SCAFFALE LECCHESE/118: guide per una gita sugli 'inesistenti' luoghi manzoniani

L'ormai ultrasecolare controversia sui luoghi manzoniani meriterebbe un volume a sé. Ne abbiamo già accennato parlando del libro che monsignor Andrea Spreafico pubblicò nel 1923 con l'editore lecchese Ettore Bartolozzi (CLICCA QUI) e che era una sorta di riassunto a un dibattito che aveva coinvolto fior di studiosi e acceso anche passioni. Contribuendo a mettere in piedi quella "macchina infernale" della visita ai luoghi manzoniani. Quelli autentici, ma anche quelli che si dicono presunti quasi a voler mettere le mani avanti.

Ottone Brentari

Lo stesso Spreafico non nascondeva il proprio scetticismo. E più che scettico, sul finire dell'Ottocento, fu Ottone Brentari, che le biografie ci presentano come geografo e "patriota", nato nel 1851 e morto nel 1921. Era trentino, ma se ne venne per un po' a Milano e, con lo pseudonimo di Alpinus, collaborò con il "Corriere della sera". Ed proprio il "Corriere" raccolse l'eco delle dispute sui luoghi reali e presunti dei "Promessi sposi". Proprio Brentari ce ne dà conto con un gustoso volumetto uscito per Hoepli nel 1896: "I paesi dei Promessi sposi".
Con il pretesto di consigliare una gita sui luoghi del romanzo, Brentari liquida senza mezzi termini la corsa a riconoscere certi ambienti del romanzo: «E' inutile assolutamente il voler cercare la casa ove Lucia faceva girare l'aspo, o quella ove Renzo aveva apparecchiato il nido alla sposina, o la canonica di don Abbondi, o il palazzotto di don Rodrigo, visto e considerato che tali personaggi non sono mai stati a questo mondo e non potevano avere né patria né casa. Il cercare un luogo dove un fatto avvenne si capisce, il cercare il luogo ove un fatto... non avvenne è una stramberia che non si capisce».
Già allora, lo scrittore trentino sottolineava come i "luoghi", al di là di quelli certi certificati dallo stesso Manzoni, non fossero quella casa o quel palazzo o quel castello, bensì la straordinaria cornice del paesaggio.

Francesco Gonin, l'incontro coi bravi senza capelletta

Non a caso, la nostra guida consiglia un inusuale percorso: da Milano raggiungere in treno Calolzio, scendere in riva all'Adda «e pagata a quel Caronte la tassa di dieci centesimi» raggiungere Olginate e poi salire a Galbiate lungo una stradina che offre «una vista sempre più amena e grandiosa, e lasciando su a sinistra, nascosta fra gli alberi, la umile casetta già chiamata la Costa» che una lapide ricorda essere la cascina dove il Manzoni fu tenuto a balia. Ma soprattutto «quando siamo verso Galbiate, il teatro vero ci sta davanti, in tutta la sua imponenza, in tutta la sua bellezza. Ecco "quel ramo del lago di Como..."».
La gita galbiatese «ci fa prima vedere dall'alto nel suo complesso, e percorrere quindi a parte a parte, tutto il teatro scelto dal Manzoni per isvolgervi il suo romanzo dei Promessi Sposi». Ma «di vero non c'è nulla: tutti sappiamo che i tali eroi e le tali eroine di poemi, di drammi, di romanzi, sono creazioni della fantasia, astrazioni della mente: eppure ogni tanto proviamo il bisogno di visitare quei paesi dove hanno vissuto, hanno amato, hanno sofferto uomini e donne immaginari».
"Alpinus" ne scrisse sul Corriere del 27 luglio 1895. L'occasione era data dal concorso bandito «dall'editore Ulrico Hoepli fra gli artisti italiani per una nuova grande edizione illustrata dei Promessi sposi (che uscirà nel 1900 con i disegni di Gaetano Previati).
Brentari si chiedeva: «Che faranno essi [gli artisti] allora? Lavoreranno di fantasia o ritrarranno dal vero?». Interrogativo generato da una serie di considerazioni. «Si sa, per esempio, che ben quattro paesi del territorio di Lecco vennero indicati come patria dei Promessi sposi»: Trivero Querino indicò Germanedo, Giuseppe Fumagalli, «con ragionamenti che avrebbero grande valore se non fossero contraddetti.... dallo stesso Manzoni, stava per Maggianico: la grande maggioranza degli scrittori, e l'opinione popolare, sostengono i diritti di Acquate: lo Stoppani, il Bindoni e altri, con ottimi ragionamenti cercano invece di dimostrare che quel paesello non può essere che Olate».

Insomma - avrebbe scritto qualche pagina oltre - come va che «se la faccenda era tanto chiara e il romanzo preciso» a tutti i vari cercatori dei veri luoghi non si sia riusciti di mettersi d'accordo sul paesello? E «basterebbe questo fatto per dover conchiudere che il Manzoni ci descrisse un paesello che, per certi tratti, assomiglia a ciascuno dei predetti paeselli, e per certi altri non gli assomiglia affatto».
«Se il Manzoni - argomenta il geografo trentino - raccontò fatti veri o mezzi veri unendoli alle invenzioni della sua fantasia avesse, descrivendo le località, fatto altrettanto, e mescolato la descrizione di luoghi veri con quella di luoghi da lui immaginati? E come ai suoi personaggi storici (...) fa dire e fare ciò che essi non hanno mai né detto né fatto , non potrebbe forse aver messo dei castelli dove non furono mai ? E come fa muovere i suoi personaggi, non può anche aver fatto muovere paesi e rocche, alterandone, per comodo del racconto, le rispettive distanze? Non avrà forse anche nell'immaginare il paesello dei Promessi Sposi avuto presente più Olate che un altro villaggio, senza però copiarne la topografia, senza obbligarsi a non alterarne nulla, senza tenerlo piuttosto sulla destra che sulla sinistra del Caldone. Credo, dopo quanto lessi, e meglio ancora dopo quanto vidi, che il Manzoni non abbia pensato che al territorio di Lecco in generale, facendo quanto al resto tutto quello che gli pareva e piaceva. E quindi vorrei che nella grande edizione Hoepli, i paesi che il romanziere copiò dal vero, come Pescarenico, o forse ebbe davanti agli occi, come Olate, fossero riprodotti dal vero, dal vero cioè riportati al 1628, anche dagli artisti: e che per luoghi creati od alterati dalla fantasia del Manzoni, quali il palazzotto di don Rodrigo, la Malanotte, il castello dell'Innominato, il pittore avesse libertà d'interpretare come crederà meglio quella fantasia».

Copertine Bindoni 1895 e 2015

 

L'articolo fu seguito da alcune lettere di illustri lettori. Gennaro Buonanno della Biblioteca nazionale di Torino rivelava confidenze dirette avute dal Manzoni «nei primi di giugno del 1870» e secondo cui, a parte la descrizione generale del primo capitolo che certo nessuno può contestare, dei luoghi "immaginari" gli unici esistenti siano la cappelletta di Acquate del fatale incontro di don Abbondio e il cumulo dei Cantarelli nel quale seppellire l'Azzeccagarbugli: «tutto il resto fu creazione della fantasia». Fermo restando l'incontrovertibile realtà «del convento di Pescarenico, del ponte sull'Adda, o dello sbocco del Bione o del Lazzareetto, o del forno delle Grucce, e via dicendo, (...). Ma da ciò a conchiudere che tutti, o anche la maggior parte dei luoghi manzoniani son ritratti dal vero, ci corre. Sarebbe come a dire che, essendo personaggi e avvenimenti veri e storici il cardinal Federigo, la monaca di Monza, la carestia, la peste e altri, siano altresì veri don Abbondio, don Rodrigo, Lucia, Renzo, il sarto, il Griso e tutte quelle mirabili creazioni della fantasia manzoniana».
Se ne ebbe a male quel professor Giuseppe Bindoni, docente di lingua italiana il quale si era dannato l'anima per individuare tutti i luoghi del romanzo dandone poi conto nella certosina "Topografia (del romanzo "I promessi sposi")" pubblicata nel 1895 dall'editrice milanese "Richiedei" (per gli interessati, nel 2015 è stata ripubblicata dall'editrice fiorentina Gemini Grafica con il titolo "A spasso con i Promessi sposi"). Rispose un po' piccato ricevendo dal Bonanno una impietosa risposta: «Si potrà ammirare, ed io ammiro davvero lo studio, l'amore, le cure, che il Bindoni ha speso per il suo lavoro; ma ciò nonostante bisogna conchiudere che la è tutta una fatica sprecata. Il suo è un edifizio laboriosamente innalzato, il quale manca però all'intuito di fondamento, e crolla al primo soffio».
Ma il fatto era che i confini tra realtà e finzione apparivano ormai sempre più impercettibili. E non solo per la geografia, ma anche per la storia. Se il latinista Carlo Giussani - egli pure scrivendo al "Corriere" - raccontò d'una escursione compiuta ad Acquate un giorno imprecisato tra il 1855 e il 1857: «Ricordo che era giorno di festa e che quasi tutti erano andati ad una sagra vicina. Arrivando al paese (senza incontrar per via la famosa cappelletta), trovai al principio una vecchia contadina, molto vecchia e pezzente, e le domandai della casa di Lucia Mondella ; essa m'indicò la via; ma allora mi venne in mente d'interrogarla, se sapeva qualche cosa di questa Lucia Mondella : ed essa, rispondendo a stento e a spizzico , e stimolata dalle mie domande, disse che era una storia vecchia, e che se l'era dimenticata perché l'avea sentita raccontare da' suoi vecchi quando ella era ancora fanciulla (dunque prima della pubblicazione del romanzo); ad ogni modo, si ricordava ancora, che Lucia Mondella era stata una santa ; che don Rodrigo, dal suo castello , guardava con un cannocchiale nella camera di Lucia ; che Lucia era stata tre giorni e tre notti nascosta sotto un ponte per sfuggire alle ricerche del Griso. Conosceva anche il nome di Renzo, che era di Pescarenico. Di don Abbondio, di fra Cristoforo, della Signora, del rapimento, dell'Innominato non sapeva nulla di nulla». Tutto ciò, secondo Giussani dimostrava «che si trattava di una vera tradizione popolare, che il Manzoni aveva raccolta e trasformata nella verità del l'arte; tanto più che volli accertarmi, e m'accertai, che la vecchia ignorava completamente che ci fosse un bel libro che raccontava la storia di Lucia, come ignorava affatto che ci fosse al mondo (allora c'era) un certo signor Alessandro Manzoni»..

Copertina Brentari

 

Tradizione postuma, afferma Brentari, perché «di tradizione anteriore al romanzo non c'è che quella del tirannello che stava al Pomerio e che probabilmente è il germe di don Rodrigo. (...) La storia diventò popolarissima... ma dopo la pubblicazione del romanzo; e, parte in causa dell'impressione sincera che quella storia aveva fatto sugli animi di tutti, parte per un naturale amore del natio loco che da quella storia veniva reso celebre, parte anche - e perché si dovrebbe nasconderlo? - perché quei nomi servivano stupendamente alla réclame, ne avvenne che a Pescarenico, ad Acquate, ed anche altrove, i nomi dei personaggi dei Promessi Sposi furono scritti su tutti i canti delle vie; gli osti li presero come insegna delle loro osterie ; i barcaiuoli del lago di Lecco li usarono per battezzare le loro barchette ; e gli scultori popolarono coi busti di Renzo e Lucia tutte le villette del territorio».
Nacque dunque il mito. Che dura ancora oggi. Mito non solo letterario, a dar retta a Cesare Cantù: « Ho fatto ridere il Manzoni raccontandogli che un cicerone volgare a Pescarenico mi precisò la casa di Lucia, l'orto di Renzo, la cella di fra' Cristoforo, ecc. E avendogli io chiesto se Manzoni era stato a visitarli, mi domando chi fosse questo Manzoni».
Con il suo libretto, Brentari vuol dimostrare che «il vero sito ove esistevano gli attori del romanzo non si troverà mai perché non furono che creazioni di mente». Il geografo trentino si piglia pure la briga di misurare i passi di Renzo dalla casa di Lucia allo studio del dottor Azzeccagarbugli per concludere che ci impiega troppo tempo: altro che Olate od Acquate, dunque: bisogna andar su per la costa della montagna e quindi Falghera, Malnago, addirittura il rifugio Stoppani...
Il fatto è che «la topografia è proprio tutto uno scombussolamento. Il teatro che Manzoni scelse per farvi agire i suoi personaggi era bello, stupendo; ma al momento di adoperarlo, lo modificò sulla carta come meglio gli piaceva, e, trovandolo angusto, lo allargò quanto gli sembrò necessario». E del resto, Manzoni nominava quali luoghi reali «Pescarenico, Maggianico, Pasturo, (...) Chiuso (...), i Cantarelli, i paesi del lago e della Valsassina per il passaggio dei lanzichenecchi». Del resto « non confidò mai ad alcuno, neppure a' suoi figli, ove avesse posto la residenza de' suoi principali personaggi» e nemmeno Cesare Cantù ne sapeva qualcosa, mentre Stefano Stampa, figlio "acquisito" di Manzoni, avrebbe detto: «Io l'ho sentito [il Manzoni] ad affermare che le descrizioni di tutti quei luoghi marcati da un asterisco invece che dal nome, erano non solo immaginarie, ma fatte in modo da poterli riconoscere come realmente esistenti. Circa al villaggio di Lucia, al castello dell'Innominato e ad altri luoghi (...) sono tutti in errore; Manzoni (...), schivando l'identità, si studiò (...) di fuorviare interamente il lettore (...) per esser più libero di dipingere quello che gli accomodava».
E visto che si era cominciato parlando di illustrazioni, sta proprio nella illustrazione al romanzo del 1840 la prova definitiva sull'inesistenza dei luoghi.
Realizzate da Francesco Gonin, sappiamo come le illustrazioni furono tutte scelte dal Manzoni stesso che correggeva «i disegnatori e gli intagliatori» affaccendato su uno scrittoio «ingombro di disegni, di tavolette, di incisioni. Ed esaminando proprio quell'edizione del 1840, conclude Brentari, «vedremo che alcuni disegni, che rappresentano luoghi od edifici reali, furono con grande cura copiati dal vero o da stampe del tempo E con tutte queste pazienti e minute cure il Manzoni avrebbe proprio trascurato d'indicare al Gonin ed agli altri disegnatori i luoghi che c'erano da copiare, se quei luoghi esistevano veramente? Ed avrebbe egli permesso che quegli artisti, in cambio che copiare dal vero, avessero interpretata la sua fantasia letteraria colla loro fantasia artistica? Eh! via».





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Dario Cercek
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