L'opinione: sul Ponte vecchio si faccia quel che si crede, ma si tolgano almeno le grate

Automobili sul Ponte Vecchio, un po’ in entrata e un po’ in uscita. E soltanto pedoni nottetempo e nel “temp de l’ura”, come una volta si definiva la pausa pranzo. Anche se già si ode rumoreggiare il partito di chi vorrebbe solo auto, sfrattando i pedoni, così come qualche sconsiderato avrebbe del resto già voluto fare qualche anno fa. Si sa che il traffico comanda e dunque staremo a vedere.

Si discute sulla nuova viabilità per il Ponte Vecchio e non entriamo nel merito dei provvedimenti annunciati. Però, ci sia consentito un augurio, non avendo l’ardire di dare a queste righe la forma del suggerimento. Bello sarebbe infatti che si pensasse al ponte anche come a un monumento storico. Ché tale è. In fondo, si tratta di una delle ormai poche cose antiche rimaste in questa città dove l’incuranza per il passato ha consentito un po’ troppi scempi.
Per secoli è stato l’unico ponte. Costruito nel 1336 («circa», scrivono i nostri storici) per volere di Azzone Visconti, duca di Milano, fino al 1955 è stato l’unico modo di attraversare l’Adda (barche a parte). Non facendo testo il ponte ferroviario gettato alla fine dell’Ottocento, fu nel 1955, infatti, che venne inaugurato il secondo ponte stradale, intitolato a John Fitzgerald Kennedy, ma che è in realtà è sempre stato il Ponte Nuovo. E così, il ponte secolare, fino ad allora il “pont grand” per distinguerlo dal “piccol” che scavalcava il Caldone dove ora c’è la piazza Manzoni, divenne il Ponte Vecchio. Nel 1985 verrà poi il viadotto dell’attraversamento dedicato ad Alessandro Manzoni ma che è rimasto per tutti il Terzo Ponte, già negli anni Sessanta auspicato da un settimanale che proprio Terzo Ponte volle chiamarsi: il Kennedy, insomma, non era già più sufficiente dopo pochi anni. Così come già non è più sufficiente nemmeno il “Terzo”, se occorre progettarne un quarto, invero un po’ bonsai, da realizzare in quattro e quattr’otto. Opera su cui, come al solito, ci si accapiglia.
In quanto al Vecchio, in principio erano solo otto arcate, alle quali ne vennero aggiunte altre due quasi subito. Poi nel Quattrocento, cominciarono a lamentarsi i comaschi. I quali, già da allora, se la prendevano coi lecchesi per il lago che straripava sulla riva loro. Oggi ce l’hanno con la diga di Olginate, allora con il Ponte. Così, nel 1440 allargarono l’alveo del fiume aggiungendo l’undicesima arcata. E chissà se in origine non ci fossero anche passerelle levatoie, come qualcuno ha ipotizzato e come antiche stampe suggeriscono.

Che fosse un passaggio fortificato, comunque non c’è dubbio perché il luogo era decisamente strategico. Come testimoniato dalle varie vicissitudini. Per esempio la celebre battaglia del 1799, con i francesi a far saltare il ponte il 28 aprile e gli austro-russi a ripararlo in qualche maniera nei giorni seguenti. Della furia soldatesca fece le spese anche la statua di san Giovanni Nepomuceno che proteggeva il ponte e che finì nell’Adda per poi essere recuperata dai pescatori di Pescarenico e donata alla gente di Castello (dove ancora si trova sulla piazza parrocchiale).
Per gratitudine d’essersela cavata a buon mercato – osservava l’ingegner Enrico Gandola che fu anche storico - i lecchesi fecero scolpire a caratteri d’oro, su lastra di marmo nero, un’epigrafe di ringraziamento alla Madonna e collocandola proprio sul ponte. Per poi toglierla l’anno seguente, alla vigilia del ritorno dei francesi. Anche quelle finita nel lago, è stato detto, ma pare leggenda. Lo stesso Gandola ci informava che la lapide «ricuperata dall’ing. Giuseppe Bovara, sia rimasta continuamente presso di lui, murata sopra il pianerottolo della scala nella casa che fu sua, in via Bovara». Sarà ancora lì? Chissà.

 

Venne poi, il tempo delle auto. E già nel 1910 si decise l’allargamento del ponte: «pur contro il parere della Commissione provinciale conservatrice dei monumenti – scrive ancora Gandola – il ponte venne allargato, mediante inserzioni laterali di mensole in ferro, abbattendo i muri dei due parapetti e distruggendo con essi la vetusta cappelletta».
La cappelletta sorgeva a metà ponte, come evidenziato da molte raffigurazioni: «Solitamente il tabernacolo ospitava un dipinto raffigurante la Madonna – racconta il nostro Aloisio Bonfanti nel suo libro “Il vecchio borgo” - Vi fu un periodo, nella seconda metà del secolo XVII, che la Madonna sparì per far posto alla statua di San Giovanni Nepomuceno. (…) La Madonna tornava sul ponte, scomparsa la statua del Santo boemo, nel dipinto del pittore viennese Fleissner (Andrea Fleissner (in realtà lombardo di Lovere e che risiedette a lungo a Lecco, ndr). Il Bambino era raffigurato con la corona del rosario in mano forse in omaggio all’antica devozione lecchese verso la Madonna del Rosario che si celebra con la “festa di Lecco” nella prima domenica di ottobre. Verso il 1900 la Madonna di Fleissner venne sostituita con la “Mater Salvatoris” opera del pittore Radice. Ma la nuova effige della Vergine doveva rimanere per breve periodo, nel 1920…».
Il Radice in questione è quel Casimiro di origini milanesi, trasferitosi poi a Galbiate e morto a Malgrate nel 1908, autore anche di alcuni affreschi nella basilica di San Nicolò, ma forse più conosciuto per un grazioso dipinto dedicato alla sagra di San Michele.
Da parte sua, Bonfanti ci dice che la tela del Fleissner fu custodita da alcuni privati per poi essere donata al Collegio Volta dove è probabile si trovi ancora, mentre la Madonna del Radice, pure attraverso privati, è arrivata ed è tuttora conservata ai Musei civici.  Anche la struttura della cappelletta era finita in mani private e custodita «in un cortiletto adiacente alla chiesa di Santa Marta – ci dice ancora Bonfanti - Le tracce si perdono con il trasferimento presso il cortile dell’edificio scolastico di via Ghislanzoni, avvenuto intorno al 1925. Si presume che la cappelletta sia stata poi demolita».

Per arrivare al 2014, quando sostanzialmente è stato deciso l’assetto attuale. Ci si era accorti che la struttura aveva bisogno di qualche intervento di consolidamento. Tra l’altro, le passerelle pedonali ai lati della carreggiata e sospese sul fiume venivano ritenute dai tecnici una sfida alla sorte. Ormai pericolanti più che ammalorate, sono state smantellate e di ripristinarle manco a parlarne. Si è così arrivati alla soluzione di una corsia per le auto in uscita, una per pedoni e biciclette, nonché tuoni e fulmini dal sindaco di Pescate che paventava la chiusura totale del ponte. Anche perché in quei mesi molto si era dibattuto e polemizzato e nel contempo aveva pure preso quota pure l’idea della pedonalizzazione.

 

Di quell’emergenza ci rimane ora un ponte “un po’ così”. Con orribili guard-rail e reti protettive, volute dall’allora sovrintendente ai beni artistici lombardi che li riteneva più consoni a una struttura trecentesca. Sarà così, ma a noi profani risultano un pugno nell’occhio, un attentato al buon gusto e al godimento del paesaggio. Nel complesso, il Ponte Vecchio ha oggi l’aspetto delle peggiori strade di periferia: una corsia pedonale sgraziata, lo sguardo ingabbiato e nemmeno un punto per sporgersi sullo scorrere dell’Adda. Forse, il nostro vecchio ponte meriterebbe un po’ di più. Non bastando le luci notturne a ridar dignità a un monumento. Per cominciare, si potrebbero appunto eliminare quelle orrende grate.
Dario Cercek
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