Elezioni: pongo sommessamente alcune domande al Partito Democratico

24 ore filate di maratona come scrutatore, un giorno per riposare, un giorno per riflettere su quanto accaduto. Poi, alla fine, eccomi qui, davanti al PC, a scrivere queste righe. Nessuna voglia di pontificare, intendo solo porre alcune domande. In particolare, intendo porre molto sommessamente alcune domande al Partito Democratico, che a fronte di un dato nazionale pari circa al 19%, nel lecchese ha ottenuto circa il 17% dei voti.
"Dietro al regolamento sul recovery c'è una serie di dieci round negoziali, alcuni dei quali lunghi più di dodici ore. Provate voi a negoziare con l'ambasciatore tedesco che fa paura solo a vederlo". Ricordo di aver sorriso quando Irene Tinagli, durante l'incontro svoltosi a Casatenovo, ha ricordato l'impressione che le ha fatto il negoziatore di Berlino. Dieci round negoziali, dodici ore per round con una controparte che faceva paura solo a guardarla. La domanda sorge spontanea: ma non si potevano fare dieci round negoziali, alcuni dei quali lunghi dodici ore l'uno, con la lista di Renzi e Calenda e con i 5Stelle?
Secondo quanto riportato da La Stampa, a livello nazionale Azione - Italia Viva è stata la lista più votata nella fascia d'età 18 - 24 anni con il 17,6% percento dei voti. Ci si vuole crogiolare nell'idea che siano tutti "giovani dei bar del centro" come fa Michele Serra sempre oggi ma su Repubblica?
Tornando ai dati del quotidiano torinese, si evidenzia come il 27,2% di chi vive in condizioni economiche inadeguate abbia votato Movimento 5 Stelle. Anche questo vorrà pur dire qualcosa. Leggendo, qualcuno potrà pensare che lo scenario in questione, la coalizione, è irrealizzabile, soprattutto per la smisurata grandezza dell'ego delle personalità in gioco.
Personalmente, da cittadino ancora prima che da giornalista, questa idea non la accetto e non la accetterò mai. Il centrodestra aveva un programma comune nonostante le immense contraddizioni tra le idee dei partiti, in Europa Socialisti, Popolari e Liberali governano insieme, in Germania addirittura passano settimane a redigere contratti di governo iperdettagliati. Tenere insieme il centro sinistra italiano sembra invece un'impresa titanica. Basterebbe sedersi intorno ad un tavolo, spiegare a qualcuno che bisognerebbe impegnarsi non nell'insultare chi prende il reddito di cittadinanza ma nel costruire un'alternativa per chi può beneficiarne, a qualcun altro che le infrastrutture, tipo inceneritori o rigassificatori ma non solo, ci vogliono, diamine se ci vogliono. Stare lì finché non si delinea un'idea di paese comune che tutti contribuiranno a realizzare, ognuno secondo i propri punti di forza e le proprie competenze. Davvero tutto questo è impossibile?
Eppure, sarebbe prezioso, soprattutto se partisse dal basso. Se partisse magari in una regione come la nostra. Potrebbe aiutare a costruire una proposta concreta centrata su temi reali, quali la sanità e trasporti, e su posizioni chiare e motivate, per esempio sull'autonomia. Non sulle dichiarazioni di principio slegate dal mondo reale. E invece no, qui da noi 24 ore dopo il voto già ci si prende quasi a male parole. Stando all'edizione di Repubblica Milano, nel capoluogo si parla di fronde interne, di proposte radicali. Ma scusate, le proposte oltre che radicali, forse ancor prima che radicali, non dovrebbero essere realizzabili? Si va in piazza e si urla "noi vogliamo un'Italia progressista, ecologista e di sinistra".
Peccato che poi non si spiega come si vuole realizzare questa visione nel concreto. Perché, per esempio, prima di essere gratuiti, per tutti o per qualcuno, i trasporti devono funzionare in modo efficiente e questo richiede investimenti che devono essere finanziati e poi realizzati con quello che ciò comporta. Perché, per esempio, bisognerebbe spiegare come si intende affrontare, anche a livello europeo, il fatto che l'industria dell'auto elettrica è dominata dalla Cina. Perché, per esempio, se ci si allea con un partito nel cui programma c'è scritto "riaprire l'accesso di massa all'università" e "gratuità dell'istruzione dalla scuola all'università" bisogna avere il coraggio di dire che ci vogliono anni, decenni per poterci arrivare. E soprattutto ci vogliono un sacco di soldi, perché gli edifici devono essere innanzitutto integri, non con le tapparelle rotte e i bagni non funzionanti. Perché le attrezzatture dei laboratori di informatica e di scienze, o delle palestre, devono essere non dico all'avanguardia ma per lo meno utilizzabili. Perché ci vogliono le aule dove far studiare la gente all'università, ci vogliono i microfoni che funzionino, i professori che insegnino, le strutture dove fare i tirocini. Altrimenti ci si abbassa al livello dell'eletto all'uninominale nel nostro collegio che vende l'abolizione del numero chiuso a medicina senza dire dove tutte quelle migliaia di studenti si siederanno a fare lezione, chi insegnerà loro o dove potranno fare i tirocini obbligatori.
È complicato fare politica così? È complicatissimo, anche perché le esigenze di chi va all'università non sono le stesse di chi ha iniziato a lavorare due mesi dopo il diploma e a 24 anni vorrebbe andare a vivere da solo. I bisogni di chi sta a Milano non sono gli stessi di chi vive nella Brianza profonda. Ma la politica non è questo? Non è dare risposte concrete, precise e realizzabili nell'ambito di una visione generale, di un principio, di un'idea di paese a cui tendere? Non è mettere insieme competenze, conoscenze ed esperienze per spiegare a chi vive sulle colline come a chi soggiorna tra i palazzi di City Life come e perché il progetto sviluppato insieme migliorerà la qualità della sua vita o di quella dei suoi figli? Non è lottare per un'idea senza scordarsi che c'è comunque la realtà quotidiana, una realtà in cui non ci sono le risorse per fare tutto subito? Magari mi sbaglierò, magari sono i numeretti del geniale codice antifrode elettorale che mi offuscano la mente. Se così è, allora ci sarà da sedersi, aspettare e vedere se il centrodestra si frega da solo presentando due candidati anziché uno alle regionali.
Della serie, aspettando Godot ... poi uno prima di inviare il pezzo apre Twitter e legge il pensiero di tale Federica D'Alessio, giornalista di Micromega, rivista di sinistra. ''I giovani votano per Calenda perché hanno studiato o stanno studiando e l'università anche pubblica oggi non ti forma più alla cultura, ti forma al classismo. È il frutto marcio della cultura meritocratica''.
E sale lo sconforto più totale che neanche ai tempi del Milan di Montolivo e Honda.
Andrea Besati
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