Lecco: costrinse la moglie a salire in auto davanti al centro antiviolenze, non fu sequestro di persona


Un anno e tre mesi di reclusione (con riqualificazione del fatto da sequestro di persona in violenza privata): è la sentenza di condanna pronunciata quest'oggi dal Tribunale in composizione collegiale (presidente Paolo Salvatore, a latere i colleghi Martina Beggio e Gianluca Piantadosi) in capo ad un 46enne di origini campane accusato di aver “rapito” la propria moglie proprio davanti alla sede dell'associazione Telefono Donna di Lecco, caricandola in macchina contro con la sua volontà. Era il 16 aprile di quest'anno e solo pochi giorni prima la 44enne se ne sarebbe andata di casa con l'intenzione di separarsi dal marito.
La corsa del veicolo (condotto dal figlio maggiore della coppia e a bordo del quale si trovava anche la secondogenita) si sarebbe interrotta poco più avanti grazie all'intervento della Polizia di Stato - allertata dalle volontarie della onlus - che avrebbe quindi proceduto con l'arresto in flagranza dell'odierno imputato. Oltre a quest'ultimo episodio gli venivano contestati anche presunte lesioni e maltrattamenti in famiglia perpetrati nel corso dei tormentati 25 anni di matrimonio.
Oggi le parti hanno rassegnato le rispettive conclusioni: 5 anni di reclusione è stata la richiesta di condanna avanzata dal pubblico ministero Chiara Di Francesco, che ha dichiarato “innegabilmente provata” la responsabilità penale dell'uomo, sia per il sequestro di persona, che per le lesioni aggravate e i maltrattamenti in famiglia. Dal computo della pena il sostituto procuratore ha sottratto solamente l'aggravante ipotizzata in capo d'imputazione di aver commesso le violenze domestiche davanti ai figli della coppia. “Ti sfregio con l'acido così ti ricordi di me” sarebbe stata una delle tante frasi pronunciate dall'uomo nei confronti della compagna.
Anche l'avvocato Laura Rota del foro di Lecco, che in qualità di parte civile ha assistito la persona offesa nell'ambito del procedimento, ha chiesto la condanna del 45enne, auspicando una pena severa per l'odierno imputato. Il legale ha infatti sottolineato come in fase di dibattimento sia emersa la natura “malvagia” dell'uomo e la sua pericolosità sociale: anche nel corso del proprio esame, infatti, il 46enne non avrebbe mostrato il benché minimo segno di pentimento, ma avrebbe anzi portato a propria difesa alcuni elementi che – secondo la parte civile – avrebbero avvallato la violenza psicologica perpetrata nei confronti della moglie. Per esempio l'odierno imputato si sarebbe vantato di aver rubato una carrozzina quando la madre dei propri figli si era rotta una gamba (“poi in quella circostanza l'avrebbe anche picchiata” ha ricordato l'avvocato Rota al collegio giudicante), o di essersi sempre assicurato che ogni mattino alle 5 la moglie fosse sveglia e pronta per andare a lavorare mentre lui di cercare un'occupazione non ne avrebbe voluto sapere.
Il difensore Marilena Guglielmana si è invece battuta per l'assoluzione del proprio assistito, per cui all'apertura dell'udienza ha anche chiesto una perizia psichiatrica in extremis. L'istanza con cui il legale ha provato a far diagnosticare un'intossicazione cronica da cocaina dell'imputato ed una conseguente incapacità di intendere e di volere è stata rigettata dal collegio dopo una breve camera di consiglio poiché le risultanze istruttorie, secondo i giudici Salvatore, Beggio e Piantadosi non avrebbero fatto emergere dubbi in merito.
La droga ha comunque costituito il perno della tesi difensiva, a partire dall'inattendibilità della stessa persona offesa, che, come aveva testimoniato in aula il figlio maggiore della coppia era solita fare uso di stupefacenti insieme al marito: “Si maltrattavano vicendevolmente e questo è un processo di gelosia dovuta alla cocaina: lei avrebbe perso il suo fornitore e lui avrebbe perso chi portava a casa i soldi” ha affermato l'avvocato Guglielmana nel riassumere quel “amore malatissimo” fatto di continui “dispetti”. Dunque sia per il reato di maltrattamenti in famiglia che per il presunto sequestro di persona – secondo il difensore – mancherebbe l'elemento soggettivo: “non è andato da Telefono Donna per sequestrare sua moglie. Voleva solo andarci a prendere un caffè”. Questa circostanza sarebbe stata confermata proprio dai figli della coppia, che quel 16 aprile avrebbero effettivamente agito da “complici” per il padre e avrebbero chiamato al cellulare la madre per rintracciarla con una scusa. Il loro unico intento (aveva spiegato in aula la figlia 17enne) sarebbe stato quello di “far ragionare” la mamma e chiederle di tornare a casa.
Per questi motivi, in subordine all'assoluzione per tutti i capi d'imputazione contestati al proprio assistito, l'avvocato Marilena Guglielmana ha chiesto il minimo della pena per tutte le altre accuse e la derubricazione del sequestro di persona come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (previsto dall'art 393 del codice penale) e per quest'ultimo sentenza di non doversi procedere per mancanza di querela.
Infine il verdetto del Tribunale è arrivato nel primo pomeriggio di oggi: condannato per violenza privata anziché per sequestro di persona (assolto invece dalle accuse di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate), oltre al pagamento di 2000 euro di danni e delle spese processuali per la parte civile.
F.F.
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