SCAFFALE LECCHESE/96: la Resistenza nei volumi di Silvio Puccio e Aroldo Benini


un momento della Liberazione a Lecco

«Alle 12.30 del 26 aprile [arriva] l'ordine di insurrezione, Appena un'ora più tardi i comandanti dei reparti territoriali iniziano l'occupazione dei punti strategici della città. (...) Le formazioni partigiane hanno ricevuto l'ordine di scendere immediatamente verso la città. Alle 14,30 un ufficiale del comando della piazza va alla caserma della GNR: il presidio si arrende, i repubblichini vengono disarmati e consegnati in caserma (...)». Sembra ci si avvii a un finale incruento. Ma a sera, «sulla provinciale Bergamo-Lecco una colonna autotrasportata nazifascista si avvicina alla città. (...) Può buttare all'aria tutto quello che è stato fatto. E' un momento, ma il timore, la paura giocano adesso per tanti un ruolo determinante. In via Mascari, al CLN si distribuiscono armi e bracciali tricolori a tutti quelli che intendono partecipare a una lotta imminente. (...) Un gruppo di appartenenti alle brigate nere "Perugia" e "Leonessa" (...) allinea gli automezzi all'altezza di via Como, si mette dietro alcuni edifici, è deciso a difendersi. (...) I primi reparti della "Rosselli" arrivano a Lecco poco prima di mezzanotte. (...). Alle tre del mattino le trattative coi tedeschi sono concluse. E' un patto di non aggressione. I tedeschi si sono impegnati a star ben chiusi (...) e ad aspettare l'arrivo degli alleati. Succede quello che si pensava. La reazione più forte viene dai fascisti (...) Così il mattino del 27 sono solo i fascisti che impegnano i partigiani. (...) Il comando-piazza intima per telefono la resa alle brigate nere. Ma il comandante fascista è di quelli che non si arrendono e verso le 9 la battaglia riprende con estrema violenza. (...) Alle 14 a Pescarenico, dietro ai partigiani che combattono c'è molta gente. (...) La bandiera bianca sventola da una finestra: Giovanni Giudici, Silvano Rigamonti, Antonio Polvara, Ettore Riva vanno allo scoperto verso l'edificio. Una raffica sola parte da una delle tante finestre: i quattro partigiani cadono, due sono morti, due sono feriti. Allora il combattimento riprende. E' più violento, i partigiani si battono quasi allo scoperto perché adesso una sorda rabbia li anima. Li protegge il bazooka di Cassin. Quando due ufficiali fascisti escono dalla casa per trattare la resa, si alza la bandiera bianca, è una resa definitiva».

In questo modo, due giorni dopo la liberazione di Milano, anche a Lecco finivano il fascismo, l'occupazione nazista e la guerra.


Il racconto di quelle ore è di Silvio Puccio nel libro "Una Resistenza" pubblicato nel 1965 (Editrice Nuova Europa di Milano) e che, nonostante l'ormai più di mezzo secolo trascorso, ancora rimane un punto di riferimento per conoscere la lotta di liberazione nel Lecchese. Il libro di Puccio fu il primo tentativo di offrire un quadro complessivo della Resistenza nel nostro territorio, allora non ancora provincia ma legato a Como dove la storiografia resistenziale è decisamente più corposa non foss'altro che per l'epilogo mussoliniano di Dongo.

Puccio (morto ottantenne nel gennaio dello scorso anno) è stato un docente liceale, ma quando mise mano al libro era uno studente universitario appena ventenne. In occasione del 25 aprile 1960 «nell'intento di celebrare il quindicesimo anniversario della Liberazione - viene spiegato in quarta di copertina - la Cooperativa "La Moderna" di Lecco che era stata una delle roccaforti antifasciste lecchesi, conquistata palmo a palmo nel corso del ventennio mussoliniano, bandiva un concorso per una monografia sul contributo di Lecco e del suo territorio alla lotta di liberazione». La commissione giudicatrice era costituita da Wando Aldovrandi, Giulio Alonzi, Nino Fogliaresi, Ulisse Guzzi, Gabriele Invernizzi, Piero Losi, Attilio Magni, Umberto Morandi, Lino Poletti, tutte figure di primo piano della Resistenza lecchese riunite sotto la presidenza di Antonio Greppi, il primo sindaco della Milano democratica e all'epoca parlamentare socialista. Fra i tre lavori partecipanti al concorso e la scelta cadde sull'opera di Silvio Puccio quale «primo esempio di narrazione storica non autobiografica fatta da un non partecipante alla Resistenza».


Pubblicato poi in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione, "Una Resistenza" sarebbe stato ristampato nel 1995, in occasione del cinquantesimo per iniziativa della rivista "Archivi di Lecco" diretta da Aroldo Benini che in quello stesso anniversario dava egli pure alle stampe, per i tipi di Periplo Edizioni, "Nerina non balla. Resistenza e guerra di Liberazione tra Lecco, Brianza e Valsassina", libro che alla ricostruzione storica aggiunge anche una serie di riflessioni e di interrogativi. A cominciare dal dibattito attorno alla questione del revisionismo, proprio prendendo le mosse da una certa eco avuta dal lavoro di Puccio a suo tempo «accolto con molte riserve non soltanto da parte di coloro che avevano ragione di ritenere che quella pagina di storia dovesse essere dimenticata, il che è comprensibile, ma anche da parte di quanti videro in quella narrazione un tentativo di revisione della consueta letteratura resistenziale e post-resistenziale. (...) Al di là di valutazioni di carattere generale, che in quel libro mancavano, si cercava di capire che a muovere la Resistenza, a farla, ad agire, erano uomini e donne, persone comuni: vi risuonavano nomi, fatti, eventi, circostanze oscure e già spiegate, in un tentativo per la prima volta non celebrativo e agiografico, ma critico, sereno».

L'8 settembre 1943, anche a Lecco «c'è grande confusione - scrive Puccio -, circolano notizie vere e false, quasi tutte esagerate: sulla guerra, sull'esercito, su quel che faranno i tedeschi e gli americani. Ma quel che faranno i tedeschi non è difficile prevederlo. Brescia e Bergamo sono già sotto il loro controllo e Milano sta per essere occupata. Infatti, il saccheggio della caserma "Sirtori", il vecchio distretto militare di Lecco, avviene pochi giorni dopo l'armistizio, cioè l'11, proprio perché tutti pensano che stanno per arrivare i tedeschi». Molti salgono in montagna e aspettano, «nessuno ancora pensa alla guerra per bande». Molti sono giovani che «decidono di ascoltare l'appello che Gaetano Invernizzi improvvisa accanto alla caserma, in via Nullo - racconta Benini -: andiamo in montagna; nessun uomo, nessun'arma al fascismo (...). Nascono così i primi gruppi, ancora e solo di sbandati, a Campo de' Boi, in Erna, ai Piani Resinelli».

In Brianza e in Valsassina succede lo stesso.

Ripercorrere tutti gli episodi dei venti mesi di lotta è naturalmente impossibile: un elenco venne stilato puntigliosamente dal comandante Lario, il colonnello Umberto Morandi che guidò militarmente i gruppi partigiani lecchesi.


Elenco diventato un libretto, pubblicato dal Comune di Lecco nel 1981: il primo episodio registrato è dell'11 settembre 1943 a Castelmarte ed Arcellasco - nell'Erbese, dunque - «per recupero cinque camions, onde evitare cadessero in mano nazista» e l'ultimo è del 20 aprile 1945 con il «rastrellamento repubblichino in Valle Biandino, Val Varrone e Val Fraina» e durato due giorni. Non stupisca la data, visto che un rastrellamento fascista viene registrato ancora il 27 aprile in Val Bregaglia, nelle stesse ore dunque in cui a Lecco si combatteva l'ultima battaglia e a Dongo veniva arrestato Benito Mussolini che sarebbe stato fucilato l'indomani.

I ricordi lecchesi più vivi vanno dai primi nuclei di "sbandati" tra i Piani d'Erna, Campo de' Boi e i Piani Resinelli nei giorni di settembre e la battaglia d'Erna dell'ottobre con i tedeschi che incendiano cascinali e rifugi tra cui la Capanna Stoppani costringendo i partigiani disperdersi; le agitazioni nelle fabbriche che culminano con lo sciopero del 7 marzo 1944 e l'arresto di 35 operai , 26 dei quali deportati in Germania; la casa delle sorelle Villa al Garabuso di Acquate, crocevia della rete clandestina per l'espatrio di ebrei e prigionieri in fuga dai nazisti; gli assalti partigiani alle caserme di Ballabio e Colico, gli attentati e i sabotaggi con l'aiuto di armi lanciate dagli alleati e annunciate con messaggi in codice trasmessi per radio ("Nerina non balla" è uno di quelli); i continui rastrellamenti sui monti tra Valsassina e Valtellina, le baite date alle fiamme, le catene di arresti, le fucilazioni, le torture: la Pianca in Valsassina, Fiumelatte sul lago, Valaperta in Brianza sono solo alcuni di luoghi di sangue segnati sulla mappa lecchese.

Gruppo garibaldino di Pescarenico


Se Giulio Alonzi, nella prefazione del libro di Puccio, sottolinea che «Lecco fu, con Milano, tra le prime città d'Italia che, dopo l'8 settembre 1943, insorsero contro tedeschi e fascisti», Benini scrive: «La Resistenza in territorio lecchese non è stata forse paragonabile a quella del Cuneese, di Marzabotto, di altre terre eroiche: tuttavia è stata significativa ed importante, e non sarà un caso che, in particolare nell'estate e nell'autunno del 1944, siano state mobilitate forze così soverchianti per avere ragione di gruppi relativamente modesti, dal punto di vista numerico, di partigiani. (...) Basterà pensare del resto che a Lecco erano presenti non meno di un migliaio di soldati nazifascisti; circa seicento a Bellano, parecchie centinaia a Mandello. Tutti soldati sottratti al fronte, al combattimento contro gli anglo-americani».

Fino, appunto, alla Liberazione che si compie a poco a poco, con la carta delle zone liberate che si allarga secondo la ritirata nazista e la resa dei fascisti presidio per presidio.

A Lecco, l'ultimo atto è, il 28 aprile, la fucilazione allo stadio di sedici tra comandanti e cecchini delle brigate nere. Proprio per quella prima bandiera bianca di Pescarenico che aveva ingannato i partigiani. Quella sentenza di morte - riflette Benini - era «assolutamente conforme alle leggi di guerra. La bandiera bianca era risultata un inganno, giusto dunque che i capi fossero condannati, anche se da un tribunale di guerra costituito prevalentemente dai compagni dei caduti. (...) Il fascismo era stato certamente una colpa, una colpa grave: ma bello e generoso sarebbe stato condannarli a morte, com'era giusto, e poi mandarli liberi, riacquistandoli ai valori della libertà e della democrazia, Non sarebbe stata, questa, la prova documentata, pratica, reale, della superiorità - peraltro innegabile, e non certamente messa in discussione da quell'errore - dell'antifascismo, della Resistenza, sul fascismo?»


Non è infatti un caso che quando gli eredi della tradizione fascista sono tornati a governare, il primo atto politico lecchese fu la collocazione di una lapide allo stadio comunale in memoria dei fucilati. Con evidenti spirito e parole di rivalsa sull'antifascismo. Che secondo certa destra sarebbe oggi solo un ferrovecchio.

Ma già nel 1965, Puccio chiudeva il suo libro rilevando come «non possiamo accettare che del fascismo e della resistenza non si debba più parlare perché eroi e assassini ci sarebbero stati nell'una e nell'altra parte. Chi dice questo sa probabilmente da quale parte stava la verità».

Da parte sua, Benini concludeva il suo "Nerina" ponendo alcuni quesiti a proposito dell'acquiescenza di certo antifascismo nei confronti del trasformismo dell'ultima ora e di fronte a una serie di personaggi riciclati troppo in fretta; dell'importanza della Resistenza lecchese e del ruolo svoltovi dalle forze politiche; di partigiani misteriosamente "scomparsi"; del ruolo della Chiesa cattolica; della mancata epurazione con la perpetuazione la burocrazia fascista. Avendoci Benini lasciato nel 2007 all'età di 76 anni, questi interrogativi rappresentano un'eredità per chi vorrà scrivere una nuova storia della Resistenza lecchese.

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Dario Cercek
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