Profughi: una lotta tra oppressi. Non ci sono oppressori. Ci sono soltanto manipolatori della paura
In questo mare di incuria, per la vita degli altri, in nome di un fantomatico lembo di confine e di un’astrusa, arcaica, insensata concezione di nazione, si mostrano i muscoli con i più fragili. E’ il sintomo che l’Italia sta invecchiando e sta cercando di difendersi dal fantasma etnico di un’immaginaria invasione. Tutto questo, ancor prima di una valutazione politica, è un forte segnale di quanto è incapace questo paese, di quanto è pauroso, di quanto è bloccato, di quanto è inabile a trasformare un disagio di civiltà in una grande risorsa. C’è buona parte del dorsale appenninico abitato da vecchi con case e territori che aspettano soltanto di essere vissuti.
Non solo. Anche nella ricca Brianza fatta di cantieri, aziende, imprenditoria diffusa c’è bisogno di forza lavoro da formare e inserire. Mancano personalità innovative come Adriano Olivetti disposte a investire plusvalenza in risorse come servizi abitativi e non solo. Nascondersi dietro il mantra normativo del regolare/irregolare, alla logica difensiva e riduzionistica dell’intervento securitario da parte di chi governa, è soltanto un modo per evitare di affrontare la questione con civiltà.
La logica securitaria non porta da nessuna parte.
Superato il momento topico securitario, ritorna il lamento brianzolo e nazionale che manca la forza lavoro, che non si vuole più lavorare; si rispolverano ragionamenti e sentimenti di secoli passati, di una società preindustriale o industriale.
Nell’ascoltare queste dicerie, la memoria ritorna agli anni sessanta del secolo scorso quando donne, uomini, bambini scendevano dal treno di seconda, terza classe con valige di cartone sulle spalle e le donne avevano per mano o sulla testa grandi fagotti. Scendevano nelle stazioni della Brianza, della Lombardia. Portavano sulle spalle tanta voglia di vivere. Scappavano da un’agricoltura arcaica e penalizzante.
Anche allora, come oggi, l’accoglienza da parte degli autoctoni non fu mai ben accetta: ” arrivano i terùn, quelli che mangiano l’insalata senza olio, scuri, brutti, senza denti, sporchi, non si lavano, non si capisce niente di quello che dicono”.
I pregiudizi erano infiniti, i dialetti italici erano diffusi, la lingua di Dante era soltanto nei sussidiari di scuola, l’analfabetismo era alto. Le condizioni sociali ed economiche degli autoctoni risentivano del post guerra. Nelle case di ringhiera c’era un cesso per più famiglie. I bambini sbucavano da ogni angolo delle case. Le classi elementari erano composte di 30-40 scolari. Le condizioni abitative, la qualità della vita era molto bassa, era di 68 anni l’indice di vita. Oggi è di 85 anni.
Oggi, le disuguaglianze sociali, economiche sono presenti e distribuite, la povertà è aumentata. L’attuale povertà, quella dei clochard, delle file per il pacco, sono il prodotto di una economia globalizzata e post globale.
Nella confusione più articolata o disarticolata ci sono servizi sociali in tutti i comuni. Le condizioni strutturali sono migliorate, però permangono atavici pregiudizi. Gli autoctoni tendono a invecchiare. Prevale una condizione prepolitica che è quella della paura di essere espropriati delle risorse esistenti. Non è un caso che i più deboli a livello sociale e economico, con meno risorse, tendano a costruire muri e difese. E’ una lotta tra oppressi. Non ci sono oppressori. Ci sono soltanto manipolatori della paura.
Dr. Enrico Magni, Psicologo