quanto più diverse tra loro per regione di provenienza, luogo di arresto... Come dimostrano i tanti virgolettati presenti nel libro, ci siamo impegnati affinché fossero gli stessi protagonisti a raccontare il loro vissuto” ha proseguito il ricercatore toscano. “Dopo l’armistizio dell’8 settembre, 650mila soldati italiani dovettero scegliere se passare o meno dalla parte dei tedeschi, diventati improvvisamente il nemico. In tanti si rifiutarono e per questo furono catturati e deportati dalle truppe di Hitler. Michele Zucchi era uno di loro”. Improvvisamente, silenzio. Tutti gli sguardi erano puntati su quell’anziano signore seduto al centro del grande tavolo.
Michele Zucchi
La normale presentazione di un libro si era appena trasformata in una testimonianza. “La sera dell’8 settembre, mentre ero di guardia, il mio comandante mi comunicò che Badoglio aveva firmato l’armistizio” ha esordito sospirando Michele Zucchi. Nato a Mandello il 2 marzo 1923 come primo di sei figli, Zucchi fu militare dal 5 settembre 1942 al terzo Reggimento di artiglieria e dal 26 ottobre 1942 alla settima Divisione Acqui. Dall’inizio di febbraio 1943, in particolare, egli fu dislocato a Cefalonia, teatro di uno dei più violenti eccidi tedeschi ai danni degli italiani dopo l’8 settembre. “Quando il giorno dopo i tedeschi vennero a chiedere quali fossero le nostre intenzioni, solo 3 ufficiali, 2 sottoufficiali e 5 soldati scelsero di trasferirsi dalla parte del nemico. Tutti gli altri 74, me compreso, si rifiutarono e non cedettero le armi” ha proseguito. “Alcuni giorni dopo iniziò il contrattacco tedesco. Hitler ci colpiva con la contraerea. Statunitensi e britannici ci invitavano a resistere dicendo che sarebbero arrivati. Il 22 settembre, tuttavia, i nostri ufficiali issarono bandiera bianca”. Le strade dell’isola erano costellate di morte. “I tedeschi ammazzarono tanti di noi anche dopo che si erano arresi. Hitler aveva dato l’ordine di non lasciare testimoni in vita. Tuttavia, noi fummo confinati in alcune abitazioni con del filo spinato intorno” ha raccontato ancora Zucchi. “Avevo tanta fame, cercavo con insistenza da mangiare. L’8 di ottobre fui fatto salire nella stiva di una barca insieme ad altri milletrecento internati. Una notte, mentre navigavamo in mare aperto, la nave fu colpita e iniziò ad affondare. Io fui salvato per poco da un’imbarcazione che passava di li”. Michele Zucchi si è fermato, ha sospirato di nuovo. “Benché decine di persone fossero state tratte in salvo, quando la nave se ne è andata sono sicuro che ci fossero almeno altri trecento prigionieri vivi. Avrei potuto essere uno di loro. Sono scoppiato a piangere”.
A.Bes.