SCAFFALE LECCHESE/110: ''Pelle di vento'' il romanzo del bellanese Luciano Lombardi

Tutto nasce da un "tesoro" che piove dal cielo: sigarette, armi, vestiti, soldi, tanti soldi «biglietti da mille a decine, nuovi di zecca, divisi in tanti mazzetti». Siamo sul finire della guerra, gli inglesi paracadutano rifornimenti per i partigiani in azione tra la Grigna e il Pizzo dei Tre Signori. Sennonché quella volta tira vento, «il vento che è l'unica cosa del quale non si può vendere la pelle», e il carico finisce da tutta un'altra parte: nei boschi più in basso, attorno a un paese non nominato ufficialmente ma ben indicato dalla geografia del racconto: Inesio, Sant'Ulderico, Sanico e altre tracce che ci conducono tra Bellano e la Muggiasca. E dove quel lancio farà assumere traiettorie impreviste alla vita delle persone.

"Pelle di vento" è il titolo di un romanzo del bellanese Luciano Lombardi, pubblicato nel 1994 dalla lecchese Periplo Edizioni. Racconta di una piccola comunità tra il lago e la montagna alle prese con le svolte storiche, di fronte alle quali si sente impreparata tanto incomprensibile sembra essere il concatenarsi degli eventi.
Lombardi, nato nel 1928, era figlio di un medico calabrese che nel 1933 salì dal Sud per assumere la condotta di Bellano e Vendrogno. Nel 1955, morto il padre, il giovane Luciano cominciò a lavorare nei tribunali militari tra Milano, Torino e La Spezia, fino al congedo nel 1977, quando tornò a vivere sul lago, dedicandosi alla scrittura, alla ricerca storica, al giornalismo, alla poesia».
Nel 1994, a soli 66 anni e cinque mesi prima dell'uscita del libro, la morte improvvisa «nella sua casa di Bellano dove viveva da solo (...) lasciando una ricca documentazione soprattutto storica, e molti appunti di lavori appena iniziati e schematizzati»: così la biografia tratteggiata dall'editore nel risvolto di copertina. Editore che ricorda come «"Pelle di vento", scritto nel 1958, è un romanzo (...) che l'autore "coccolava" tra le sue carte e che ci consegnò qualche mese fa con pudore e la discrezione di chi non voleva disturbare con le sue pagine le Sacre Muse della letteratura».
La storia raccontata da Lombardi è ispirata a un fatto veramente accaduto, ci viene detto. Anche se non sappiamo esattamente quale sia, dei diversi che si intrecciano, l'episodio che dà spunto all'intera narrazione. Fino a dove arrivi la realtà e dove cominci il lavoro della fantasia.
La vicenda ruota a due personaggi chiave. C'è Joe, un giovane che due mesi prima era «fuggito dalla città. Era stato preso in una retata e si era arruolato nella Guardia repubblicana per non finire in Germania. Aveva aspettato il momento buono per svignarsela e adesso era nella vecchia casa dove veniva da ragazzo a trascorrere l'estate...». E c'è un professore «piccolo e curvo, con un viso dai lineamenti delicati, [che] era venuto a starsene lassù perché debole di polmoni. Così diceva e poteva essere vero con quell'aspetto e quel colorito olivastro, ma il tempo di brigare con i partigiani della zona e di far propaganda antifascista lo trovava!» Benché quella banda partigiana che tenta di mettere assieme è fatta di personaggi un po' improbabili. Perché i partigiani veri stanno più su: «Erano stati visti sulla Grigna e sul Pizzo dei Tre Signori quell'estate. Gente forestiera, gente in gamba, non come quegli scalzacani del Boia, del Macchinista e dell'Albino che in paese la facevano da prepotenti per via del fazzoletto rosso e del moschetto che portavano a tracolla».

Luciano Lombardi in un dipinto di Giancarlo Vitali

E attorno il brulicare della gente di paese: il Tin, per esempio, che è il primo ad accorgersi di quel bendidio venuto giù dal cielo e non ci aveva pensato due volte. E poi, zitto: «Pazienza ci voleva, pensava il Tin. C'era gente che per la soddisfazione di parlare era capace di rovinarsi. Lui era furbo, non parlava con nessuno e non aveva amici. Pensava all'inverno, lui, quell'inverno che s'annunciava più duro degli altri e invece aveva trovato la fortuna a portata di mano».
Il Tin, dunque. E il Barba, il Gina, il Legurin. Tutti alle prese con le loro miserie quotidiane, con il sopravvivere alla guerra, senza sapere che per alcuni l'appuntamento con il destino sarebbe stato solo questione di ore, Perché, subito, la benedizione dei paracadute diventa una maledizione: «Tutti ne avevano approfittato, Quando erano arrivati i fascisti con i camion non erano rimasti che involucri vuoti e, sparsi attorno, qualche parabellum, caricatori, bombe a mano. Di paracadute solo due: uno che s'era sfilacciato cadendo sopra un castagno e un altro che era rimasto appeso a un traliccio d'alta tensione e nessuno si era arrischiato a toccarlo. I fascisti avevano concesso un paio di giorni di tempo perché si consegnassero le armi, poi avrebbero fucilato chiunque le avesse nascoste. E dopo i fascisti sarebbero arrivati i partigiani». Quelli veri, quelli a cui i rifornimenti inglesi erano destinati. Sono comandati da "Moro", fidanzato con una ragazza del paese che lavora nella locanda gestita dal vecchio zio dove trova riparo Joe e dove... la paglia prende fuoco. Scendendo dai monti, al "Moro" verrà buona la scusa di un Joe che, non avendo altri vestiti buoni, aveva recuperato dalla cassapanca «il maglione nero col collo chiuso e i pantaloni grigioverdi della Guardia repubblicana».
Ciò che sembra emergere, nel variegato mondo raccontato da Lombardi in quell'ultimo inverno di guerra, è la solitudine dei personaggi, quelli principali e quelli secondari, ciascuno alle prese con la propria storia personale dove non c'è poi molto spazio per gli ideali. Ai quali guarda forse soltanto il "professore". Il problema di tutti gli altri è quella di sfangarla in qualche modo. Sfangarla dalla Storia che si dispiega inaspettata anche in questa terra e che un giorno arriva impetuosa, rappresentata dal grande rastrellamento che i fascisti e i tedeschi mettono in atto proprio all'indomani del lancio sbagliato: militi e i soldati che salgono le balze della montagna, invadono i paesi, minacciano gli abitanti, sparano, uccidono. «Il primo chi li vide fu Bortolo. Portava di buon mattino una bestia al macello e a una svolta gli apparve la colonna che si snodava per la camionabile. Alla vista di tutti quegli uomini con gli elmetti, che avanzavano in fila indiana, ebbe paura e lasciò la bestia. Una raffica lo colse alle spalle e cadde con la bocca aperta nell'erba».

Una cartolina degli anni Venti del Novecento

C'è il terrore. Di chi in qualche modo era coinvolto con i "ribelli" o di chi più prosaicamente aveva ben "pescato" nel tesoro piovuto dal cielo, seppellendo il bottino in una stalla, sperando di non essere scoperti: «Il Tin cominciò a capire cos'era la paura. Qualcosa che era dentro di lui, mangiava con lui, dormiva con lui. Un chiodo che non riusciva a levarsi dal capo». O del vecchio locandiere, che pure una mano a Joe la dà. Però «io me ne frego della guerra, faccio i miei affari come tutti, io, partigiani e fascisti. Per me la trincea è finita».
La zona grigia di cui si è tanto parlato, a proposito di certa acquiescenza al fascismo? In realtà, è una sorta di istinto ancora più profondo, una sorta di straniamento di fronte alla Storia: «La montagna era immobile e non c'era guerra o uomo che potesse cambiarla. (...) Gli sforzi di uomini come il professore li lasciavano indifferenti. Loro erano la montagna, le donne che non sorridevano mai e pregavano vestite di nero nella chiesa grande, il sagrista che ogni giorno compiva gli stessi gesti. (...) Ognuno era quello che era e nemmeno la guerra l'avrebbe cambiato».
Dario Cercek
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