SCAFFALE LECCHESE/97: dalla Capanna Moncodeno fino al Carlo Porta, i rifugi nei libri

Il primo rifugio in assoluto fu la Capanna Moncodeno. Giancarlo Mauri nella sua guida escursionistica delle Grigne (“I sentieri e l’Alta Via”, Tamari Montagna Edizioni, Bologna, prima edizione 1988) ci racconta che, nel 1881, «in occasione del XIV congresso degli Alpinisti Italiani, la sezione milanese [del Cai] inaugura in zona Bregai basso, versante settentrionale del Grignone, la Capanna Moncodeno, primo rifugio delle Grigne e tra i primi in assoluto delle Alpi italiane. Avrà però una vita breve poiché una valanga lo distruggerà nell’inverno 1897».
E dunque dei rifugi alpini lecchesi esistenti, il primato di longevità spetta al Bietti-Buzzi, costruito nel 1886 come Capanna Releccio dal nome «del grande anfiteatro calcareo formato dalla Cresta di Piancaformia, dalla vetta stessa della Grigna [Settentrionale], dal Sasso dei Carbonari e dal Sasso Cavallo con vasto panorama sulle Alpi» così come ci dipinge il paesaggio Ornella Gnecchi, insegnante e giornalista lecchese, in una trilogia - “Rifugi lecchesi. Itinerari e storia” - uscita tra il 1999 e il 2000 per la Casa editrice Stefanoni.



Racconta ancora Mauri che Carlo Rompani detto “Marchett” tracciò alcuni sentieri tra cui quello da Sonvico al Releccio, e «l’apertura di questi itinerari portò alla necessità di ampliare l’umido baitello (per alcuni addirittura una tana) posto in località Releccio, utilizzato per dormire la notte precedente l’ascensione al Grignone. Ed è ancora la sezione di Milano a farsi carico di ciò inaugurando il 3 ottobre 1886 la nuova Capanna di Releccio».
Solo nel 1938 la struttura sarà intitolata a Luigi Bietti, «valente alpinista – scrive Gnecchi - e nota figura dell’ambiente alpinistico milanese [che] per trent’anni resse la segreteria del sodalizio lombardo», il quale sodalizio «volle così ricordare “l’opera sua con fede tanti anni prestata in silenzio e umiltà” come si legge nella marmetta incassata nella parte anteriore dell’edificio».



Le note di Mauri sono parte di una stringata per quanto dettagliata storia dell’esplorazione delle Grigne a introduzione di una guida escursionistica il cui principale scopo è appunto quello di descrivere oltre duecento itinerari.
La trilogia di Ornella Gnecchi è invece una vera e propria mappa storica e sentimentale dei rifugi lecchesi e dove a volte il sentimento tracima anche un po’: un’opera che naturalmente offre indicazioni e spunti ai frequentatori dei nostri monti ma che anche «vuole rendere omaggio – spiega l’autrice - allo spirito di sacrificio e dedizione che caratterizza tutti i gestori dei rifugi»: non si tratta infatti di un elenco arido e freddo, bensì di un vero e proprio racconto che alla storia delle singole strutture, alle schede tecniche e alle indicazioni pratiche per gli escursionisti, aggiunge ritratti di personaggi a loro modo “storici”, interviste ad alcuni gestori e le curiosità più diverse, a comporre un quadro pressoché completo.



Dall’uscita dei tre volumi sono ormai passati vent’anni e alla guida delle “capanne”, gli avvicendamenti si sono susseguiti senza posa, qualcuna delle persone raccontate è uscita di scena. Complessivamente, però, la mappa è valida ancora oggi. Con gli inevitabili aggiornamenti. Per via di qualche rifugio che magari non esiste più, come l’Alippi ai Piani Resinelli, e qualche altro che invece è venuto dopo, come il Griera, sulle pendici del Legnone, aperto solo nel 2011. E anche a proposito proprio della Capanna Releccio, è doveroso segnalare come all’intitolazione a Luigi Bietti, nel 2005 sia stata aggiunta quella alla famiglia mandellese Buzzi le cui donazioni consentirono alla sezione di Mandello del Cai di rilevare la struttura. Che ora appunto si chiama Bietti-Buzzi.



Sono quasi una novantina le strutture “censite” da Ornella Gnecchi, Nell’elenco figurano anche i semplici bivacchi, qualche agriturismo, i due o tre bar o ristoranti attorno a una funivia, le baite degli alpini ma anche antiche osterie che, sciogliendo un po’ le briglie della fantasia, rischiano di retrodatare addirittura di secoli l’inizio di tutta questa storia. Per esempio, la Trattoria del Resegone a Morterone che oggi non c’è più e all’epoca della pubblicazione del volume «esisteva da oltre cent’anni» ed era l’osteria di un villaggio di montagna del quale «si cominciano ad avere notizie precise già intorno al 1500 (…) anche se nel 1363 Morterone aveva la propria comunità» e si va così nella leggenda. Ed è, inoltre, tutt’altro capitolo rispetto alla frequentazione per diletto della montagna, abitudine che cominciò a far proseliti nell’ultimo scorcio del XIX secolo.



Sorse dunque la Capanna Moncodeno, sorse la Capanna Releccio e non passò poi molto tempo che lo stesso Cai milanese decise nel 1895 di realizzare la “”capanna” sul Grignone che per noi oggi è il Rifugio Brioschi e la cui costruzione ebbe anche momenti drammatici come ci racconta ancora Giancarlo Mauri: «La storia ci ha tramandato che nel mese di giugno, mentre gli operai scendevano per il riposo notturno alla Capanna di Releccio, uno di loro trova la morte scivolando per le rocce. Colpiti dalla disgrazia, i suoi colleghi abbandonano in massa il lavoro e tornano a casa. Trovati con difficoltà altri muratori, i lavori riprendono, finché una notte un violento temporale distrugge tutto quanto, Perseverando, si riprese a costruire e il 20 ottobre apre la Capanna Grigna Vetta» che nel 1926 venne intitolata a Luigi Brioschi, «facoltoso esponente della borghesia milanese – annota Gnecchi - che amava risalire i versanti più impervi delle montagne» e che «aveva fatto delle donazioni al Cai proprio al fine di ampliare il rifugio» e che, già ottantenne, non volle mancare alla cerimonia inaugurale dell’avvenuta ristrutturazione.
All’epoca della costruzione, tra l’altro, doveva esistere ancora la Capanna Moncodeno, a non molta distanza dall’attuale Rifugio Bogani (per inciso, inaugurato nel 1906 come Capanna Monza), se è del 1897 la slavina distruttrice.



Ripercorrere le vicende dei nostri rifugi è affascinante ed è una maniera di conoscere momenti della nostra storia, specchio della società che è andata cambiando: la frequentazione della montagna per secoli riservata ai contadini che salivano fin dove potevano per ricavare di che sopravvivere che a un tratto si incrocia con le mode borghesi che contagiano poi anche il popolo più semplice. E al Cai, si aggiungono associazioni escursionistiche più proletarie. Ciascuna edifica il proprio o i propri rifugi che ormai già alla metà del Novecento e oggi ancora offrivano e offrono punti di appoggio che sono diventati – come scriveva Angelo Sala nell’introduzione al primo volume di Ornella Gnecchi – «gli avamposti in quota nella difesa della natura (…) indispensabili nell’impegno per la salvaguardia dell’ambiente di montagna (...) nell’opera di manutenzione e soprattutto di difesa delle aree di montagna più frequentate». Sono pagine di storia minore che loro malgrado hanno incrociato in maniera drammatica anche la storia grande. Se si pensa che la gran parte degli edifici tra il 1943 e il 1945 venne distrutta dai nazifascisti.



Dietro ogni rifugio – piccolo o grande – ci sono davvero tanta storia, tante avventure, tante vicende personali, tanti sacrifici. E ciascuno potrebbe raccontarsi come in un romanzo.
Prendiamo il Rosalba. Racconta Mauri: nel 1905 «l’ambiente dei “grignaiuoli” è in fermento per i numerosi tentativi di conquista della cresta Segantini. (…) Giuseppe Clerici ed Eugenio Moraschini, finalmente primi salitori di questa, proposero la costruzione di un ricovero, idea raccolta dal munifico Davide Valsecchi (…) che subito provvede a far costruire una capanna nel giardino della sua villa di Milano. Poi, soddisfatto del lavoro, la fece smontare, portare ai Piani Resinelli e ricostruire (…) sulla cresta erbosa a monte del Colle del Pertusio. Il giorno dell’inaugurazione, 15 luglio 1906, annunciò ai presenti la decisione di darle il nome di Capanna Rosalba, come la sua neonata figlia. (…) Non contento, salì il sovrastante torrione che chiamo col nome della moglie, Cecilia: “così che la madre possa sorvegliare la figlia”».


Il primo Rosalba

O prendiamo il rifugio Santa Rita, al passo di Tre Croci, sotto il Pizzo dei Tre Signori. Racconta Gnecchi: «E’ posto in una zona ricca di storia, che ha visto numerosi operai impegnati nella estrazione del ferro, dalle miniere ricavate sui versanti del lago di Sasso e del Ferrer. (…) Costruito nel 1937 dalla Ferriera del Caleotto (Lecco), ospitava i trenta operai impegnati nella ricerca ed estrazione del ferro, sovvenzionata da un gruppo di Americani, (…) Nel 1943 la ferriera decise di costruire accanto alla vecchia capanna un edificio che ospitasse gli operai nei fine settimana e nei periodi di ferie».
E il rifugio Azzoni sul Resegone? Scrive Gnecchi; «Inizialmente esisteva una piccola baita costruita da un certo Vitari di Brumano, che serviva come ricovero ai caprai e ai cacciatori. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, il baitello fu acquistato dall’ingegner Enrico Daina, proveniente dalla Valtorta, che decise (…) di renderlo accogliente e utilizzabile da parte degli escursionisti. Nel 1923, morto l’ingegnere, la Sel acquistò il manufatto dagli eredi Daina. (….) La vecchia costruzione fu distrutta nella seconda guerra mondiale nel corso di un rastrellamento dei tedeschi (…) in quanto negli anni 1943-45 fu sede di un comando dei volontari della libertà». Ricostruito, il rifugio negli anni Cinquanta venne intitolato a Luigi Azzoni «consigliere ma soprattutto oculatissimo e validissimo cassiere della Sel per oltre trent’anni».


Il Rifugio Azzoni sul Resegone

C’è poi la storia della cooperativa Camposecco che è davvero testimonianza di un mondo scomparso: «venne fondata nel 1952 da alcuni amici di Chiuso e Maggianico (Andrea Mauri, Silvio Rho, Mario Sesana, Luigi Milani, Agostino Pattarini) allo scopo di trovarsi in un luogo lontano dalla città dove trascorrere il tempo libero. (…) Nel 1953 i soci decidono di acquistare 6.000 metri di terreno su cui costruire due locali. (…) Viene da subito molto frequentata da soci, amici e parenti»…
E lo sguardo va anche a quel che non c’è più.  Come il rifugio Mario Tedeschi al Pialleral realizzato nel 1906 e distrutto da una valanga nel 1986 e pertanto già scomparso all’epoca di uscita del libro. Era invece ancora attivo l’Alveare Alpino dei Piani Resinelli, il rifugio realizzato nel 1920 dall’Associazione proletaria escursionisti e nel 1980 diventato un centro congressi sindacali. Ma ormai, la struttura è abbandonata, presa di mira dai vandali, destinata a un malinconico disfacimento.


Il Rifugio Carlo Porta negli anni Cinquanta

E avanti. Percorrendo anche una galleria di personaggi, alcuni noti a tutti coloro che hanno frequentato le nostre montagne nel secolo scorso, altri un po’ di più e altri un po’ meno: Nino Castelli, asso dello sci e del canottaggio morto di pleurite nel 1925 all’età di 28 anni e Arnaldo Sassi, pioniere dell’alpinismo d’inizio Novecento e per mezzo secolo presidente della Società escursionisti lecchesi: a loro è intitolato il rifugio del sodalizio ai Piani di Artvaggio; l’alpinista Vittorio Ratti ucciso in uno scontro a fuoco coi fascisti il 26 aprile 1945: a lui venne intitolato il rifugio dei Piani di Bobbio ricostruito nel 1946 dal Cai  Lecco che rilevò le rovine del vecchio “Savoia” degli escursionisti monzesi distrutto dai nazifascisti, rifugio che dal 2012 è dedicato anche a Riccardo Cassin;; Angelo Casari detto l’alpino del Polo perché fece parte del battaglione di penne nere che andò in appoggio all’imprese ai Umberto Nobile al Polo Nord nel 1928; Ugo Merlini che rimane ancora una figura mitica per gli alpini lecchesi. E tanti altri. Tra i quali il Giuseppe Molteni detto “Cuera” dal nome della trattoria di famiglia e che fu uno dei pionieri del turismo ai Piani Resinelli.
E tra i quali anche, infine, Carlo Porta al quale è intitolato il rifugio inaugurato nel 1911 ai Piani Resinelli dal solito Cai Milano. Intitolazione attorno alla quale si è anche fatta un po’ di confusione. Ornella Gnecchi scrive che il rifugio è «intitolato al celebre poeta milanese “primo salitore della Piramide Casati”». In realtà, il poeta era morto nel 1821, quando la febbre delle cime era di là da venire. A quanto ci risulta, tra l’altro, non doveva neppure essere un gran montanaro se quella volta che, ospite degli Agudio di Malgrate, venne trascinato forse un po’ recalcitrante in un’escursione sul Monte Barro e ne discese ripromettendosi di non riprovarci mai più. Il Carlo Porta della Casati è quello che in molti testi viene definito il “nipote” e che in effetti – come ci informa Carlo Caccia (“Il gruppo delle Grigne”, Bellavite editore, 2003) – salì la Piramide assieme a Emilio Buzzi nel 1903. Secondo Giancarlo Mauri, il rifugio sarebbe intitolato proprio a lui e non al poeta che forse gli sarebbe stato zio, anche se non ci siamo con le date. La guida di Cai e Touring club del 1986 se la cava con un generico «parente». Nipote o semplice parente, fatto sta che, medico di professione, «era proprietario – scrive Gnecchi – di tutto il terreno su cui sorge il rifugio e del bosco che gli sta attorno». Terreno che donò al Cai o forse vendette, come dice Mauri, «a prezzo di assoluto favore». Probabilmente si trattava di un «prezzo simbolico» chiosa Gio Lodovico Baglioni (“50 baite e rifugi del lago di Como”, Dominioni Editore, 2015). Compreso in quel prezzo, anche il «Bosco Giulia – registrano i documenti ufficiali – ceduto in dono alla nostra Sezione che, in omaggio al donatore, lo ha intitolato al nome della venerata e diletta Mamma sua».


Lo scomparso Rifugio Tedeschi

Però, se fu il Carlo Porta medico a consentire che il rifugio sorgesse, è al Carlo Porta poeta che è intitolato. Ce lo conferma Alberto Benini, storico e curatore della mostra sulla villeggiatura in Grigna allestita proprio in questi giorni ai Piani Resinelli. Leggiamo infatti in uno dei pannelli: «Il Rifugio albergo Carlo Porta [è] dedicato al poeta milanese Carlo Porta, parente dell’omonimo medico. (…) Elegante costruzione (…) venne arricchita alla sua apertura di cimeli portiani: statuette di bronzo raffiguranti i personaggi dei più celebri poemetti usciti dalla fantasia del poeta meneghino, l’autografo di un sonetto e un ritratto del poeta, opera del “bravissem pittor e letterato Giusepp Boss”», il quale tra l’altro era artista di prim’ordine.



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Dario Cercek
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