SCAFFALE LECCHESE/141: Marco d'Oggiono fra i legami con la Brianza e la scuola leonardesca

Le cronache delle scorse settimane ci hanno raccontato del ritorno alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano della "Madonna del latte" di Marco d'Oggiono, dopo decenni di "mistero". Per tre secoli, il quadro era stato conservato proprio all'Ambrosiana dove ancora risultava essere nel 1951. Dopo di che, non si sa bene quando e come, del dipinto si erano perse le tracce. Trafugato. Tanto che nei cataloghi si parlava di "ubicazione ignota". Fino al 2021, quando un commerciante d'arte milanese se l'è ritrovato tra le mani e ha deciso di rivolgersi ai carabinieri. Così, dopo un opportuno lavoro di restauro, all'inizio del mese di febbraio, il dipinto - un olio su tavola - è tornato nella sua sede originaria.

La Madonna del latte - leggiamo sul sito della stessa pinacoteca- faceva parte della collezione di opere che il cardinale Federico Borromeo aveva acquisito nel tempo e che avrebbe poi donato nel 1618 all'Ambrosiana, dove è sempre stata esposta, ancora registrata nel 1951 nella guida redatta dal prefetto Giovanni Galbiati.
Donando il quadro alla pinacoteca, il cardinal Federico - proprio lui, quello manzoniano - pur collocando il nostro Marco tra i pittori minori, lo avrebbe messo al primo posto. Così ci ricorda Carlo Marcora nella grande monografia dedicata al pittore dall'editore lecchese Cattaneo e pubblicata nel 1976: un ponderoso volume che è stato sostanzialmente il primo catalogo completo dell'opera di Marco d'Oggiono: censite 91 opere e altre dieci di «meno probabile attribuzione». Nel 1989 si sarebbe poi aggiunto quello curato da Domenico Sedini per l'editrice Jandi Sapi di Roma ("Marco d'Oggiono, tradizione e rinnovamento in Lombardia").

Pittore vissuto a cavallo tra XV e XVI secolo, ai suoi tempi fu artista riconosciuto anche a Roma. Le sue opere oggi sono esposte in musei prestigiosi di tutto il mondo.
E' annoverato tra gli "allievi" di Leonardo, tanto più che lo scultore Pietro Magni decise di inserirne la figura nel monumento al genio di Vinci eretto in piazza della Scala e inaugurato nel 1872. In realtà, Marco si sarebbe avviato al "mestiere" ben prima dell'incontro con il grande artista fiorentino. Nella cui bottega fu comunque presente e affermandosi poi nella produzione di copie leonardesche, a partire dall' "Ultima cena". L'abate oggionese Giacinto Longoni scriveva: «Chi fra i discepoli di quel sommo artista assumevasi l'impegno di copiare quel mirabile affresco fuorché Marco , che già sembrava presagire le sventure e il deperimento al quale dovea soggiacere? Tre copie egli eseguì, una pel chiostro di S. Barnaba, l'altra più vasta ed a fresco pel convento di Castellazzo e la terzą pei Certosini di Pavia, i quali ammiratori del gran Leonardo, vollero avere pel loro refettorio una copia , che fu invero la migliore e più pregevole, essendo stata eseguita sull'originale e della stessa dimensione, e questa copia, dopo varie vicende fu trasportata a Londra e ammirasi ora nell'Accademia di quella grande metropoli del mondo. Marco d'Oggiono moltiplicando col suo pennello l'ultima Cena di Cristo, quel dogma rigeneratore della cattolica religione pareva che volesse quasi protestare contro gli errori che incominciavano a divulgarsi e rinfrancare così gli artisti d'allora nella coscienza della loro missione. Così le copie dei Cenacoli che vedemmo per lui moltiplicarsi furono per così dire altrettanti vessilli sui quali venne vieppiù a basarsi l'articolo fondamentale della fede comune, per cui l'artista può dire ch'egli pur avea cooperato in un col suo sommo maestro al progresso dell'arte, all' incivilimento morale».

Troviamo queste righe in "Cenni sui dipinti di Marco d'Oggiono" che l'abete Longoni - conosciuto anche per i suoi studi sull'abbazia di San Pietro al Monte di Civate - stampò con la lecchese Tipografia Corti nel 1858, quando l'interesse per il pittore si stava ridestando dopo un paio di secoli d'oblio. E fu «la prima pubblicazione dedicata interamente all'Oggiono - osserva il Sedini -. L'intento celebrativo e campanilistico inficia gran parte dei giudizi, tuttavia il numero dei lavori e alcune proposte, forse riprese dal Cantù, circa gli inizi lombardi dell'artista, fanno dell'opuscolo un importante punto di riferimento.» Peraltro rimasto a lungo l'unico contributo allo studio del pittore. Pur con qualche errore - annota il Marcora - facendosi il Longoni «portavoce di una tradizione locale» e accennando «addirittura a una costruzione che dovrebbe essere stata la casa di Marco, ove a riparazione di tanto oblio verso l'illustre figlio artista, si inaugurò una lapide commemorativa».

La casa in questione «si trovava in località "ad Calcheram" ma per l'esatta collocazione si deve tener conto che, come suggerisce il catasto teresiano, dal Settecento in poi il quartiere ha subito rimaneggiamenti profondi»: così Virginio Longoni, lo studioso oggionese scomparso nel 2011, nel suo "Umanesimo e Rinascimento in Brianza" edito da Electa nel 1998. Ed è pubblicazione dalla quale si ricava la maggior mole di informazioni sulla figura del nostro pittore. Che, pur onorato non solo nella toponomastica (Lecco gli ha intitolato una via, Oggiono anche una scuola e addirittura un prosciutto), resta personaggio un po' misterioso, non solo per gli sprovveduti. Frutto, forse, di una critica spesso maligna tra Otto e Novecento. Come testimoniato da alcuni testi ricordati da Marcora: «Marco d'Oggiono, sproporzionò negli occhi gonfi, negli zigomi distanti e nelle molli mani le forme perfette del maestro. Marco d'Oggiono, forse il più debole e goffo tra i leonardeschi. Le sue composizioni mancano di carezza, il suo colorito, specialmente con l'avanzare degli anni si fa stonato nella sua eccessiva vivacità». Proseguendo su questa china. Michele Mauri (autore, nel 2019, di un volumetto per l'editore Bellavite: "Tre brianzoli alla bottega di Leonardo.") ci segnala la «caustica sentenza di Kenneth Clark che senza mezzi termini definisce il suo stile "particolarmente rivoltante". (...) Il misfatto è quello di essere stato un pedissequo copista di Leonardo».

Alla lunga, dunque, l'accostamento a Leonardo ha finito con il nuocere alla fama di Marco, come fa rilevare proprio Virginio Longoni: «Da un lato rendendolo famoso per luce riflessa, dall'altro facendone una sorta di pre-giudicato, nel senso che quanto di buono rivelino le sue opere sarà farina del sacco di Leonardo mentre le pecche saranno l'impronta inconfondibile di Marco.»
«I suoi lavori - scrive Mauri - fin dal principio diventano un centro di propagazione dei modelli leonardeschi. Del resto egli assimila il clima fortemente innovativo dello studio di Leonardo negli anni Novanta del Quattrocento. E presto traduce gli insegnamenti ricevuti in alcune delle prime entusiastiche adesioni alla poetica vinciana. (...) Il più delle volte le sue opere raggiungono un'indubitabile qualità. Certo, il d'Oggiono non è un artista innovativo, almeno non nel senso forte e completo della parola. Di fronte alle sue opere - proprio nel momento in cui speriamo di incontrare il genio - ci si accorge che spesso è solo talento, immenso talento quello in cui ci imbattiamo. Nei dipinti particolarmente riusciti si dimostra comunque un attento e talvolta anche originale interprete dai canoni vinciani.» Dai quali peraltro, secondo Virginio Longoni, sembra staccarsi con l'avanzare dell'età.


Comunque, il "nostro" Marco sarebbe nato a Milano (probabilmente nel 1470). Oggionese era il padre Cristoforo (civatese, invece, la madre Isabella o Elisabetta) che si era trasferito a Milano nel 1466 dedicandosi all'oreficeria che allora era mestiere di ben più largo respiro rispetto a oggi. Così che le stesse committenze per Marco passavano attraverso la bottega paterna. E attraverso il padre, veniva mantenuto il legame con la Brianza.

«La critica tradizionale - scrive Virginio Longoni - ha trascurato i legami dei d'Oggiono con le proprie radici, considerandoli cittadini milanesi a tempo pieno. Simile semplificazione potrebbe far perdere le tracce di un certo provincialismo ereditato e minimizzare l'interesse per le opere di Marco rimaste al paese. Dalla Brianza Cristoforo d'Oggiono non si era certo staccato. Egli usava affidare la formalizzazione dei propri traffici al notaio Antonio Gadio, che era originario di Mandello e che aveva, a Milano, una clientela legata al Lecchese.» E, ancora, i rapporti con gli Agudio di Malgrate, i Corno di Porchera e «con diversi Longhi, lecchesi con ramificazioni nel Monte di Brianza, nonché con gli immancabili Lacanalle, oggi Canali.». Da parte sua, Marco in Brianza trovò moglie, Ippolita Buzzi, sposata nel 1508: «I Buzzi, una delle tante parentele calate dal bergamasco, avevano radicato una loro colonia a Costamasnaga». Senza dimenticare altri affari e le proprietà da amministrare. Per esempio, nel 1516, morto il padre, Marco avrebbe venduto parte o tutta la famosa casa oggionese ai fratelli Pierantonio e Francesco Isacchi.

In quanto al mestiere di pittore, qualche interesse Marco lo aveva qui. Realizzò, per esempio, un affresco, oggi perduto, nella vecchia basilica di San Nicolò a Lecco. E lavori per Oggiono: la prepositurale di Sant'Eufemia conserva l'affresco della Madonna della Consolazione e il polittico dell'Assunta che, con una Madonna di Besate, è ritenuta l'ultima opera dell'artista. Cita il Marcora: «Non ha gli Apostoli terminati, così si ha motivo di credere che Marco sia stato colto dalla morte». Secondo altri studi - e ce ne dà conto il Sedini - il polittico «dagli evidenti limiti stilistici, sarebbe da considerare lavoro di allievi, successivamente alla morte del maestro». Morte che si verifica nel 1524 quando la peste - scrive Virginio Longoni - «si accanì contro la famiglia mietendo anche la vita dell'erede naturale, il giovanissimo Cinzio» mentre la figlia Francesca nel 1528 «dichiarava di volersi fare suora presso il convento benedettino di Brugora», a testimoniare dunque che il legame con la Brianza non era stato mai reciso.
Il polittico, tra l'altro, ha avuto storia travagliata. Come ci racconta ancora Marcora, rilevando come nel 1608, in occasione della visita pastorale dello stesso Federico Borromeo, la pala risultasse ancora integra per poi essere smembrata: «Le diverse tavole che erano un po' disperse per la chiesa furono riunite nel 1873. (...) I diversi pannelli pare che siano appartenuti all'antichissima famiglia oggionese dei Riva-Finoli. Benedetto Riva li regalò alla chiesa prepositurale nel 1873. Cesare Riva, trovato nell'archivio di famiglia il disegno originale del quadro, lo mostrò al Prevosto e dai Fabbriceri si provvide all'attuale pala».

Tornando alla Madonna del latte, si tratta di un soggetto in auge proprio nei decenni a cavallo tra Quattro e Cinquecento, gli anni dunque della parabola esistenziale di Marco d'Oggiono (che infatti ne dipinse più d'una).Ce lo ricorda Natale Perego che alla Madonna del latte ha dedicato un'accurata ricerca locale, i cui risultati sono confluiti in un libro pubblicato nel 2005 nella collana di etnografi e storia dell'editore Cattaneo: "Una Madonna da nascondere. Devozione per la ‘Madonna del latte' in Brianza, nel Lecchese e nel Triangolo lariano".
Introducendo la ricerca, Perego spiega infatti: «"Una Madonna da nascondere" ho titolato. Credo che anche un simile titolo faccia arricciare il naso a qualcuno oltre a farlo riflettere. Eppure, la storia di questa Madonna dopo il momento di massima fioritura, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, registra una progressiva emarginazione. Qualcuno arriccerà il naso perché penserà ad alcuni santuari della Brianza che hanno sull'altare maggiore proprio l'immagine della "Madonna del latte" o perché qualche recente lodevole intervento di recupero ha riportato alla luce una sua immagine o perché in qualche parrocchia viene distribuita la stampa devozionale della Vergine allattante.

Sono anche questi aspetti importanti, certamente da non disconoscere, ma non sufficienti ad arginare il significato lampante di alcuni dati statistici, a ribaltare la storia di nascondimenti e ritocchi, a modificare titolazioni di chiese e santuari, titolazioni inspiegabili se non con la volontà di sovrapporre alla "Madonna del latte" altre simbologie meno imbarazzanti e più ortodosse».
Dario Cercek
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