SCAFFALE LECCHESE/98: nei libri di Borghi, 'immagini di una città tra Ottocento e Novecento'

Oggi ci abbiamo fatto l’abitudine. Le foto d’epoca non sembrano più destare particolari emozioni o stupore. Tanto più che internet consente scambi e confronti un tempo impensabili. Sui cosiddetti social, ci si imbatte in più comunità di appassionati. Non era così una cinquantina di anni fa, quando veniva pubblicato, con la curatela di Angelo Borghi, “Lecco d’una volta. Immagini di una città tra Ottocento Novecento”.

Si trattava di un’iniziativa degli “Amici di Enrico Gandola” per ricordare l’ingegnere che fu promotore della biblioteca e dei musei civici lecchesi. Una prima edizione graficamente ricercata uscì nel 1974, a un anno dalla morte di Gandola. Una seconda, apparentemente ridotta ma in realtà accresciuta per numero di immagini, sarebbe uscita l’anno successivo. E furono proprio le fotografie raccolte nel corso del tempo dall’ingegner Gandola a costituire il nucleo di partenza, aggiungendosi poi altre immagini messe a disposizioni da enti pubblici, aziende, privati cittadini.

Se n’è parlato in altre occasioni: proprio in quegli anni Settanta del Novecento per ragioni le più diverse ci si accorgeva di un mondo che andava perdendosi e in parte già era perduto. Finiva forse allora l’epopea del “progresso”, l’epoca in cui si è soliti guardare avanti, proiettarsi verso un futuro da inventare e che per oltre ventennio coincise peraltro con la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale e con uno sviluppo invero un po’ dissennato delle cui conseguenze ci si cominciava ad accorgere proprio allora. Fu così che, di fronte a un paesaggio completamente trasformato, il riscoprire angoli della città radicalmente cambiati era non solo un’operazione nostalgica ma anche una sorta di riflessione. Come non era mai accaduto prima della storia, la fotografia consentiva di  vedere con esattezza  le trasformazioni del paesaggio e della vita quotidiana avvenute nel corso di un secolo e oltre.

Lecco, 1890. Sagrato della chiesa di Acquate

«Per tutti coloro che vivono qui e che in qualche modo sono legati a questa terra – si legge nell’introduzione – Lecco non è neppure oggetto di riflessione. Essa è una realtà, bella o brutta che sia, la accettano, spesso dichiarano di non poterla amare, in qualche modo tuttavia la soffrono. Non si pongono neppure il problema se la si debba o no rifiutare, recidendo il legame che avvince ad essa: come una madre, dalla quale ci si può staccare ma che non si può ripudiare, perché unica e irripetibile. Ma fra costoro vi sono alcuni che adorano una Lecco diversa, la Lecco d’una volta: per la preoccupazione di conservare il culto di una città fatta a misura dell’uomo, di una dimensione migliore che consentiva a tutti di conoscersi, di intravvedere almeno, fin dal modo di camminare o dall’accento, il familiare e il forestiero».

Lecco, 1980. Festa in maschera

Oggi, vale a dire cinquant’anni fa, «Lecco è una città abbastanza vasta, che ha sfruttato all’inverosimile la sua lingua di terra tra la montagna ed il lago; ha sacrificato tutto il sacrificabile per industre e case, ha creato brutti quartieri, ha soffocato nel decadimento i vecchi rioni cittadini, senza che peraltro il centro abbia assunto il respiro di una città moderna, si è creata vasti problemi di traffico. (…) D’altra parte Lecco non ha mai parlato di gloria. (…) Forse l’unica gloria è il lavoro». E, «malgrado benemerite istituzioni, il guadagno dei lecchesi [non si] è concretato in gustosa fisionomia delle vie e delle piazze: architettura strettamente funzionale e utilitaria, pei poveri e pei ricchi: era la gente che faceva diverso l’ambiente». E nel libro «si vedranno espressioni, scorci, volti di una città che appartiene alla memoria: anche se molte vie sono ancora riconoscibili, certi modi, certo sentire ci rimangono estranei. Non ci siamo messi a far la storia di un’epoca né della città, non abbiamo neppure tentato di delineare un mondo sociale e culturale proprio di Lecco. (…) Le pagine che seguono dovrebbero offrire spunti di curiosità e di riflessione su atmosfere passate, delle quali ci pare ingiusta pretesa tentare di non ricordare nulla».

Lecco, 1980. Venditore di angurie

Le immagini contenute in quel libro e che oggi sono state riprese e ristampate più volte diventando di larga diffusione tanto appunto da non sorprenderci più, allora andavano forse per la prima volta oltre la ristretta cerchia dei collezionisti o degli storici. E sono appunto immagini che già negli anni Settanta nel Novecento testimoniavano di un mondo scomparso come alcune vedute della città naturalmente dominata da montagne incombenti ma con certe fughe di prati ormai coperti da case e strade. E poi le piazze e le strade, le barche, i carri, i luoghi del lavoro, il mercato, alcuni panorami mozzafiato, la basilica senza campanile, il ponte grande sull’Adda e il ponte piccolo sul Caldone, Pescarenico, i primi calci al pallone, i pompieri, le prime auto, la passeggiata domenicale al Porto di Malgrate.

Lecco, 1890. Donna non gradisce la foto

Con tutto che anche oggi, proprio nel senso dell’oggidì, ci sarebbe da andare a indagare su questo altro mezzo secolo che sta tra l’uscita di “Lecco d’una volta” e l’arrabattarci dei nostri giorni, sulle trasformazioni avvenute, sulle nuove occasioni mancate.
Su tali trasformazioni, per esempio, rifletteva già nel 1990 – e sono ormai passati altri trent’anni - Gianfranco Scotti in “Lecco. Una gita nel 1890” pubblicato dall’editore comasco Enzo Pifferi e che raccoglie straordinarie fotografie di un ignoto autore sul quale «si possono fare delle supposizioni»: che si trattasse di «un “artista”, non uno dei rozzi ambulanti che operavano allora sulle piazze dei paesi durante e fiere o le sagre o che accoglievano i clienti nei loro studi attrezzati con fondali dipinti. Con ogni probabilità si tratta di un ricco milanese legato d’amicizia a famiglie dell’alta borghesia lecchese».

Il libro raccoglie una settantina di fotografie che si concentrano, più che sul paesaggio, sull’umanità che quel paesaggio abita. Anche qui c’è una versione della passeggiata malgratese ma c’è anche uno strepitoso gruppo mascherato in occasione di una festa di carnevale nel giardino di villa Tartari. E c’è, soprattutto tanto popolo, «momenti di vita quotidiana che nulla hanno a che spartire con l’attenzione per il “pittoresco” così accentuata in chi si serviva della macchina fotografica per dar vita a ricostruzioni di genere, prive di autenticità, quando non addirittura del tutto artefatte e false»: ci sono i venditori di anguria, gli zampognari, le precessioni, i carrettieri, i barcaioli, le massaie al mercato, i venditori di polenta, un gruppo di cacciatori, contadini e una folgorante immagine di donne e bambini sul sagrato della chiesa parrocchiale di Acquate che ci trascina davvero in un’antichità inimmaginata. E infine sì, anche qualche scorcio come la villa del Belvedere, la cui distruzione «avvenuta nel 1960, per far posto a grandi condomini, fu un vero delitto ambientale che pesa ancora sulla coscienza collettiva».

Si realizza la punta del campanile

Veduta senza il campanile

Introducendo quella serie di autentici capolavori, Scotti appunto rifletteva come «guardando queste fotografie, confrontando il paesaggio che ci restituiscono con quello che abbiamo imparato a conoscere, non si può non rilevare, e amaramente, come lo sviluppo del territorio sia avvenuto nell’ultimo secolo, e specialmente negli ultimi cinquant’anni, a totale discapito dell’ambiente naturale che quasi mai è stato tenuto in considerazione al momento di fare scelte pur imprescindibili e sacrosante, connesse con la crescita civile e industriale della città». La quale «ha finito per divorare se stessa» e «cresciuta in modo disordinato e casuale, ha perso molto del suo fascino primitivo».

Piazza Manzoni e il ponte piccolo

Tram in piazza Muzzi, ora Sassi

E a proposito delle occasioni perdute, scriveva: «Lo smantellamento di alcuni importanti insediamenti industriali (…) avrebbe potuto rappresentare l’occasione per un ripensamento, per una inversione di tendenza, come nel caso dell’area tra i due ponti che una dissennata cementificazione ha invece sottratto per sempre a un progetto di valorizzazione della sponda fluviale». Nel 1890 «l piccolo borgo lariano non era molto cambiato rispetto ai tempi della giovinezza del Manzoni (…) e anche la Lecco secentesca che egli aveva in mente si poteva facilmente ricostruire, immutate o quasi essendo le contrade, le piazze e quasi il respiro stesso, il volto del piccolo centro», mentre nel 1990 «ben poco si è salvato» da «uno scempio dissennato e oltraggioso che ha distrutto l’anima del territorio» e «quel poco corre ogni giorno il pericolo di scomparire, preda della più violenta speculazione, vittima in egual misura della voracità degli imprenditori edili e della mancanza di un indirizzo, di una autorevolezza di pianificazione da parte delle pubbliche amministrazioni».


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Dario Cercek
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