SCAFFALE LECCHESE/130: 'L'isoletta de' cipressi' torna in libreria, 200 anni dopo la prima edizione

“L’isoletta de’ cipressi” è un breve romanzo pubblicato a Milano nel 1822. Duecento anni fa tondi, dunque. E’ una storia d’amore ambientata tra la Vallassina e il lago di Pusiano. Tragica la trama, amaro il finale. Si tratta di un romanzo – o, forse meglio, di un racconto lungo - non eccelso. Ma specchio di una certa epoca. Ed è proprio quale specchio di un tempo che torna in libreria dopo due secoli.
Alla prima edizione milanese ne seguì immediatamente una seconda, sempre milanese, e successivamente una terza a Napoli del 1824. Dopo di che, nulla più. Ora, appunto duecento anni dopo, viene rispolverato per iniziativa ancora della lecchese Polyhistor che al recupero di un Ottocento minore ha dedicato i primi titoli della collana di narrativa non a caso battezzata “Cose del mondo ignoto” con tanta benemerita attenzione per il nostro Antonio Ghislanzoni.

Davide Bertolotti

Autore dell’“Isoletta” è Davide Bertolotti che fu giornalista e traduttore. Nato a Torino nel 1784, lasciò il Piemonte sabaudo nel 1812 per abitare nella Milano austriaca dove rimase una decina d’anni prima di andarsene inizialmente a Firenze e poi a Napoli e infine tornare nella sua Torino dove morì nel 1860. Franco Minonzio, l’editore e curatore della nuova edizione, ce lo ritrae come un personaggio opportunista, abile a capire dove tirasse il vento. Svelto quindi nell’allinearsi politicamente e perciò, pur non scansando del tutto certe noie poliziesche, attirandosi non pochi sospetti da parte dell’intellettualità risorgimentale. Ma anche svelto nell’intuire i mutamenti culturali: una nuova platea di lettori che era quella femminile e alla quale si rivolgevano pagine tanto lacrimose per vicissitudini amorose, ma anche i nuovi bisogni della borghesia trionfante alla quale erano destinate quella sorta di guide turistiche che avevano cominciato a diffondersi, nel solco del mito del grand tour.. E infatti, Bertolotti viene ricordato soprattutto per il “Viaggio al lago di Como”, opera del 1821 e della quale si sente un’eco anche nell’“Isoletta”.

La copertina di “L’isoletta de’ cipressi”

La nuova edizione del romanzo riprende la seconda milanese che aggiungeva quale appendice al romanzo la novella “Il Sasso Rancio”, altra tragica storia d’amore ambientata questa tra Menaggio, Gravedona e il monte Legnone. E che è proposta da Bertolotti come una vicenda reale raccontatagli da un parroco lariano, «uomo di credenza degnissimo». Del resto, secondo Minonzio, la stessa vicenda dell’“Isoletta” potrebbe attingere a una tradizione locale.
Il protagonista dell’“Isoletta de’ cipressi” si chiama Eugenio, nato nel villaggio di Bosisio «nell’anno istesso che il Parini pubblicò il suo immortale “Mattino”» e che all’età di sette anni se ne va a Parigi al seguito di uno zio. Dopo vent’anni torna alla sua terra d’origine e si innamora di Clotilde, una giovinetta di Garbagnate. L’amore è ricambiato, ma non può essere coronato dalle nozze per motivi che lasciamo al lettore scoprire con tanto di clamorosi colpi di scena . Diciamo semplicemente – perché si sarà capito – che lei muore e lui se ne va in America dopo aver seppellito il cadavere dell’amata proprio sull’Isola dei Cipressi: «Egli fece disporre al pi del più venerabile di quei funebri alberi la preziosa spoglia della giovinetta disavventurata. E tutto intorno, disposto ad ajuole il terreno, piantò odorosi arbusti e fiori d’ogni maniera. E poscia, andato Jacopo (un amico, ndr) per compiacerlo a Milano, ne ricevè un bellissimo zoccolo di marmo bianco, ed un’urna di alabastro da imporvi sopra, con che formò un monumento a Clotilde, ed al piè dell’urna scrisse “Alla donna più infelice!... Alla donna più meritevole d’esser felice!...». Sarà, quella tomba, distrutta dai pescatori locali perché vista come una maledizione.

L'isola dei Cipressi

Amore tragico anche quello della novella “Il Sasso Rancio”. Questa volta, le nozze tra gli amati sono impossibili per l’opposizione del padre di lui e l’esito fatale – conclude Bertolotti – possa «servire da ammaestramento a que’ padri, i quali nelle nozze de’ loro figliuoli non la felicità di questi, ma la propria ambizione hanno in mira»: epilogo moralizzante facile e in fondo deludente, la chiosa di Minonzio.
Bertolotti non tralascia quindi riflessioni, considerazioni e digressioni. Come a proposito della processione del Venerdì Santo a Canzo «che ricorda i Misterj del medio Evo» e dando pure voce al partito degli scettici: «V’ha da taluni i quali, sperando di comparir filosofi, si fanno beffe di tale solennità (…). Altri la condannano come parto delle barbariche età: ed altri infine, reputano che debbano estirparsi, come quelle che alimentano la superstizione nelle credule menti del popol minuto». Risponde agli uni e agli atri, invitando a lasciare «al popolo le ghirlande di fiori, i profumi dell’incenso, lo splendor delle faci, le auree vestimenta de’ sacerdoti ed il canto in canto ora penitente or festoso». Purché – conclude - «non si riaccendano i roghi a punir l’uomo di non credere ciò che non credibil gli sembra, sia pure concesso alla moltitudine di trovar diletto nell’adorare, e di amare nella religione anche la fonte de’ suoi sensuali conforti».

L’una e l’altra storia, però, sono raccontate in maniera abbastanza spiccia, senza che lo sguardo si estenda realmente al mondo che fa da cornice se non, come già accennato, per indugiare su descrizioni da baedeker.
Per esempio, quando ci racconta di Beatrice, la madre di Eugenio che, rimasta vedova dopo la partenza per Parigi del figlio, «passò a seconde nozze in Ballabio. Chi di Val Sassina viene sul territorio di Lecco, uscendo da quelle gole romite e giungendo presso a Ballabio, scorge a sé dinanzi una scena che per l’insolita grandezza a singolare meraviglia lo trae. Da quell’eminenza il suo sguardo si bea di un’impareggiabil veduta sopra la soggetta verdeggiante valle, tutta sparsa di edifizj pel lavoro del ferro, del rame e della seta; indi vagheggia gli azzurri rivolgimenti del lago, frenato da un ponte ove principia a correr quel fiume, e finalmente, passando oltre i dirupi che il Lario dividon dall’Eupili, spazia pei beati colli Briantei, biancheggianti di casali e di ville». E in Valsassina, il nuovo marito di Beatrice è dedito al contrabbando, «che grande allor facevasi per quelle rocce, le quali, le quali partivano i dominj dell’Adriatico leone da quelli dell’aquila dal gemino capo» vale a dire «quei monti che erano il naturale confin tra lo stato di Venezia il territorio soggetto all’Impero asburgico» come “traduce” Minonzio che ha scelto di accompagnare il testo originario con una versione moderna per facilitarne la lettura.
Da parte sua, continuando l’“escursione” lecchese, Bertolotti sfiora anche Laorca, «sito degnissimo di riguardo per le stupende sue grotte di stalattiti» che altri viaggiatori avevano e avrebbero decantato.
Passando in Brianza, arriva a Oggiono e accenna ai dipinti di Marco ma anche alle  «avvenenti donne» che noi oggi sappiamo avere ammaliato anche Stendhal (QUI l'articolo),
nella sua escursione del 1818. Bertolotti non poteva saperlo. A meno che… Del resto, i due stavano di casa a Milano nello stesso periodo. Il pensiero è suggestivo.

La via regina al Sasso Rancio

Del “Sasso Rancio”, invece, Bertolotti dipinge il paesaggio e i suoi abitanti: «Sulle rive sì amene del Lario, là dove più allargasi l’argenteo specchio dell’acque, siede Menaggio, ragguardevol terra, bagnatadal torrente Sanagra ed abitata da uomini che  con profitto esercitano il traffico. Sporge novellamente in fuori indi il monte, e con lunga catena di scogli il lago indietro respinge. Il colore tra il rosso e il giallo, derivano dalle ferruginee parti ond’è impregnata la roccia, hanno fatto imporre a queste scoscese balze il nome di Sasso Rancio. Corre lungo esse asprissime rupi la via Regia o Regina, che il pedestre viandante guida d’Italia in Lamagna. Ma tale è quivi per un tratto la sua angustia e la ripidezza e il pericolo, che se un piè in fallo tu metti, ti sfracellano le inique ripe pria che le profonde acque ti diano sepolcro».
Accenna inoltre al culto di santa Rosalia diffuso in molti paesi dell’Alto Lario, testimonianza dell’emigrazione dalle nostre terre di lago e di monte verso la Sicilia e l’opulenta Palermo spagnola alla ricerca di un lavoro.


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Dario Cercek
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