SCAFFALE LECCHESE/121: Carlo Emilio Gadda tra il Resegone e la Brianza

Il Resegone diventa Serruchón: etimologia spagnola, da “serrucho” e cioè “sega”, naturalmente, E dà anche il nome a un “arrondimiento” in quel Paese tanto fantastico quanto reale nel quale Carlo Emilio Gadda ambienta le vicende della “Cognizione del dolore”, capolavoro del Novecento italiano. Che ci fa pensare a una montagna in qualche modo magica se pressoché un secolo esatto dopo i “Promessi sposi” manzoniani continua a far da quinta letteraria e perdipiù in libri immortali. Perché anche la “Cognizione” di Gadda è lettura imprescindibile per quanto ostica in alcuni passaggi e non sempre, va riconosciuto, chiarissima. Del resto è romanzo che ha precorso molta avanguardia del secondo dopoguerra.
Si tratta di un’opera incompiuta, nonostante sia prima uscita in rivista tra il 1938 e il 1941 e poi in volume nel 1963 da Einaudi e successivamente in molte altre edizioni anche con l’autore ancora in vita, il quale non ha però ritenuto di scriverne la conclusione ufficiale. Per parte nostra, abbiamo fra le mani l’edizione 2017 di Adelphi corredata anche da una corposa appendice che ci inoltra ulteriormente nell’universo dell’ingegnere-scrittore, nato a Milano nel 1893 e morto a Roma nel 1973.
La vicenda si svolge tra il 1925 e il 1933 nel Maradagàl «che è paese di non molte risorse» e appena uscito «da un’aspra guerra col Parapagàl, stato limitrofo con popolazione della medesima origine etnica». Anni di fascismo in ascesa, dunque, e di quel clima il libro dà conto, raccontando di reduci di guerra inseriti in istituti di vigilanza un po’ inquietanti nei quali sono state riconosciute appunto le squadracce in camicia nera.


Carlo Emilio Gadda

Saremmo in Sud America, che l’autore ben conosceva avendo lavorato per due anni in Argentina. Sennonché, il Maradagàl altro non è che l’Italia e la regione che fa da cornice alla storia e che sarebbe la Nea Keltikè, tradotto in genere con Nuova Gallia, è «così simile, per certi aspetti, alla nostra perduta Brianza». Da una parte c’è Pastrufazio che è Milano, da un’altra il Prado che è Erba, e più sopra Iglesia che vale Canzo e Cabeza per Asso; Novokomi è Como e Terepattola è Lecco, sede di tribunale e città dove le ragazze «apostrofavano “scemo di guerra!” qualche zerbinotto un po’ troppo ardito di mano, a cui però, dopo un dieci minuti di broncio, finivano col perdonare e farci la pace». E quasi incombente, appunto, il Serruchón, «da cui prende nome l’arrondimiento» e che «è una lunga erta montana tutta triangoli e punte, quasi la groppa-minaccia del dinosauro: di levatura pressoché orizzontale, salvo il giù e su feroce di quelle cuspidi e relative bocchette, portelli del vento. Parete altissima e grigia incombe improvvisa sull’idillio, con cupi strapiombi: e canaloni, fra le torri, dove si rintanano le fredde ombre dell’alba, e vi persistono, coi loro geli, per tutto il primo giro del mattino. Dietro nere cime il sole improvvisamente risfolgora: i suoi raggi si infrangono sulla scheggiatura del crinale e se ne diffondo di qua verso il Prado, scesi a dorare le brume della terra, di cui emergono colline, tra velati laghi. Qualcosa di simile, per il nome e più per l’aspetto, al manzoniano Resegone». Non mancando di ironizzare sulla “licenza” carducciana del sole che dietro il Resegone tramonta: «nel cielo orientale il Serruchón persisteva, totem orografico di sua gente, fulgore, dolomia rossa in attesa che Copernico di Pian Castagnaio gli prestasse un sole con tramonto all’incontrario, un carro di Febo con ritorno di fiamma».



In mezzo c’è Lukones che è Longone al Segrino, dove nel 1899 il padre dello scrittore decise di costruire una casa per la villeggiatura, come usavano fare l’aristocrazia e la grande borghesia milanesi: «Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchón (…) protette d’olmi e d’antique ombre dei faggi avverso il tramontano e il pampero, ma non dai monsoni delle ipoteche (…): di ville! di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici prealpine che, manco a dirlo, “digradano dolcemente”: alle miti bacinelle dei laghi».


In copertina la casa di Longone

Opera, quella di papà Gadda, che a quanto pare generò qualche problema economico e successive complicate questioni ereditarie. Delle vicende della casa brianzola, Gadda aveva già scritto in una bozza di racconto rimasta tra le sue carte e stampato solo nel 2001 (“Villa in Brianza”, ripubblicato nel 2007 in un volumetto a sé da Adelphi) e nel quale papà Francesco Gadda diventa Francesco Pelegatta, «un uomo sommamente morale, e mai non commise atto alcuno che la sua coscienza gli avesse vietato commettere» ma «non aveva il becco di un quattrino. (…) La sua famiglia, discendente per parte di madre da una nobile casata lombarda, possedeva de’ beni e una gran villa in Brianza. La villa non rimase certo a lui, neanche pensarlo, buon ultimo di tre fratelli amanti del progresso: i beni evaporarono nella fortuna varia dei commerci. Ma nonostante ciò, i suoi sentimenti delicati si imbrianzirono sempre più: trovava che quel sito (non molto discosto dal pariniano Bosisio) era la culla di sua gente, gli ricordava la sua mamma (…). Adesso fece dunque la casa in Brianza, per i suoi figli: non la chiamò villa, non voleva la chiamassero, aborriva dal fasto e dai nomi sontuosi (…). Ma “casa”. Se ducevano “la sua villa”, dava fuori».



Ricostruisce Mario Porro (“Gadda e la Brianza. Nei luoghi della Cognizione del dolore”, Edizioni Medusa, 2007): «Il nonno di Carlo Emilio, Francesco Gadda, originario di Gorla Maggiore, aveva sposato nel 1819 a Milano, una nobile aristocratica, Paola Ripamonti, detta Paolina, unica erede della famiglia di questo nome, nonché proprietaria di due ville e terreni a Rogeno. Nella villa di Rogeno, era nato (e forse vi era stato concepito) nel 1838 il padre di Carlo Emilio, Francesco Ippolito. (…) Gadda affida alla letteratura la sua resa dei conti, dove il risentimento è solo in parte attenuato dal divertimento, con la “fottuta casa” che il padre decise di costruire nel 1899 a Longone al Segrino. La costruzione è un ulteriore contributo all’evaporazione dei beni. (…) La scelta del terreno su cui edificare la villa era certo dovuta alla splendida veduta che da lì si apriva sul lago di Pusiano, su “quell’altra valle assai dolce agli autunni dell’abate poeta” e sulle ondulazioni prealpine dei monti lecchesi, le Grigne e il manzoniano-carducciano Resegone, “totem orografico” delle genti brianzole. Ma forse a quella scelta non era estranea la possibilità (…) di vedere dalla terrazza la piana di Rogeno “dov’era l’antica villa de’ suoi”. La villa sorge dunque in competizione con l’altro ramo della famiglia, quello rappresentato dallo zio paterno di Carlo Emilio, Giuseppe Gadda, che fu senatore del Regno e ministro dei Lavori Pubblici negli anni della Destra storica» e che fu anche «tra i promotori dei lavori di costruzione della linea ferroviaria che da Milano conduceva a Erba».


Villa Gadda a Longone

Già tutto questo sarebbe di per sé un romanzo. Al quale va aggiunto il rapporto tormentato e conflittuale del giovane Carlo Emilio con la madre Adele Lehr, figura altrettanto degna di un approfondito ritratto. Qui importa ricordare come, rimasta vedova già nel 1909, dovette occuparsi di mandare avanti la famiglia e le due case, quella di Milano e la “villa” di Longone che fu a lungo motivo d’attrito volendo Carlo Emilio che la si vendesse anzitempo. Piglio ne dovette avere e non mancarono certi gli scontri col figlio (coi figli, ce n’erano altre due: un maschio che morirà in guerra nel 1918 e se ne accenna nella “Cognizione”, e una femmina). E’ assodato che Carlo Emilio dovette intraprendere malvolentieri studi e carriera da ingegnere proprio per volontà materna. Resta il fatto che alla di lei morte, nel 1936, lo scrittore venne assalito da una serie di rimorsi dai quali proprio con la scrittura della “Cognizione” avrebbe voluto liberarsi, elaborando il lutto in quelle pagine molto autobiografiche.
Teatro della storia è appunto la casa di Longone, la “fottuta casa” dove si dispiega il dramma famigliare di una povera madre, ormai anziana e fragile, maltrattata da un figlio rancoroso e in lotta con il mondo: il marchese di Lukones don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino o del Tino, alter ego dello scrittore, e «che gira per casa che pare un matto, quelle poche ore che ci sta», consumato da un rovello interiore che non dà tregua: «Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato».



A costruire la trama del racconto, l’intrecciarsi del dramma di villa Pirobutirro con il già accennato servizio di vigilanza notturna per il quale «le leggi del Maradagal davano facoltà a proprietari di campagna d’aderire o di non aderire (…) in considerazione del fatto che essi già sottostavano a balzelli ed erano obbligati a contributi molteplici, il cui ammontare, in alcuni casi raggiungeva e financo superava il valsente del poco benzavóis che la proprietà rustica arriva a fruttare, Cerere e Pale assenziendo, ogni anno bisestile». Ed è servizio che don Gonzalo snobba nonostante le insistenze del “vigile ciciclista”, tale Pedro Mahagones ma in realtà Gaetano Palumbo, finto mutilato di guerra. Il rifiuto sarà causa di episodi a prefigurare il finale che resta appunto indefinito e che lasciamo al lettore scoprire.
A popolare il racconto c’è inoltre la gente di Brianza per la quale non sembra che Gadda nutrisse una particolare simpatia: «In questi paesi la popolazione è come il pane?... Lei li conosce meglio di me. Son buona gente, no?.... Un po’ rozzi, forse, un po’ gutturali nell’esprimersi: questo è certo: una via di mezzo tra la palafitta e la caverna…. Ma buona gente. In guerra si sono portati benissimo, Crepavano come bere un bicchier d’acqua. Inchiodati. E in pace non sì mai sentito di nulla: poveracci.» Già, «buona gente… buona gente… Quando non menano il coltello, certo, son buona gente…». Giudizio severo – e altri nel romanzo se ne incontrano – al quale non sono estranee proprio le vicende della “fottuta casa”. Scriveva Gadda in una lettera del 1937: «Dopo la vendita di Longone (sospiro di sollievo e liberazione da un verme solitario) terrore di dover sottostare ai ricatti degli ex contadini e della ex serva di mia madre, I contadini sono stati subito licenziati dal proprietario successore, che ha subito conosciuto chi erano. Li ha tacitati con qualche biglietto da mille, molto generosamente; ma brontolano ancora e vorrebbero qualche altro biglietto da mille di provenienza Carlo Emilio Gadda. Possono aspettare un pezzo! La ex serva ha tentato il solito ricatto del libretto di lavoro».


Villa Osnago Gadda a Rogeno

Gente che ha un proprio dialetto accanto alla lingua ufficiale che è il castigliano: «La cadenza di quel discorso era ossitona, dacché distaccato e appeso, nel dialetto del Serruchón, suonano destacagiò e takasù. E anche pestarlo si dice pestalgiò». E per un «a momenti è già qui mezzogiorno» chiosato con «”Qui”, moto a luogo si dice “scià” nel dialetto della Keltiké. Che è dialetto di questa parte di Lombardia. E che contribuisce a fare della “Cognizione” una straordinaria macchina linguistica: l’italiano che è l’italiano di Gadda con neologismi e incredibili acrobazie, lo spagnolo imbastardito del Maradagal, ispirazioni greche e latine, il dialetto appunto. Da una parte, dunque, la suggestione di una geografia leggendaria e dall’altra un’autentica vertigine linguistica. E in mezzo, una galleria di personaggi emblematici dipinti con caustica ironia.



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Dario Cercek
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