Lecco: verso lo smantellamento del campo del Bione, primo bilancio del percorso di inclusione della comunità Sinti

Foto di repertorio del campo al Bione
È tempo di un primo bilancio per il progetto avviato undici mesi fa dal Comune di Lecco per accompagnare le 15 famiglie che vivono nel posteggio del Centro sportivo del Bione verso un'alternativa. Un periodo che può sembrare lungo, ha riflettuto l'assessore al Welfare Emanuele Manzoni, "ma che è molto breve per costruire una relazione basata sulla fiducia, per darsi degli obiettivi e fare scelte così importanti. È stato un tempo ben usato di cui raccogliamo oggi i primi frutti". I risultati di cui parla l'assessore sono rappresentati dai percorsi intrapresi dalle persone (cittadini lecchesi di etnia Sinti): tre nuclei hanno scelto di prendere parte a progetti di inclusione abitativa e lavorativa e si sono spostati in alloggi temporanei o di housing sociale, due famiglie si sono trasferiti presso l'abitazione di parenti e cinque famiglie hanno di recente manifestato la volontà di intraprendere un percorso. Gli ultimi cinque nuclei hanno invece deciso di continuare a fare i giostrai e mantenere la vita nomade, consapevoli del fatto che nei momenti di pausa dall'attività dovranno trovare un altro luogo di appoggio, in campi autorizzati. Per questa comunità infatti la dimensione itinerante e quella di giostrai sono i pilastri del loro modelli di vita.

Come si è arrivati a questo punto lo ha spiegato Carlo Alberto Caiani della Fondazione Somaschi che ha coordinato il progetto: "Le regole di ingaggio erano diverse da quelle con cui abbiamo operato in altri contesti con i Rom, la spada di Damocle del cantiere poneva una condizione molto chiara: ‘qui non si può stare e non ci sarà un altro campo', sulla base di questa chiarezza è partito il dialogo con l'obiettivo di arrivare al risultato di far spostare le famiglie prima dell'avvio del cantiere". La Fondazione Somaschi ha una grande esperienza in interventi di questo tipo: "Dove c'è da fare assistenza noi non andiamo. Il punto di partenza per queste famiglie è rappresentato sicuramente dall'avere una casa e un lavoro, ma l'aiuto dei servizi ha delle regole: va accettato, è temporaneo e prevede una corresponsione. Noi sappiamo che in una comunità Rom quelli su cui investire sono i minori, che più avvertono la potenzialità del cambiamento, poi vengono le donne e infine gli uomini adulti. In questo caso non c'era il tempo di avviare il lavoro con i minori si è partito da un lavoro di dialogo con chi decide, in particolare con i padri".

Ad entrare nel dettaglio dell'intervento svolto è stata Letizia Rigamonti, assistente sociale del Comune di Lecco che ha collaborato con gli operatori della Fondazione Somaschi e ha spiegato ai commissari chi sono le 15 famiglie che hanno vissuto stabilmente al Bione per circa vent'anni: "Si tratta di single, coppie o famiglie che vanno dalle tre alle cinque unità per un totale di 31 persone. Ci sono quattro anziani tra i 65 e gli 80 anni, sette minori tra i tre e i nove anni, 20 adulti tra i 27 e i 69 anni che appartengono a due ceppi famigliari prevalenti con un legame di parentele ben definito e bene presente, oltre a una persona che si è trovata a vivere lì da tempo per vicende personali". Il punto di partenza è stato quello di stabilire un rapporto di conoscenza: "Si è partiti da momenti di incontro regolari, entrando fisicamente nelle loro case per incontrare e conoscere le persone e le famiglie, le dinamiche, le loro storie e capire che cosa voleva dire per queste persone vivere lì e spostarsi. Abbiamo svolto incontri di gruppo e anche incontri individuali con la volontà di tenersi in relazione e raccogliere il loro rimando sui temi principali che volevamo affrontare: minori, sanità, casa e lavoro. Sul tema dei minori ci siamo concentrati in maniera ridotta perché non abbiamo trovato situazioni di dispersione scolastica o inadempienza, ma anzi abbiamo visto un'attenzione e una presenza dei genitori, che spesso hanno il vissuto di percorsi scolastici interrotti prematuramente e sono consapevoli dell'importanza che i loro figli abbiano un'istruzione. Anche rispetto alla sanità e alle cure delle persone non c'erano grossi bisogni perché tutti hanno un medico di base e ci sono dei contatti con gli specialisti laddove necessario". Più difficile affrontare i temi della casa e del lavoro: "La maggior parte di queste persone vive questa condizione da tutta la vita e pensarsi in una situazione abitativa diversa, rinunciare alla dimensione di gruppo per un contesto meno libero con delle regole e dei vicini, sono riflessioni che hanno mosso tanto. Abbiamo incontrato famiglie già pronte ad affrontare questo tema e che già avevano pensato a questo passaggio, altre con le quali la disponibilità è arrivata solo dopo un percorso, altri che non sono disposti a compiere questo passo".

I progetti avviati e quelli che partiranno sono temporanei: "Per queste famiglie andare a vivere in una casa si tratta di una prova e al tempo stesso sono consapevoli che è necessario un progetto di stabilizzazione a livello lavorativo ed economico per poi passare a una soluzione abitativa più stabile. La maggior parte di queste persone hanno un bagaglio di esperienza legata al lavoro di giostrai, un'attività traballante che con la pandemia ha avuto una brusca interruzione per un periodo di tempo lungo. Parlare di lavoro ha voluto dire incrociare la rappresentazione di cosa sia il lavoro: gli adulti più anziani si vedono conclusi rispetto al mondo del lavoro, le persone più giovani hanno mostrato un'apertura sul cercare un lavoro diverso da quello nelle giostre. Alcuni avevano fatto già esperienze lavorative diverse e stiamo lavorando per capire quale supporto si possa dare per sviluppare dei progetti di inserimento lavorativo".

M.V.
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