SCAFFALE LECCHESE/128: Cesare Cantù e la Grande illustrazione del Lombardo-Veneto

Di Cesare Cantù, scrittore e storico ottocentesco nato a Brivio dove pure è sepolto, questa rubrica si è già occupata e tornerà inevitabilmente a farlo. Senza forse riuscire a fornirne un ritratto esauriente, tanti sono, tra luci e ombre, i profili offerti. L’uomo, certo, non peccò di pigrizia. Fu infaticabile, va riconosciuto. E forse proprio il dividersi tra mille progetti fu causa – come rilavato da molti critici fin dai tempi suoi - di qualche superficialità di troppo, di pagine poco attendibili, eccessi di approssimazione in un un’epoca in cui peraltro non si può ancora parlare di storiografia rigorosa, visto che anche testi di capitale importanza annoveravano non poche leggerezze.
Sferzante Carlo Dossi nelle sue “Note azzurre”: «Un libro curioso sarebbe quello in cui si raccogliessero le castronerie della gente dotta, a cominciare da quelle di Cesare Cantù» il quale è pure definito «un letterato ciabattino. Forbice e colla, ecco il suo stile» e «già sulla lista dei grandi che hanno da diventare piccoli».



Infaticabile, però, si diceva: autore di saggi e racconti e romanzi, giornalista, archivista, insegnante, promotore culturale, letterato di successo, anche deputato del Regno. Ebbe pure non trascurabili guai politici, nonostante non fosse propriamente un cuor di leone. Accusato dal governo austriaco di cospirare con la Giovine Italia si fece undici mesi di carcere tra 1833 e 1834 (e fu in quel periodo di reclusione che si mise a scrivere “La Madonna d’Imbevera”) per poi essere radiato dall’insegnamento, mentre nel 1848 sfuggì all’arresto rifugiandosi trovando rifugio tra Piemonte e Svizzera.
Con tutto che «assunse pubblicamente posizioni tutt’altro che ostili a Vienna, assunse cariche pubbliche (la segreteria dell’Istituto lombardo di scienze e lettere), criticò apertamente il governo piemontese, mostrò comprensione per il progetto di uno Stato autonomo affidato a Massimiliano [d’Asburgo]». Il progetto era quello del Lombardo-Veneto.
Non è dunque un caso che nel 1857 Cantù pubblicò la “Grande illustrazione del Lombardo-Veneto”, opera ambiziosa che intendeva fornire un panorama il più completo possibile «delle città, dei borghi, dei comuni, dei castelli, ecc. fino ai tempi moderni» di questa parte d’Italia, sotto l’aspetto storico, economico e culturale.



Non si trattava di una fatica tale da impensierire lo studioso briviese che tra il 1838 e il 1846 aveva dato alle stampe una ciclopica “Storia universale” che il solito Dossi definì «spropositata» raccontandoci che «su Cesare Cantù, correvano i seguenti versi, chi dice di Giunio Bazzoni, chi di C. Correnti – La storia universale – scrive come niente – All’Austria ha dato il sale, ai frati la virtù… - Ma un genio onnipossente – è il cavaliere Cantù – Quando la penna smette, - sbrodola sentimento – e quelle poverette – che sognano virtù – sono un divertimento pel cavaliere Cantù (….)».
Eppure, poco meno di un secolo dopo, nel 1930, l’accademico Guido Mazzoni scriveva sulla nascente Enciclopedia Italiana (appunto la Treccani): «Conviene innanzi tutto riconoscere che fu quello uno sforzo gigantesco e, sommato tutto, fu uno sforzo felice, perché il pubblico italiano e non l’italiano soltanto, imparò una quantità di vicende storiche, di produzioni artistiche, di costumanze e di opinioni, non ancora mai raccolte ordinate in forma largamente accessibile, e dilettevole per il calore dello stile, e per le stesse qualità meno elette dello storico, parziale e accorto a cogliere tutte le occasioni per ungere e pungere. Certo è che si fa più presto a rintracciarvi parziali ragioni di censura, che non a rendersi canto del meraviglioso impasto personale d’una così sterminata materia. E talvolta lo scrittore vi è davvero eloquente. D’altra parte, non è un pensatore profondo né uno storico accurato».



La “Storia Universale”, oggi materiale da librerie antiquarie, era articolata in svariati volumi ed ebbe molte edizioni che l’autore non disdegnava d’aggiornare.
Meno fortunato il destino della “Grande illustrazione” e forse proprio per il suo aderire a un progetto politico che non ebbe seguito. Uscì in sei volumi.  Sotto la direzione di Cantù che si avvalse della collaborazione di altri «letterati italiani» (per Bergamo, ad esempio, si affidò al fratello Ignazio), fu «compilata» da Luigi Gualtieri alias “conte di Brenna” (1827-1901), scrittore e librettista, autore di molti romanzi a sfondo storico dei quali ormai si è persa traccia. Tra questi, datato proprio 1857, vale ricordare “L’Innominato”, naturalmente ispirato al personaggio manzoniano e che ha avuto anche un paio di edizioni novecentesche.



E’ Gualtieri stesso a firmare la breve introduzione alla “Grande illustrazione”, presentandola come «un’opera che tende a ringiovanire le antiche leggende, a suscitare faville dalla oscurità dei sepolcri, che rimuove le macerie del passato per sottrarre all’oblio ciò che di memorevole cadde fra le rovine. Noi contempleremo sempre il passato in relazione col presente e nella mira dell’avvenire (…), la nostra gloria non è circoscritta negli avelli, nelle lapidi, nei monumenti. Una popolazione vegeta, ardente, laboriosa, sperante, coltiva ancora presso di noi l’arti, l’industria e il sapere e va distinta per tratti magnanimi e generosi. Il secolo positivo ci chiama ad abbandonare il campo dell’erudizione e della poesia per applicarci agli interessi reali (…).»
L’opera ebbe poi una seconda edizione per “Corona e Caimi Editori” in Milano, prima di eclissarsi anch’essa negli scaffali delle librerie antiquarie. E non stupisce che i sei volumi siano stati con il tempo smembrati, e rilegati per singole provincie o aree, così da consentirne una più facile commercializzazione solleticando l’interesse dei cultori di storia locale. E del resto così ha fatto anche l’Editore e Stampatore Fausto Sardini di Brescia quando nel 1975 ha proposto l’edizione anastatica dell’opera suddivisa per provincie (ancora in commercio).



Naturalmente, nella nostra rubrica ci occupiamo della “Storia di Como e sua provincia” che si deve alla penna dello stesso Cantù.
Si tratta anche in questo caso di un affastellarsi di nozioni e notizie senza una vera e propria organizzazione. E il maggiore o minore spazio riservato a un argomento va attribuito allo slancio dell’autore più che a una selezione rigorosa. Slancio culturale, ma anche sentimentale, mischiando alla narrazione generale ricordi e considerazioni personali.
Non può, per esempio che dilungarsi quando parla di Brianza, la sua terra d’origine, «così vaga di confini» che «forma però un complesso non solo per la natura del terreno e del clima, ma anche per gli avvenimenti. E ben meriterebbe se ne tessesse una storia, la quale abbandonasse le avventure generali dell’Italia e della Lombardia, per rappresentarci il vivere proprio di una provincia di cui i signorotti d’un tempo, dappoi gli abitanti, avevano interessi comuni e in comune li regolavano. La rivoluzione (…) attribuì la maggior parte della Brianza a Como, con cui non ci legano né d’interesse né di memorie, è di simpatie. Ma la Chiesa, costante nelle sue tradizioni, conservò all’arcivescovo di Milano la giurisdizione su tutto quel paese».



Riflessione interessante su certe rivalità storiche che i tanti decenni successivi non sarebbero serviti a superare.
In quanto al “brianzuolo” «è sveglio, industre, attoso [parola ormai cassata dai dizionari moderni ma che la Crusca ci dice significare «colui che è di maniere e costumi bambineschi lezioso», ndr] e ai giovani e più alle donne escono dagli occhi lampi d’intelligenza e di passione. Altre volte bonaccione, allegroccio, schietto: ora piuttosto arguto, proverbioso, petulante, spesso crede acutezza lo sparlare e il sospettare; e massime quando favella col cittadino teme essere ingannato e canzonato, e la colpa non è tutta sua. I sapienti, rimpolpati di giornali e di romanzi, lo tacciano di testereccio, di recalcitrante alle novità, ma è peccato suo se, invece di educarlo alla ricerca del vero, lo pascolarono di foglie di mellone e d’erba trastulla?».



Ancora, per esempio, la tappa a Osnago: «Noi non passiamo senza saluto affettuoso questa terra, ove godemmo tanti belli e consolammo tanti infausti giorni di nostra giovinezza presso uno zio curato (don Giuseppe Gallavresi oblato), nella casa dove, presso un altro nostro zio curato (Redaelli) veniva a pranzare dal collegio di Merate il giovinetto Alessandro Manzoni». Però ci racconta anche che «anni fa, la più parte de’ contadini di casa Arese formavano quasi una famiglia, detta i “Tobej”; una sola pentola, una sola cassa. Non potrei sapere chi avesse introdotto questo tentativo di socialismo: e certo doveva risparmiar immenso tempo e spesa: ma i disgusti, le amarezze, le soperchierie  rendeano infelicissimi gli individui, che credetter beatitudine lo sciogliersi di quel consorzio; attestando una volta di più che l’indipendenza personale è bisogno supremo dell’uomo».
E mentre a Missaglia ci accompagna sulla tomba di Francesco Cherubini, l’autore del primo e celebre Vocabolario di milanese-italiano morto nel 1851 nella sua casa di villeggiatura a Lomaniga (tomba, per inciso, che oggi non c’è più: a ricordarla, una lapide), al santuario della Madonna di Imbevera non può che soffermarsi a lungo per esser “luogo del cuore”, materia di quel racconto di cui s’è detto.



Arrivando a Lecco ci suggerisce che è «un piccolo Manchester», definizione tramandata per generazioni e arrivata fino ai nostri giorni o quasi, con la “Fiumesella” e i magli e le officine e le filande e i cotonifici. E proprio nella visita a Lecco si evidenzia una descrizione fatta di notizie buttate lì un po’ alla rinfusa: Sant’Egidio e gli ariani a Bonacina, il palazzo dello Zucco, gli Airoldi di Acquate, l’elegante chiesuola di Germagnedo dove «v’è un dipinto, sul fare del Perugino». E i cappuccini di Pescarenico e «padre Bernardo d’Acquate [che] stese un’insulsa cronaca> che è poi la famosa “Cronichetta", un secolo opportunamente valorizzata».
E comunque già allora s’avvertiva quella trascuratezza dei lecchesi per la propria storia che è motivo di tanti scempi avvenuti nel corso del tempo. Scrive Cantù: «E’ singolare che un paese colto come il Territorio abbia sì poche memorie conservato: nelle chiese non trovammo iscrizioni che di qualche legato pio: nulla ne’: nulla delle fondazioni: chi era questo san Giovanni eremita di Laorca? Che c’è di vero nelle tradizioni di Sant’Egidio? Chi piantò e perché quella cappelletta sull’erto San Martino, e come poteva sussistervi un monastero, e quando ne fu tolto? Di ciò e d’altro nei chiedemmo invano».



Poi la Valsassina e i paesi del lago e naturalmente il resto della provincia con la città di Como e il Varesotto, i contadi di Angera e del Seprio. Tra pagine di storia e ritratti di personaggi passati e contemporanei. Come, a Bellano, il Tommaso Grossi, morto nel 1853, quattro anni prima dell’uscita della “Grande illustrazione”: «A lui si sta preparando un monumento». Ed è, come sul dirsi, un altro che se ne è andato. Motivo per il Cantà di malinconiche considerazioni: «Agli uomini della mia età si stringe il cuore nel vedere a scomparire un dopo l’altro i veterani d’una scuola che ebbe tutta la fatica del combattimento e scarsa la giustizia del trionfo, perché soverchiata da una più giovane che s’arroga di oltrepassarla e che la dichiara cascata nell’impotenza».
Ma così va la vita.



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Dario Cercek
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