SCAFFALE LECCHESE/112: 'Cose di alpinismo' di Mario Cermenati, a capo del CAI per 35 anni

Macché nuoto o canottaggio. Lo sport migliore è l’alpinismo. Parole di Mario Cermenati pronunciate in una conferenza tenuta nel 1898 a Roma: promossa dal Ministero della pubblica istruzione e del Club alpino italiano, era dedicata «a una questione di capitale importanza: l’educazione fisica della gioventù» per la quale «da qualche anno s’è incominciata una viva campagna per riformare la ginnastica fin qui insegnata nelle scuole».
Al geologo e paleontologo lecchese siamo soliti pensare per il suo lavoro scientifico e ancor più per il suo impegno politico, trascurando il ruolo avuto nel Cai della cui sezione di Lecco fu presidente per qualcosa come 35 anni, dal 1890 fino alla morte avvenuta nel 1924. Quasi un regno. Al quale, il mandato di qualsiasi altro presidente non può nemmeno essere paragonato. Altri tempi, certo.

Il testo di quella conferenza si ritrova nel libro “Cose di alpinismo” pubblicato nel 1901 dalla Società editrice Dante Alighieri di Roma. Secondo titolo di una Biblioteca dell’alpinista, raccoglieva una serie di relazioni che lo stesso Cermenati aveva presentato in occasioni diverse: «Nessunissima pretesa letteraria – premetteva lo stesso autore - Tengo semplicemente a questo: fare qualche alpinista di più fra la gioventù italiana e consolare qualche arrampicatore giubilato col ricordo delle bellezze godute».
In particolare, il libro raggruppa otto interventi dagli orizzonti vastissimi, sia dal punto di vista geografico che da quello storico. In molte pagine, la cui lettura oggi può anche essere un po’ stucchevole, si respira l’atmosfera di un’altra epoca e le considerazioni scontano ovviamente un secolo in meno di conoscenze. Altri passi si leggono invece con particolare gusto. Ed è termine calzante, considerato che molte “imprese” dell’alpinismo cermenatiano finivano con la gambe sotto il tavolo e un inseguirsi di non disdegnati brindisi dei quali ci par di riscontrare gli effetti nello stesso eloquio del “nostro” presidente: «Suvvia – gridai – mostriamo anche noi di apprezzare, come si merita, il vin di Valtellina; libiamone allegramente, emulando, noi pellegrini della montagna, gli argonauti della mitologia, che l’elegante poeta Apollonio di Rodi dipinge intenti ad ogni ora a gustare “pretto vin giocondo”».
La “Stazione Stoppani”
Sotto il Legnone
E del resto «le feste alpinistiche sono sempre coronate – in omaggio all’appetito di cui è generosa dispensiera la montagna, meglio di tutti gli stimolanti e gli aperitivi che abbondano tra gli usi e i vizi della città – da asciolveri o da pranzetti deliziosi e bene innaffiati». Come, per esempio, l’inaugurazione della “Stazione Stoppani” (così era originariamente definita la capanna-rifugio alle falde del Resegone) dove «mi alzai e dissi: “Signori, ho bisogno di liberarmi di parecchi brindisi, che mi gorgogliano qui alla gola, per dar posto a qualche altro bicchiere di questo spumeggiante e squisitissimo vino».  La cerimonia, peraltro, già «magnificamente integrata da una colazione in posto» fu coronata «alla sera da un buon pranzo in Lecco – con trota e camoscio – all’albergo della Croce di Malta».
Tutti piaceri per i quali non serviva poi nemmeno la scusa della festa. Non se ne ebbero a male, per esempio, i soci del club milanese che l’11 ottobre 1896 avevano in programma d’accompagnare in vetta al Legnone alcuni “colleghi” di Genova. I quali, all’ultimo momento, dettero buca: «Laonde partirono per la meta stabilita solo alcuni alpinisti milanesi in unione a vari rappresentanti delle sezioni di Bergamo, di Como e di Lecco. Io fui della comitiva. Giunti ai Roccoli Lorla, il tempo, dapprima incerto, si mise risolutamente al brutto. (…) Si rinunciò pertanto a una parte del programma, ossia alla vetta, ma non si poté derogare ad altro capitolo del programma stesso, ossia al pranzo sociale. (…) già predisposto in un albergo di Delebio. Coraggiosamente, affrontando le celesti cataratte (…) scendemmo a saltelloni a Colico e da qui, in carrettella, ci portammo a Delebio per l’improrogabile desinare. Altra parte del programma che si dovette esaurire fu quella del brindisi». Epperò, vien da dire che la gamba era buona se era stata prevista l’ascesa alla vetta del Legnone (partendo da Colico, immaginiamo a ore antelucane) e il rientro per l’ora di pranzo.

Amenità a parte, vediamo come Cermenati spiega il primato dell’alpinismo sugli altri sport considerato che il nuoto «è un ottimo esercizio igienico e ginnastico, ma richiede un mondo di precauzioni e, se troppo prolungato, riesce dannoso», mentre «il remare e il cavalcare sono del pari due splendidi, simpaticissimi sports; ma le difficoltà economiche di praticar l’uno e l’altro, per il costo delle barche e dei cavalli, non li rende possibili a chicchessia; né a tutti bastano i soldi per ascriversi alle società». Considerazioni, in effetti, sensate per l’epoca. In quanto all’alpinismo, cita Antonio Stoppani («In corpo gracile e malescio alberga troppo sovente uno spirito fiacco, timido, ingrullito, senza energia di volontà. Fatelo rampicare quel meschinello quattro o cinque giorni in montagna, che non sappia la mattina dove andrà a riposare la sera, e vedrete come vi diventa un altr’uomo…») e cita Alessandro Manzoni («E’ cosa eccellente arrampicarsi sui monti e affaticarvisi assai») per concludere che «se l’alpinismo è igiene e ginnastica per il corpo, è del pari ginnastica ed igiene per lo spirito; vi dirò, anzi, con Quintino Sella, che l’alpinismo è un mezzo educativo più morale che fisico». Perché «fomenta, in prima linea, quei sensi di libertà e indipendenza» e aggiunge agli individui «quei sensi di coraggio e di costanza che sono il corredo indispensabile dell’uomo libero e fiero» diventando così «sublime educazione del carattere». Perché «la lealtà e l’onorabilità, la modestia e la parsimonia, la sincerità e la semplicità dei costumi e parecchie altre doti morali sono altrettanti portati delle fatiche e delle gioie alpinistiche, della scuola proficua di privazioni e di sofferenze che insegna tra i monti» dove «i costumi corrotti dalle abitudini e dalle relazioni cittadine si ritemprano (…) e riprendono la nativa schiettezza». Perché nobilita «il sentimento dell’amicizia» e fa «sentire più profonda la solidarietà». Perché, è «anche scuola del più puro patriottismo; scuola di gran lunga superiore agl’insegnamenti astratti di storia nazionale e senza confronti con la pretesa educazione patriottica della ginnastica militare col maneggio delle armi e con le sfilate marziali a suon di trombe e tamburi»: si ricordi sono ancora anni in cui c’erano da “fare gli italiani”.

Mario Cermenati

Passa poi, con “La musica delle montagne” a far della poesia, descrivendo «la gamma infinita di suoni, di voci, di rumori che dà la montagna nelle varie epoche dell’anno e nelle varie ore della giornata» come un’autentica colonna sonora: le cascate, per esempio, «strumenti poderosi della grande orchestra della natura, strumenti che suonano da sé, senza bisogno di relativi “professori”». E, citando Giuseppe Giacosa, «l’epiteto che meglio si conviene all’estate in montagna è quello di sonora: poiché, dalle punte più ardue del monte Bianco e del monte Rosa fino all’ultima falda delle montagne digradanti al piano, la stagione estiva canta, mormora, bisbiglia, echeggia, rimbomba, per non parlare dell’infinità varietà dei suoni che mandano gli animali e dei fragori delle meteore», mentre attorno ai ghiacciai che si sciolgono «il terreno, pur ora ridato al sole e ancora spugnoso per la neve succhiata, espande in ogni verso le acque frettolose, e canta e gorgoglia come allegro della superata prigionia». Ma allora, ancora, non ci si preoccupava dei cambiamenti climatici e della ritirata dei ghiacciai per decenni ancora ritenuti “eterni”.
Inoltre, non ci si deve allarmare di fronte a eventuali disgrazie, come le parecchie che pare si siano verificate nel 1898 e che «commossero non poco la pubblica opinione, per giunta eccitata da articoli su giornali, i quali non si peritarono di muovere aspri rimproveri all’alpinismo». Abitudini inveterate, quindi. Da parte sua, Cermenati si sente in dovere di «prendere, in certo qual modo, la difesa dell’alpinismo calunniato» cogliendo l’occasione – pensa un po’ - «di una riunione a tavola dei soci della mia sezione Cai, reduci da una gita al Resegone» e, naturalmente «premessi i brindisi voluti dalla circostanza» delle gita e non certo delle disgrazie, così disse: «E’ pur troppo vero che quest’anno si ebbero parecchie disgrazie in montagna, ma il prendere argomento da cotali lutti – e quale manifestazione umana non ha lutti? – per intonare il “crucifige” alla nobilissima istituzione dell’alpinismo, è proprio cosa che fa dispetto. E dispetto maggiore, quando, come conseguenze dell’alpinismo, si vedono classificate disgrazie che capitano a persone, le quali frequentano ì le montagne, ma a scopo tutt’altro che alpinistico! Tanto varrebbe dar la colpa all’alpinismo di tutto ciò che succede tra i monti. (…) Bisogna persuadersi che le disgrazie alpine – badate: non dico alpinistiche – succedono quando chi si cimenta sulle montagne dimentica i precetti di prudenza e le regole del salire che l’alpinismo impone (…) individui che si arrischiano su vette, a scalar le quali non hanno mezzi sufficienti – e la nozione esatta della potenzialità fisica e morale di ciascun alpinista è il primo comandamento del decalogo nostro; - sono coloro che vogliono avventurarsi in luoghi evidentemente inaccessibili, oppure sfidare il cattivo tempo (…) che tentano salite difficile senza l’aiuto necessario, ed indispensabile di una o più guide, ed usano corde marcie od attrezzi guasti…e via dicendo».
Se l’alpinismo primeggia, Cermenati si dimostra smaliziato e magari opportunista. Come in quella domenica d’ottobre del 1891, in occasione di una gara remiera, si trovava «ad un banchetto di canottieri» dove era stato servito «un vino eccellente» e, alzando il calice «ben colmo», portò il saluto del Cai: «Non meravigliatevi se, alla vostra tavola, qui dove si inneggia al remo, segga e parli il presidente d’una società, che ha per arma l’alpenstok. Siamo fratelli, siamo colleghi. (…) Bevete dunque con me, o baldi canottieri; bevete alla montagna, mentre io bevo con voi ai vostri nautici ardimenti, alla prosperità delle vostre associazioni, ai trionfi del vostro sport». Del resto «non è forse dal livello delle acque che si parte per giudicare dell’altitudine dei monti?». E «il legame fraterno che unisce alpinisti e canottieri trovasi consacrato fin dalla prima flebile eco dell’antichità remota», nientemeno che quando l’arca del diluvio s’arenò sul monte Ararat. Ma in fondo «era naturale che i lecchesi, viventi sulle rive di un lago impareggiabile ed alle falde di montagne bellissime, sentissero, ad un tempo, la passione del remo e quella dell’alpenstok, i due strumenti fratelli, entrambi fattori validissimi di ingagliardamento della gioventù». Purché – sia chiaro! - si consideri il canottaggio come un allenamento dei migliori in funzione della pratica dell’alpinismo. E la conclusione con l’augurio di una Lecco che primeggiasse anche  nello sport potrebbe oggi essere letta come una sorta di profezia, considerando come l’alpinismo lecchese nel Novecento abbia scritto alcune pagine di autentica storia.
Nella brevissima premessa a “Cose d’alpinismo”, lo scienziato lecchese scriveva tra l’altro che «se il favore del pubblico non sarà del tutto negativo» altri volumi analoghi sarebbero seguiti. Non fu così. Però, come capitava allora, i testi di molte conferenze e di molti discorsi pubblici venivano riprodotti in opuscoletti venduti a una lira o poco più. Successe anche con Cermenati. Che anche in altre occasioni discettò d’alpinismo.

Le bibliografie registrano, tra gli altri titoli, un “Alessandro Volta alpinista” pubblicato a Torino nel 1899 e che riportava il discorso pronunciato a Como in vista del centenario della «immortale scoperta della pila», discorso nel quale Cermenati osservò come «nessuno di coloro, i quali scrissero sulla storia e sullo sviluppo dell’alpinismo, nessuno ricordò il Volta tra i precursori e gli iniziatori della perlustrazione dei monti» perché «l’alpinismo ha essenzialmente un’origine scientifica (…) quando, messi tra i ferrivecchi i sistemi immaginari e lasciati ai garruli ignoranti i battibecchi metafisici, [gli scienziati] si diedero all’osservazione minuziosa ed attenta dei fenomeni naturali e scorsero, di conseguenza, nelle regioni montuose fin’allora neglette ed aborrite, il campo più promettente al riguardo».

Alessandro Volta

Di Volta si ricorda l’amore che nutriva per le montagne lariane («Quand’era fanciullo girò per ogni verso le montagne che sovrastano Gravedona»), di un viaggio in Svizzera e dell’incontro con Horace-Benedict de Saussure, lo scienziato ginevrino passato alla storia per avere conquistato la vetta del Monte Bianco, impresa per la quale il comasco «dettò un carme in omaggio (…) così merita pure di sedere tra i poeti della montagna». E, infine, quando nel 1819 ai ritirò «a vita tranquilla a Como (…) compiva ancora sovente qualche passeggiata nei dintorni e prediligeva quel Brunate che oggi è diventato una stazione alpinistica, degna di rivaleggiare con quelle che nella Svizzera attraggono forestieri da tutto il mondo. Oggi si sale a Brunate con la funicolare, ma in addietro, e quando non esisteva nemmeno la mulattiera, eseguita nel 1817, la strada era molto ripida e di pretto carattere alpestre».

“L’alpinismo in Antonio Stoppani” è invece il titolo di un opuscolo pubblicato a Roma nel 1893 nel quale, a ribadire il legame tra scienza e montagna, Cermenati parla del religioso lecchese come di «un alpinista tra i primi» e che «fu alpinista perché geologo», appassionato della montagna per quattro motivi capitali: perché innamorato della natura, perché cultore della geologia, perché patriota sincero e completo perché educatore della gioventù affezionato e coscienzioso. Ma questo fascicolo merita d’esser meglio approfondito. Ne riparleremo, dunque.


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Dario Cercek
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