SCAFFALE LECCHESE/123: l'antico mestiere del pescatore secondo la letteratura locale

Dati in via di estinzione più o meno già mezzo secolo fa, i pescatori di lago sembrano resistere. Pochi, certo, ma tenaci. I numeri della Regione Lombardia ci dicono che sul lago di Como sono ancora in attività 60 pescatori professionisti, dei quali 19 lecchesi. Di resistenza si può dunque parlare a buon diritto, se pensiamo che nel 1995 i pescatori lariani erano già scesi a 68. Il grande abbandono si era registrato nei decenni precedenti, quando si verificava anche quell'altro abbandono: quello della terra, delle valli, della montagna.

Sul lago di Annone

Il riferimento al 1995 non è casuale: il dato di quell'anno è punto di partenza di una ricerca storica sul mestiere del pescatore del nostro territorio. Curata da Massimo Pirovano, venne pubblicata nel 1996 da "Cattaneo Editore" in quella meritoria collana, purtroppo interrotta, che è stata "Ricerche di etnografia e storia" nella quale, tra il 1991 e il 2009 sono stati pubblicati 14 volumi.
"Pescatori di lago. Storia, lavoro, cultura sui laghi della Brianza e sul Lario" è il titolo di quella ricerca degli anni Novanta. L'introduzione principia appunto dai numeri: «Nel 1995 nelle province di Como e di Lecco sono state rilasciate 68 licenze per la pesca professionale. (...) Circa un terzo di questi pescatori lavora in maniera continuativa, e tutti pescano esclusivamente nel lago di Como. Pochissimi professionisti, infatti, operano ancora con le tecniche del mestiere sui vari laghi minori del territorio lariano, come quelli di Brivio, di Garlate, di Pusiano. In passato, però, come nel caso dei laghi di Annone e di Olginate, anche questi laghi meno famosi del Lario hanno avuto un ruolo importante dal punto di vista economico, fornendo una produzione ittica destinata sia al consumo locale che al commercio e al rifornimento delle città. Certamente se si confronta il dato delle 68 persone di oggi con i 216 pescatori del 1967 si coglie la misura della crisi che ha investito questo mestiere negli ultimi decenni; crisi che è culminata tra gli anni '70 e gli anni '80, per ragioni economiche ed ecologiche. Oggi tuttavia sembrano aprirsi spazi per un'attività che sappia organizzarsi qualificando la sua offerta».

Aldo Mandelli

C'era forse dell'ottimismo eccessivo in queste parole. Ma era quella l'epoca in cui, per le più varie ragioni, si assisteva a una ripresa d'attenzione verso mestieri antichi. Sennonché anche oggi si parla di lavori che nessun vuol più fare. Però i pescatori resistono. Appunto.
La ricerca di Pirovano ci restituisce il quadro dell'evoluzione storica di questa professione nel nostro territorio, privilegiando uno sguardo "geografico": i tre capitoli principali del libro, infatti, sono dedicati ciascuno a un luogo preciso: Brivio, Pescarenico e il lago di Annone. Ricorrendo anche ad alcune collaborazioni: se il quadro di Pescarenico è dipinto dallo storico Angelo De Battista, la memoria di Brivio si appoggia anche sulla testimonianza di Aldo Mandelli morto novantenne nel 2010 e che all'epoca era «l'ultimo pescatore» del paese.
Aveva cominciato a 11 anni, Mandelli: «Il padre sperando di allontanarlo da un mestiere troppo duro, gli fa frequentare la scuola tecnica in collegio. Rimanendo a casa, durante una pausa negli studi dovuta alla convalescenza per una frattura, Aldo diventa incerto sul suo futuro. Un giorno il padre lo mette alla prova: si deve andare a pescare e Aldo viene svegliato alle due di notte. In poco tempo il ragazzo si convince che quella è la sua vita. "Quando sono sul lago mi sento in paradiso" dice Aldo, per esprimere il suo legame quasi biologico con il fiume, la palude, l'acqua e l'aria, per farci intuire la sua passione per il lavoro, per la pesca, per la caccia, per la vita libera. E tutto ciò nonostante le fatiche, la pioggia, il gelo, le notti insonni o passate in barca, stando accucciati su un pagliericcio, coperti da un pastrano, per sorvegliare le reti dai bracconieri; nonostante le estati fatte di lavoro diurno e notturno, senza soste per sfruttare la stagione propizia».


Una condizione sostanzialmente immutata nei secoli. Eppure, ancora nell'ultimo scorcio del Novecento, «gli studi sulla cultura materiale e sulla cultura "spirituale" degli uomini vissuti sui laghi e sui fiumi hanno occupato un ruolo secondario tra i temi cari alle ricerche demologiche. (...) E' ancora agli inizi la riflessione in una prospettiva antropologica sulla cultura dei pescatori di lago, traghettatori, barcaioli, cavatori di sabbia, ecc. Questi gruppi professionali, e in particolare chi pesca per mestiere, avevano - e in qualche misura conservano - delle conoscenze naturalistiche, delle competenze tecniche, probabilmente delle credenze e dei comportamenti sociali distinti da quelli della maggior parte della popolazione, e in particolare - per il passato - dei contadini».
Se Cesare Cantù parlava del «"vero e pretto pescatore che ha di suo che le braccia e la famiglia, che dal lurido tetto gli chiede pane", indubbiamente ci dovevano essere sensibili differenze di condizione tra i pescatori "padroni", cioè titolari di diritti esclusivi di pesca e questi "pretti" professionisti che si distinguevano per la povertà e la modestia del loro aspetto. La figura delineata [da Cantù] rischia quindi di diventare uno stereotipo, in molti casi non corrispondente alle differenti realtà geografiche e alle situazioni particolari». E del resto, «ancora negli anni '30 i pescatori di Civate godevano di un discreto benessere. Erano giudicati ricchi, specialmente dai contadini del paese e per le ragazze erano ritenuti un buon partito». Ed è «dopo la seconda guerra mondiale [che] la vita divenne molto più dura». Anche per effetto dell'inquinamento e degli scarichi industriali che avvelenano le acque del lago.
Ed è appunto in quel periodo che inizia la decadenza. Proprio quando, almeno per Pescarenico, il commissario regionale per la liquidazione degli usi civici di pesca nella Lombardia estese il diritto di pesca a tutti gli abitanti di Lecco: «Paradossalmente - le parole di Angelo De Battista- negli anni in cui per la pesca di mestiere era iniziato il declino, tutti i lecchesi avrebbero potuto esercitarla» e difatti «la cosa non preoccupò troppo i professionisti di Pescarenico che non fecero opposizione a quei decreti», ultimo aggiornamento di una regolamentazione avviata secoli prima: «loro potevano continuare il mestiere; per il resto sapevano che pescatori non ci si improvvisa».
E' quindi tutto un mondo con consuetudini e tradizioni che davvero affondano le radici nell'antichità. Se si pensa che, per il lago di Annone, nel XIII secolo a vantare i diritti di pesca era l'abbazia di San Pietro al Monte di Civate. E pure per Pescarenico, si risale a documenti di sei secoli addietro. Ancora oggi, nei laghi minori in molti casi i diritti di pesca sono spesso nelle mani di privati, retaggio di un istituto quasi feudale. Certo, ormai, la pesca professionale è scomparsa dai piccoli specchi d'acqua frequentati dai pescasportivi armati di canna. Ma "resiste" appunto nelle acque del Lario sul quale è la Regione Lombardia ad avere giurisdizione.
A proposito di Pescarenico, tra l'altro, nella secolare diatriba per le inondazioni di Como finirono sotto accusa anche le "gueglie", installazioni fisse posate nell'Adda dai pescatori ritenute un ostacolo al defluire del fiume. Se ne cominciò a parlare già nel XV secolo e ci si continuò ad accapigliare fino al XIX.

Pescarenico


"Pescatori di lago" non ci offre comunque solo una ricostruzione storica che qui abbiamo sintetizzato in maniera inevitabilmente sommaria. L'attenzione è anche rivolta ai toponimi, al gergo, agli attrezzi del mestiere e alle barche, alle tecniche, alla pesca di frodo e alla "scienza" dei venti: «Se si chiede a un pescatore del "véent", ci si sente dire che è il nemico principale della pesca», ma naturalmente «non tutti i venti sono uguali» perché «il modo di soffiare, la direzione, i loro effetti, impongono al pescatore ancor più che al contadino di distinguere» con nomi che cambiano da luogo a luogo, da lago a lago. «In generale, il tempo buono veniva associato dai pescatori dalla direzione dell'onda: "se la va béla drizza", se ha un corso lineare, rispetto alle direzioni solite del tivano o della breva, si pescava normalmente» e «invece i pescatori pronosticavano pioggia imminente quando "ul laach el fa i straat", cioè si presenta con una superficie striata, alternando onde con strisce di calma».
Lo sguardo peraltro si allarga anche alle altre risorse che il lago fornisce. Quelli più piccoli, Annone e Pusiano per esempio, un tempo durante la stagione invernale gelavano come immortalato da una fotografia risalente agli anni Cinquanta: era allora occasione di divertimento per i ragazzi, ma per molti secoli fu fonte di ghiaccio per la conservazione dei cibi. «Il taglio del ghiaccio doveva avere una notevole importanza economica prima che si diffondessero i frigoriferi. A questo proposito, un riferimento cronologico interessante è quello del 1940, quando fu abbandonata la grande ghiacciaia di Isella. L'edificio ancora oggi ben conservato conteneva una buca della profondità di oltre dieci metri e del diametro di otto che nei mesi invernali veniva stipata di ghiaccio dal lago».
Vi era inoltre il taglio delle canne che servivano come combustibile ma soprattutto per realizzare "i tàul di cavalée", le tavole su cui si allevavano i bachi da seta.

Il libro si chiude sull'attualità che oggi, naturalmente, è già passato, trattandosi ormai di quasi trent'anni fa. Gli ultimi due capitoli sono infatti dedicati alle prospettive della pesca professionale, alla luce di quell'ottimismo, a cui si è già accennato, alimentato da quello che all'epoca sembrava appunto una sensibilità nuova. C'era per esempio una Cooperativa pescatori lariani e addirittura si parlava di aggiornamento professionale. Una maggiore attenzione ambientale faceva riscontrare proprio in quegli anni i primi risultati, anche con un miglioramento della qualità dell'acqua. Quanto sia rimasto di quell'ottimismo non sappiamo. Però, i pescatori sembrano resistere.
Dario Cercek
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