SCAFFALE LECCHESE/137: i libri dedicati alla dolorosa storia di Eluana Englaro

«E je lade Bepino, tu le as liberade»: se ne è andata, Beppino, l'hai liberata. Il 9 febbraio 2009 moriva Eluana Englaro, la ragazza lecchese sopravvissuta a un incidente stradale ma rimasta per 17 anni in stato vegetativo. Per l'anagrafe, quel 9 febbraio, Eluana aveva 38 anni, compiuti da pochi mesi, ma in realtà la sua vita era finita a 21. Era il 18 gennaio 1992, quando restò gravemente ferita: finì in coma, si risvegliò, ma appunto trascorse il resto dei suoi giorni in stato vegetativo. Il padre Beppino li ha contati tutti, quei giorni: 6233. Buona parte dei quali trascorsi a chiedere che si mettesse fine a quel calvario, che si interrompesse l'alimentazione artificiale con la quale veniva mantenuta in vita la giovane. Con tenacia ma anche con una compostezza quasi straniante di fronte alla virulenza di chi lo additava addirittura come assassino. E facendo anche fronte a un destino che lo volle caricare d'ulteriore sofferenza, quando la moglie Saturna venne attaccata da un tumore che l'avrebbe portata alla morte nel 2015.



Una battaglia legale durata una quindicina d'anni per ottenere che fosse riconosciuto il diritto di non restare al mondo in quelle condizioni. Giorno dopo giorno, sentenza dopo sentenza. Perché soltanto passando per i tribunali si arrivò a quel riconoscimento. Che ha contribuito ad arrivare a quella legge sul testamento biologico che proprio in questi giorni ha compiuto cinque anni. La politica anche in quell'occasione si dimostrò inadeguata: in particolare quella destra al governo allora come oggi, sprezzante e spietata fino al grottesco.
A raccontare tutti quei giorni ci sono due libri scritti dallo stesso Beppino Englaro, in collaborazione uno con Elena Nave della Consulta laica di bioetica e l'altro con la giornalista Adriana Pannitteri.
Il primo, "Eluana. La libertà e la vita", fu stampato dall'editore Rizzoli nel novembre 2008, un paio di mesi prima dell'addio a Eluana, dunque. Beppino Englaro concludeva in questo modo: «Scrivo queste parole sempre sperando che siano le ultime, fiducioso che la nostra uscita dalla scena pubblica sia sempre più vicina. Sono stato costretto, finora, a dare voce a mia figlia e non lo vorrei più fare. (...) Basta inseguimenti: chiedo a nome della mia famiglia il giusto riserbo, la dovuta riservatezza per porre fine a quanto, nei suoi meccanismi medico-giuridici-mediatici, non avremmo mai nemmeno immaginato che potesse esistere. Eluana merita il loro riguardo. C'è una ritrosia, una forma di pudore di chi si arresta poco prima della soglia che crediamo sia la massima espressione di rispetto nei confronti del dolore, privato, degli altri uomini. Questo ci attendiamo dal prossimo: che la morte di Eluana avvenga protetta e custodita dal più fragoroso dei silenzi». Sappiano che non andò così.
L'altro libro, "La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno Stato di diritto" dedicato «ai ‘grandi' della magistratura italiana, non servi di alcun potere», sempre stampato da Rizzoli, uscì invece nel 2009, a destino ormai compiuto. Si chiude con una "ballata" del poeta Guido Ceronetti: «Urlate urlate urlate, urlate./ Non voglio lacrime. Urlate. /Idolo e vittima di opachi riti/ Nutrita a forza in corpo che giace/ Io Eluana grido per non darvi pace».


A questi due libri, va aggiunto "Gli ultimi giorni di Eluana" (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, 2010) di Amato De Monte e Cinzia Gori, marito e moglie friulani, lui medico anestesista, lei infermiera: con altri volontari, hanno curato la ragazza lecchese nelle ultime ore della sua vita. Sappiamo che, nonostante una sentenza avesse ormai autorizzato la sospensione dell'alimentazione forzata, le autorità sanitarie chiusero ovunque ogni porta. E soltanto nella casa di riposo "La Quiete" di Udine, dunque in quel Friuli che è terra di origine di papà Beppino, Eluana Englaro trovò ospitalità.
«La tragedia ci colse lontani e impreparati - è il racconto del papà -. Io e Saturna, la mamma, eravamo in Trentino Alto Adige, per una settimana bianca, Eluana, invece, aveva preferito rimanere a casa, a Lecco. Le avevamo lasciato la nostra auto ed eravamo partiti con la sua piccola utilitaria per la Val Pusteria. Parlammo con le l'ultima volta la sera precedente, ci sentimmo per
Beppino Englaro
telefono verso e dieci e mezza: era stanca, già in pigiama, le tapparelle abbassate per la notte. (...) Ci salutammo come fosse la fine di un giorno qualunque. Ma la sorte virò, disonesta, all'improvviso. Eluana fu chiamata da alcuni amici che insistettero affinché andasse al Kalcherin, uno dei pochi locali di ritrovo giovanili esistenti al tempo nella nostra zona, dove c'era una festa a cui lei, l'anima della loro compagnia di ventenni, non poteva assolutamente mancare. Eluana alla fine cedette, tolse il pigiama, prese la mia Bmw dal garage e si avviò, sicura e ignara, a Garlate. (...) Stettero insieme fino a notte tarda. (...) Alle tre e mezzo, sulla strada provinciale, l'auto di Eluana slittò sull'asfalto ghiacciato, entrò in testacoda e si schiantò contro un muro e un palo».
Un incidente stradale come tanti ne accadono. Ne erano e ne sono piene le pagine dei giornali. In questo caso ne sarebbe seguita una vicenda giudiziaria che, pur tra accese polemiche, avrebbe contribuito a far riflettere su quello che oggi viene chiamato "il fine vita". Da parte sua, Beppino Englaro aveva un ostacolo ulteriore, vale a dire testimoniare che le volontà di Eluana fossero appunto quelle di non volere «per nessuna ragione rimanere in una condizione del genere».
«In quei primi giorni - prosegue il racconto -, in quell'assaggio dell'inferno a venire, furono tremendi gli incontri con la dottoressa (...) fu la prima con cui affrontai la questione prioritaria - l'unica questione importante: la volontà di Eluana non era quella di tentare tutte le possibili per ricevere in cambio una vita dalle condizioni di totale indegnità. La dottoressa mi parò di protocolli rianimativi e percorsi prestabiliti per i quali vige esclusivamente la ricerca spasmodica della stabilità dei parametri vitali. (...) Le porte della ritirata erano sbarrate, la vita di Eluana sotto il dominio dei protocolli rianimativi».
Le riflessioni di Eluana, il momento in cui manifestò quella sua volontà al centro della battaglia legale, risalgono a due episodi. Uno «pubblico che scosse profondamente la nostra coscienza: il caso dello sciatore valdostano Leonardo David, classe 1960, stimata promessa dello sci italiano. (...) A seguito di due rovinose cadute sulle piste, nel febbraio-marzo 1979, questo campione subì gravi danni cerebrali e cadde in uno stato vegetativo permanente dal quale non si riprese più. Venimmo così a conoscenza di un modo dello stare al mondo inedito e terribile, ed Eluana, piccola quando si verificò l'incidente dello sciatore, si ricordò di lui, che era passato da Lecco per delle cure, e ne seguì le vicende fino alla morte, che avvenne il 26 febbraio 1985». L'altro episodio è del 17 gennaio 1991, quando «una sorte simile capitò a un amico di mia figlia, Alessandro detto Furia, entrato in coma a seguito delle lesioni riportate durante un grave incidente in moto. Eluana andò a fargli visita proprio in quel reparto di rianimazione che un anno esatto dopo avrebbe accolto lei, in condizioni analoghe. E rimase profondamente turbata da quello che vide. Quando tornò a casa ci chiamò a raccolta e parlò grave: cosa stavano facendo al suo amico? Che senso aveva quel rimanere attaccato ai tubi dei presidi medici nella speranza di sfuggire alla morte restando gravemente disabile? Riteneva quella sopravvivenza forzata inaccettabile, umiliante e inutile. (...) Fu allora che ci chiese di essere protetta da una tale, spaventosa, condizione di vita. "Se dovesse accadere una cosa del genere a me, voi dovete intervenire, dovete farlo di corsa. Se non posso essere quello che sono adesso, voglio essere lasciata morire. Io non voglio per nessuna ragione rimanere in una condizione del genere". (...) Le sue considerazioni erano un desiderio legittimo o una pretesa ingiustificata? A noi sembrò, a tutti gli effetti, un'aspirazione ben fondata. Ottenne la nostra parola».
Senza prevedere che nel giro di poco tempo i genitori sarebbero stati chiamati a onorare quell'impegno, la parola data.
«Nel gennaio 1994 si ebbe la diagnosi prognosi definitiva. Eluana non sarebbe più tornata, Si trovava e sarebbe per sempre rimasta in stato vegetativo permanente. Anche la medicina dovette arrendersi. (...) Lasciammo l'ospedale dopo avere affrontato la questione della nuova, definitiva dimora di Eluana. (...) Spesso quando si opta per la domiciliazione, il paziente può essere sistemato nella casa dei suoi cari per poi essere dimenticato dall'assistenza sanitaria. Sapevamo quant'era intenso l'impegno necessario a fronteggiare una tale situazione e trovammo nella Casa di Cura Lecco il luogo più idoneo all'assistenza di una figlia inerme».

Nel 1995, assistendo a una trasmissione televisiva, Englaro sentì parlare di eutanasia un neurologo dell'ospedale di Bergamo, Carlo Alberto de Fanti. Andò a cercarlo, un giorno di dicembre: «Scaturì una profonda intesa data dalla comune opinione a cui eravamo approdati per mari differenti: la mia famiglia da un'esperienza personale, il medico da quella professionale di primario».
Nel 1996, sempre a dicembre, il tribunale nominò papà Beppino tutore della figlia. E' in tale veste che presentò la richiesta ufficiale per interrompere l'alimentazione artificiale- Tre anni dopo, il "caso" da privato divenne politico, conquistando le pagine dei giornali.
«Si era messo in moto un meccanismo - leggiamo ancora - che ci avrebbe stritolato e il cui unico obiettivo, doveroso per loro sul piano etico, era quello di tenere in vita il paziente. O, meglio, di non farlo morire. Come e a quale prezzo era un problema del tutto insignificante. Una questione che scottava e uno scontro di paradigmi: da un lato una certa cultura della vita che finisce per stravolgere profondamente il ruolo del medico chiamato a custodirla senza limiti; dall'altro la nostra cultura della libertà che poteva giungere consapevolmente all'affermazione più estrema, il diritto di lasciarsi morire, di disporre del proprio corpo e come logica conseguenza di impedire che altri possano impossessarsi dell'esistenza altrui. Il no di Eluana, che noi ben conoscevamo, le obiezioni della nostra famiglia ai medici, che ci parlavano di "stato di necessità", venivano al più tollerati, perché si riteneva che solo gli esperti, la religione o la filosofia, potessero indicare che cosa è il bene e che cosa il male».
Quando, in quel febbraio 2009, Eluana se ne sarebbe andata, di fronte al corpo esanime, il papà avrebbe guardato «inebetito mia figlia inerme, sola al centro di quella stanza troppo grande. Tutto quel gelo, quella disumanità attorno al suo corpo, la violenza di chi si era impossessato di lei per tanto tempo. Guardavo Eluana, che era stata ostaggio dei sostenitori della vita a ogni costo, della carità che pretende sempre di essere amore, della pietà che è una tortura, e pensavo: se solo voi sapeste davvero cosa significa dover attendere la morte e desiderarla come il minore di tutti i mali, non avreste inflitto a Eluana lo strazio di tutti quei giorni e quelle notti, in un letto, in balìa degli altri».

In quegli ultimi giorni di vita di Eluana ci toccò assistere addirittura a sedute parlamentari straordinarie per approvare a tambur battente una nuova legge che impedisse l'applicazione di quelle sentenze con le quali la magistratura aveva ritenute legittime le richieste del padre di quella ragazza. Ci risparmiamo certi commenti ascoltati allora, ma indubbiamente fu «uno spettacolo miserabile» per usare le parole di Cinzia Gori.
E proprio nelle parole di Gori e De Monte troviamo la ricostruzione di quelle ultime ore febbrili tra il 2 e il 9 febbraio 2009, tra la sera in cui un'ambulanza prelevò Eluana dalla casa di cura lecchese per trasferirla a quella udinese e la sera del decesso. Con tutto il corollario. Dalle preoccupazioni mediche per un trasporto che avrebbe potuto essere rischioso ai picchetti dei manifestanti pro vita, dalle dirette televisive alla sorveglianza attenta dei carabinieri, da una parte per proteggere lo stesso De Monte da possibili aggressioni e dall'altra con il mandato dell'autorità politica di individuare eventuali irregolarità a cui aggrapparsi per fermare tutto.
Fino a quella sera del 9 febbraio, quando Eluana cessò di respirare e De Monte chiamò Beppino: ««E je lade, tu le as liberade»
«Alcuni - scriverà poi De Monte nel suo libro - avrebbero preferito che Beppino si fosse portato la figlia a casa già da tempo, o piuttosto all'estero. Costoro sono disposti ad accettare che questo genere di cose accadano di nascosto fra le pareti domestiche, senza ufficialità, senza turbare le coscienze altrui, nel silenzio omertoso dei parenti. (...) Ciò che da alcuni viene giudicato inaccettabile è proprio il fatto che assecondare la volontà di non continuare la propria vita in condizioni estreme, venga considerato giusto dal punto di vista morale e lecito dal punto di vista giuridico».
Che è poi così difficile stabilire certe frontiere. Come scrive, nello stesso libro "Gli ultimi giorni di Eluana", Ines Domenicali, all'epoca presidente della "Quiete", la quale tra l'altro ha attraversato lo spavento di una figlia che per un'emorragia cerebrale ha rischiato il calvario di Eluana: «Non so dove siano il confine, la linea, il limite di là dei quali la terapia e l'assistenza diventano accanimento e tortura. Né credo che possano essere indicati per astratto, in teoria, tanto meno per legge. Ma credo di sapere, avendolo vissuto sulla mia pelle, dove quella linea si collochi quando si tratti di decidere per una persona amata e per sé stessi».
«No, non siamo degli assassini - il commento di Englaro -. Lo sanno le centinaia di persone, anzi migliaia, che si sono schierate idealmente al mio fianco, che hanno compreso il senso di questa battaglia».
Dario Cercek
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