SCAFFALE LECCHESE/124: la dolce corrispondenza tra Piera Badoni e Antonio Delfini

Questa volta non è un libro. Anche se ci piace immaginare che una penna delicata un giorno possa raccontarla, questa storia di un amore mancato nella cornice della seconda guerra mondiale: sullo sfondo ci sono la caduta del fascismo e l’armistizio, l’occupazione nazista e i bombardamenti alleati.
La suggestione arriva dalla nuova edizione aggiornata dei “Diari” dello scrittore modenese Antonio Delfini, uscita proprio quest’anno per l’editore Einaudi. Pensando a Delfini, scrittore pressoché di nicchia, apprezzato negli ambienti letterari ma sostanzialmente sconosciuto al grande pubblico, noi lecchesi pensiamo anche a Piera Badoni e alla sua stagione da poetessa: stagione effimera se rapportata a una vita certo non breve, essendosi interrotta nel 1989 dopo 77 anni. Più breve invece fu la vita di Delfini, morto a 56 anni nel 1963.
Di lei abbiamo già parlato a proposito di “Felicità, che pure esisti”, la silloge che pubblicò in poche copie nel 1948 e che sarebbe stata riproposta postuma e arricchita da altre liriche nel 1998 dall’editrice lecchese Periplo. Scrivevamo di amori forse fugaci e di persone sfuggenti: proprio Delfini era tra queste. Esiste un “carteggio”: poche, pochissime lettere. Brevi, brevissime. Ma a tratti potenti. Testimonianza appunto di un amore che non è stato.


Quel carteggio era stato pubblicato nel numero di agosto-settembre 2009 di “Paragone letteratura”, la rivista fondata nel 1950 da Roberto Longhi e che continua a essere stampata, pur dopo alterne fortune e passaggi di editori. Così che quel numero del 2009 può essere oggi  rintracciato solo in qualche biblioteca.
La pubblicazione del carteggio venne curata Matteo Mario Vecchio, milanese, docente, dottore di ricerca tra Firenze, Parigi e Bonn, autore di studi su Antonia Pozzi e infine impegnato a curare un’edizione critica dell’intero corpus poetico di Piera Badoni, quando la morte lo ha colto a soli 39 anni, nel maggio 2021. E anche in questo caso, dunque, c’è un libro mancato.
Di Badoni e Delfini ci aveva già parlato Alba Caprile introducendo l’edizione Periplo di “Felicità che pure esiste”: «Sono anni quasi affollati di eventi e di incontri, in cui [Piera] si costruisce un’ampia cerchia di amici; con loro si ritrova a Milano, Viareggio, Firenze per il teatro e le serate musicali, per conversazioni e scambi di opinioni e suggerimenti di letture, per mostre e cene. Nomi noti e famosi del mondo letterario e culturale del tempo come Camilla Cederna, Vigorelli, Emanuelli, Radius, Capelli e poi Bo, Sereni, Montale, Levi, Buzzati si trovano magari ospiti in casa Badoni o in corrispondenza con le sorelle Badoni. (…) A Firenze conosce Antonio Delfini, scrittore circondato da una sua piccola leggenda di spirito bizzarro, che poi rivede a Viareggio: “Ti ho conosciuto l’11 maggio ’42 alle Giubbe Rosse. Di te mi aveva parlato poche volte ma molto bene Vigorelli. Però la Camilla, prima che ti vedessi, mi aveva detto che eri brutto e quindi non avevo una speciale curiosità di conoscerti”. Gli incontri rievocati poi in raccolta solitudine, maturano un sentimento complesso. (…) Di poesia in poesia, senza permettersi mai un racconto compiuto, si indovinano le partiture di una storia vissuta in segreto e solitudine, in cui un incontro, un viaggio, una casa si stemperano in visioni che il cuore macina lento, intorno alle quali intesse una vita sognata e anche la ricerca di senso per la propria vita, L’ “irriducibile cuore” di Delfini, gentilmente ma con fermezza, impone il silenzio e l’incertezza irrisolta dell’attesa, intollerabile nel succedersi dei giorni. Piera riconosce: “Devo ammettere che amavo il mio sentimento per te. L’ho alimentato è vero. Per le tue parole si sono placate le mie inquietudini, la mia voglia di partire, di girare il mondo, la mia avventura è finita. So dove sono e dove devo stare”. Qui, “dove nessuno sa che egli esiste”».



Nel 1942, Piera Badoni non è propriamente una ragazzina: ha già trent’anni. Antonio Delfini ne ha 35: è un uomo tormentato e, come spesso accade, gli autentici riconoscimenti letterari non sono ancora arrivati.
Dello scambio epistolare, Vecchio scrive: «Il rapporto (…) risulta, nella sua sbilanciata unilateralità (testimoniata peraltro dal dislivello quantitativo dei materiali: molto più numerose, e dense a livello emotivo, le missive di Piera rispetto a quelle di Antonio) problematicamente univoco e come tale vissuto da entrambi, soprattutto da Piera».
E’ del resto significativo che Delfini non parli in alcun modo di Piera nelle pagine dei suoi “Diari” in cui pure non nasconde slanci erotici e sentimentali. Non ebbe nemmeno remore, oltretutto, a lasciare che si conoscessero, per quanto postume, le appassionate lettere indirizzate a una studentessa parmigiana, oggetto di un amore anch’esso dall’esito infelice. Morto Delfini nel febbraio 1963, furono pubblicate pochi mesi dopo dall’amico ed editore Ugo Guandalini (noto come Guanda, editore in Parma). “Lettere d’amore”, appunto: fu anche scandalo se è vero – come si racconta - che i genitori della ragazza acquistarono per sottrarle alla diffusione e distruggerle molte copie di quel volume.
Era stato lo stesso Delfini a consegnarle all’amico. «Poco tempo prima di abbandonare Modena per il suo ultimo soggiorno romano – scrive Giacinto Spagnoletti nell’introduzione – lo scrittore si fermò qualche ora a Parma, a casa dell’editore Guanda. Prima di partire annunciò alla signora Michìn , moglie del suo vecchio amico modenese, che avrebbe ricevuto presto un plico contenente lettere d’amore ed altri oggetti personali che non si sentiva di dover affidare ad altre mani. Benché la sua storia d’amore con una ragazza di Parma fosse ben nota ai Guanda, pure la signora Michìn fu sorpresa di accettare in dono dei documenti che avevano tanto del privato, ma Delfini, insistendo, trovò il modo di convincerla che si trattava dopotutto di un’offerta editoriale, la cui realizzazione poteva benissimo essere rimandata a dopo la sua scomparsa. Il plico, infatti, è rimasto sigillato sino a qualche anno fa».



Per inciso, di Guanda si è occupato, e forse non fu solo coincidenza, anche lo storico lecchese Aroldo Benini che nel 1982 pubblicò, stampandolo a Pescarenico, un documentato opuscoletto intitolato “Ugo Guanda. Editore degli anni difficili (1932 – 1950)”, opuscolo nel quale si accenna anche all’amicizia e alla collaborazione con Antonio Delfini.
Tornando al nostro carteggio, osserva Vecchio: «L’analisi tuttora in corso dei materiali inediti diaristici ed epistolari di Piera Badoni (…) e soprattutto un ulteriore lavoro critico sulla sua opera poetica, potranno fare più ampia luce sul rapporto con Antonio Delfini».
L’ «esile carteggio», come definito dallo stesso Vecchio, è costituito da meno di una ventina tra lettere e cartoline, scritte tra il 1942 e il 1944. In piena seconda guerra mondiale. Della quale si sente l’eco. Tanto più che nel marzo 1943, Delfini era stato richiamato sotto le armi.
E’ dell’11 giugno 1942 la prima lettera di Piera. E già si intuisce un sentimento: «Caro Delfini, le scrivo per dire che ho letto il “Ricordo della Basca” (il testo più celebre dello scrittore, ndr) e mi è piaciuto molto. (…) Così ho fatto amicizia con Maltinor e con gli altri più o meno scapestrati giovinotti-poeti e col poeta che li ha fatti vivere. A questo punto mi fermo perché il ricordo di Delfini si unisce ai Ricordi di Delfini e temo di fare confusioni. Mi rimane intatto l’ultimo racconto, come una cosa rara, bella e felice da non dimenticare più. Il suo libro è qui tra i miei libri più cari e mi rincuora il rosso vivo della copertina come un buon punto di riferimento per il navigante angosciato».


Sette mesi dopo, nel gennaio 1943, Antonio si aggiunge ad altri nell’inviare i saluti a Piera. Forse è solo un atto di cortesia, di educazione. Ma per lei ha un valore maggiore. E gli scrive: «Ho ricevuto i suoi saluti “anche per me” e la ringrazio molto». Però «non ho più saputo niente di lei: il suo nome scomparso dalla bocca degli amici, ignorato da quasi tutti, io non l’ho sentito né letto se non di tanto in tanto sulla copertina rossa. Allora l’ho cercato per conto mio in diverse riprese incoraggiata da una coalizione di silenzi diversi che pareva quasi significativa. E dopo la luna di gennaio e una stella cadente lunga come un sospiro, eccolo riapparire improvviso con una cartolina postale. Grazie».
Succede qualcosa? Pare proprio di no. Però, dopo uno scambio di cartoline, lei da Lecco e lui da Modena, il 26 maggio Piera si permette ormai una maggiore confidenza: «Caro Delfini, il giorno in cui tu sei venuto a Milano avrei dovuto esserci anch’io. (…) Chissà. Chissà cosa avrei provato a rivederti così d’improvviso! Ma proprio quel mercoledì mi è venuto in mente d’andare a Bologna… quando ho saputo di questa strana divergenza ho patito moltissimo. (…) Mi congratulo per i tre mesi di licenza, se c’è da congratularsi, non so. Certo meglio che niente. Succedono delle cose troppo disastrose. Io ho così tanto bisogno di calma e mi ricordo del pomeriggio passato con te in febbraio come del più bel pomeriggio della mia vita. Forse tu sorriderai a questa mia frase, incredulo e dubbioso. Arrivederci spero».



Nell’estate di quell’anno, Piera trascorre le vacanze a Forte dei Marmi sperando di incontrarvi Antonio. Prima due settimane a giugno, «ma tu non c’eri e a casa tua non sapevano precisamente dove fossi. Così le mie vacanze sono state molto tranquille e anche un po’ malinconiche». Tornata a Lecco. «malgrado il mio lavoro solito, mi sento disoccupata da quando non ho più da architettare “viaggi sentimentali” . Inutile anche «una breve corsa» ad agosto, quando tra l’altro «sono tornata a casa proprio venerdì, il giorno del bombardamento più forte di Milano e Torino e ho attraversato a piedi il centro di Milano devastatissimo. Molti nostri amici hanno perduto la casa, tra i quali anche la Camilla (Cederna, ndr)».
La risposta di Delfini è datata Viareggio 23 e 24 agosto 1943, anno 1.000.000 a ironizzare sul calendario del fascismo caduto ormai da un mese con il suo capo ancora prigioniero al Gran Sasso. Ma soprattutto è una lettera quasi formale. E’ probabile che lo scrittore si renda ormai conto che il trasporto di Piera ha superato il limite di guardia e va scoraggiato, pur con un certo tatto: «Carissima signorina Piera, mi scusi se le scrivo col lei, ma dato che non siamo amanti, e i tempi camerateschi sono, a quanto si dice, finiti, io credo di far cosa giusta e civile a usare una forma del trattare così italiana rispettosa e ammirevole». Segue un asettico e prolisso resoconto sulla vita militare di quel mese di agosto, gli ultimi giorni in divisa prima dell’8 settembre. La chiusa è un altro duro colpo per Piera: «Mi faccia avere sue notizie e di Sofia (sorella di Piera, ndr). Ma più che altro vorrei sapere, e subito, di Camilla che ho visto a Milano e che non vorrei fosse in pericoloso o in istato di paura».



Nonostante, il 29 agosto gli risponda che «la sua lettera mi ha fatto piacere» lei capisce. E si ritira: «Caro Delfini, come vuole Lei, per amore della civiltà e sperando di non dover presto ritornare al tu dei “compagni”. Il mio tu però era nato spontaneo e ingenuo 15 mesi fa a Firenze, era scomparso per timidità e riapparso 6 mesi or sono pure a Firenze e non aveva niente a che fare con il cameratismo allora in voga. (…) Gentile amico, i tempi sono cambiati, ma continua invariato il mio affetto per Lei».
Nella primavera successiva siamo in pieno terrore nazista, con i fascisti tornati in abiti “repubblicani. Il 7 marzo 1944 alcune fabbriche si fermano per lo sciopero contro la guerra, il carovita e le condizioni di lavoro; ne segue la deportazione in Germania di 26 di lavoratori lecchesi, 19 dei quali moriranno nei campi di concentramento. A quelle temperie, naturalmente, non può essere estranea la fabbrica “Badoni”, l’azienda di famiglia nella quale lavora anche Piera, che Vecchio definisce «cautamente antifascista». E che il 19 maggio scrive: «Caro Delfini, distruggono le nostre città. Riducono sempre di più lo spazio intorno a noi, distruggono ogni cosa che amiamo. Ma io credo che anche se di tutto quello che mi è caro, rimarrà solo un mucchio di macerie, io isserò su quelle la bandierina rossa del mio amore. La saluto affettuosamente».
Il carteggio si conclude qui. Quasi vent’anni dopo, il 23 gennaio 1963, «in morte di Antonio Delfini», Piera Badoni scrive:  «Eri così gentile/ nell’allontanarmi da te/ che triplicavi/ in me la voglia/ di avvicinarmi a te».



PER RILEGGERE LE PUNTATE PRECEDENTI DELLA RUBRICA CLICCA QUI
Dario Cercek
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.