SCAFFALE LECCHESE/91: dallo sciopero delle filandiere alla nascita dei movimenti operai

Risale al 1872 quello che viene ricordato come il grande sciopero delle filandiere: «All’alba di lunedì 3 giugno – scrive Aroldo Benini - le campanelle delle filande hanno inutilmente chiamato le setaiole. Soltanto in alcune, ben poche si presentano e nel pomeriggio più nessuna». L’agitazione durò una settimana e per il Lecchese fu «un evento storico ed emblematico», come annota Antonio Gottifredi.
Le filandaie lecchesi chiedevano migliori condizioni di lavoro e un miglior trattamento economico. Si ricordi che nel 1872 – come registra ancora Benini - «nel circondario di Lecco esistevano 103 stabilimenti serici e 16 soltanto non serici. (…) Nelle filande, e in genere negli opifici serici, l’orario di lavoro era di 13/16 ore d’estate, qualche ora in meno nelle altre stagioni. (…) A questa condizione davvero tragica d’esistenza delle donne (su poco più di 18mila occupati nell’industria serica del Lecchese, oltre 15.500 risultavano donne) si inseriva una situazione ancora più grave, e particolarmente accentuata a Lecco e territorio: quella del lavoro minorile» con bambine anche di sotto di sei anni messe in fabbrica e che si ammalavano di scrofola, rachitismo, tubercolosi.
«La manodopera femminile, e segnatamente quella minorile, consentiva naturalmente paga più bassa, facilità nel reclutamento, maggiore docilità alla disciplina della fabbrica». E’ dunque «in queste condizioni che matura, in una città ormai abbastanza avanzata industrialmente e nella quale la classe operaia sta acquistando coscienza della propria forza, che matura il grande sciopero delle filandiere».
Già negli anni precedenti c’erano stati scioperi. Come altrove, anche nel Lecchese prendeva corpo e anima quello che sarebbe poi stato definito il movimento dei lavoratori. Sorgevano le prime società operaie, i circoli, le associazioni di mutuo soccorso.
Di quel periodo ci parla Aroldo Benini in “Organizzazione operaia e movimento socialista a Lecco (1861-1925)”, un volume pubblicato dalla Biblioteca civica lecchese nel 1980 e che include anche una riflessione di Gaetano Invernizzi. Da parte sua, Antonio Gottifredi concentra lo sguardo sul movimento cattolico (“Lavoratori cattolici a Lecco. Dalla fine dell’Ottocento all’avvento del Fascismo”, stampato a Roma per le Edizioni Lavoro nel 1981). E dello stesso periodo si occupa anche il primo dei tre volumi di “Per il lavoro e la libertà. Un secolo di storia sindacale a Lecco e nel territorio” pubblicato dalla Camera del lavoro lecchese nel 2001, in occasione del centenario di fondazione: raccoglie studi di Enrico Baroncelli, Anselmo Brambilla, Angelo De Battista e Alberto Magni. Oltre a riprendere un testo dello stesso Benini.

Le copertine dei tre libri

A metà del XIX secolo, quando la società si avvia ormai a diventare da agricola a industriale, non esistono naturalmente organizzazioni sindacali. Le mobilitazioni sono per lo più spontanee. Delle condizioni di lavoro si è detto: orari massacranti, ambienti malsani, pause di riposo brevissime o inesistenti, salari miserevoli, multe salate in caso di ritardi o manchevolezze, lavoro minorile e naturalmente previdenza o casse mutue tutte da inventare. Ed è proprio per l’aspetto previdenziale che nascono le società di mutuo soccorso; appunto per garantire gli operai in caso di malattia e durante la vecchiaia. A promuovere queste iniziative, spesso, sono gli industriali stessi. Come il “garibaldino” Lorenzo Balicco che lancia l’idea nel 1862.  E come lui, altri industriali nel territorio si adoperano per migliore le condizioni dei lavoratori, non sempre con linearità. Basti pensare al valmadrerese Lodovico Gavazzi  (ce ne siamo occupati qui) che costruì asili e avviò scuole ma in parlamento battagliava contro la legge volta a ridurre il lavoro minorile.
Così, in polemica con le società «di carattere filantropico e borghese – segnala Benini -, gli operai della seta nel 1867 decidono la costituzione di una particolare Società di Mutuo Soccorso dei Filatori in seta ed altri operai» quando «800 filatori del Lecchese erano scesi in piazza contro il rincaro della vita e danno avvio alla loro Società e avanzano le prime richieste di riduzione dell’orario di lavoro. (…) Le manifestazioni sono dirette da un “Comitato riparatore”, di sapere decisamente innovatore rispetto al consueto spirito filantropico di derivazione mazziniana».
Perché agli albori del movimento operaio vi è appunto la tradizione mazziniana. Sono infatti i Democratici e i Radicali che si fanno carico delle istanze popolari nelle istituzioni. I partiti di massa ancora non esistono, il voto è privilegio di pochi e i rappresentanti dei partiti politici sono pur sempre esponenti delle classi elevate: Democratici  e Radicali verranno soppiantati dai socialisti, abbandoneranno il movimento dei lavoratori, quando questo si rafforzerà presentando anche qualche slancio rivoluzionario, rimetteranno al primo posto gli interessi del proprio ceto e confluiranno, estinguendosi, nel fascismo.
La penetrazione dei socialisti tra i ceti popolari viene visto con allarme anche dai cattolici, i quali fino allora avevano avuto un controllo pressoché assoluto degli strati più umili della popolazione oltre ad avere certi conti in sospeso con lo Stato liberale
Scrive Benini: «Il 1885 vede altri scioperi nelle filande e dei trafilieri della vallata. (…) E’ in questo periodo che, accanto al vecchio Circolo Democratico, iniziano a vivere di vita autonoma nuovi circoli, in particolare quello socialista del 1882 e quello cattolico nel 1884 intitolato al Beato Pagano: saranno queste organizzazioni nuove a rendere politica la lotta che fino a questo momento, nell’alveo liberal-democratico risorgimentale, è stata strettamente e quasi esclusivamente di carattere sindacale».
Dall’impegno per il mutuo soccorso germogliano quindi le lotte per rivendicazioni non solo salariali ma di veri e proprio diritti fino allora negati.
Da quel momento la rappresentanza dei lavoratori seguirà strade differenti, salvo magari ritrovarsi unita nei drammi. Come dopo il massacro dei lavoratori da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris a Milano nel 1898 e la successiva repressione da parte dello Stato sabaudo contro gli oppositori. Repressione che porta anche alla chiusura anche dal settimanale cattolico “Il Resegone” del quale viene arrestato il gerente responsabile Giuseppe Erba e viene spiccato mandato di cattura anche contro il direttore responsabile don Battista Scatti che «fa in tempo a riparare nella vicina Svizzera dove, nel frattempo, si erano rifugiati anche alcuni repubblicani e socialisti, perseguitati dalle misure governative»
Racconta Benini: «Polizia e magistratura non vanno per il sottile, e l’autorità dà credito ad una presunta invasione di bande di socialisti dalla Svizzera in appoggio ai rivoltosi della “repubblica ambrosiana”».
Del resto, tre anni dopo, il sindaco lecchese Giuseppe Ongania sarà sospeso dal prefetto per avere esposto il tricolore sul terrazzo municipale per festeggiare il Primo maggio.

Dunque, se «anche i lavoratori cattolici – scrive Gottifredi – entrarono numerosi in queste casse mutue», quando «i tentativi di usarle anche a fini politici furono più palesi» le strade si dividono. E il mondo cattolico si attrezza di proprie strutture. Se i socialisti costituiscono nel 1901 la Camera del lavoro – nei primi anni diretta tra l’altro dal milanese Carlo Dell’Avalle che non era personaggio qualsiasi essendo nel 1892 tra i fondatori del Partito Socialista Italiano - i cattolici costituiscono l’Ufficio del lavoro che ha anche una sezione collocamento per aiutare gli operai nella ricerca di un posto. In ciò contando indiscutibilmente, per via di parroci vari e nonostante i “non expedit”, di un credito maggiore presso gli industriali rispetto ai socialisti.
Nasceranno poi, da una parte e dall’altra, le cooperative di consumo (nel 1911 la socialista “La Moderna” e nel 1919 la cattolica “La Popolare”), nasceranno le casse rurali, le scuole serali o festive, le cucine economiche.
Ma intanto, lo scontro è acceso. Sul giornale socialista “La Spinta” – leggiamo nel libro di Benini – i parroci sono definiti quasi tutti come “Don Palanca”, qualunque sia il loro impegno di sacerdoti e di costruttori di oratori e di gestori di esercizi pubblici clericali. Ma non si può dire che la polemica anticlericale sia sempre ingiusta e ingiustificata: si tratta a volte della difesa della scuola di Stato, nella quale secondo “Il Resegone” non si fa altro che rendere imbecilli i ragazzi».
Le vicende del primo ventennio del Novecento attraversano in maniera drammatica il movimento dei lavoratori: la guerra di Libia, la Prima guerra mondiale e poi il biennio rosso e l’occupazione delle fabbriche nel 1920.
«A Lecco l’occupazione inizia il 2 settembre – scrive Angelo De Battista – cioè tre giorni dopo Milano e praticamente in concomitanza con la proclamazione della “serrata generale” da parte degli industriali a livello nazionale. Alla Badoni, al Caleotto, alla Piloni, alla Fiocchi, alla Metalgraf, alla Baruffaldi, alla Ernesto Bonaiti, alla Rocco Bonaiti ed alla Gerosa le commissioni interne, in qualche caso trasformatesi in Comitati d’agitazione, organizzano la permanenza degli occupati. (…) Tutto si svolse senza incidenti. (…) Del resto, le ragioni degli operai erano ben conosciute alla popolazione e l’occupazione veniva ritenuta più una lotta per la dignità che non l’inizio di una rivoluzione sociale come paventavano gli industriali, i moderati ed i clericali e come, sull’altro fronte, speravano i sindacalisti rivoluzionari. Ma in generale la ragione di fondo restava quella del diritto a un salario giusto. (…) Nei primi giorni di occupazione nelle fabbriche si lavorava (…) ma poi, la fine delle scorte e l’assenza degli impiegati, dei tecnici, dei capireparto, dei disegnatori, che non aderirono all’occupazione, impedì di continuare».
E a proposito di scioperi, Gottifredi vuole cancellare la figura del cattolico “crumiro” alimentata «da certa storiografia un po’ superficiale». Scrive infatti: «In un movimento che aveva tra i suoi principi fondamentali quello della possibile collaborazione fra le classi sociali, lo sciopero non poteva essere visto che come un atto di rottura di questa collaborazione. Pertanto, almeno sul piano concettuale, il suo uso doveva essere limitato ai casi estremi in cui, dopo aver esperito ogni altro possibile tentativo di conciliazione, non rimanesse aperta che la via dalla astensione dal lavoro per far valere i propri diritti». Inoltre «è dimostrato in modo inequivocabile che, per molto tempo, il socialismo massimalista e rivoluzionario usò lo sciopero o quanto meno cercò di usarlo, non tanto in funzione rivendicativa quanto in funzione politica».

1936: a sinistra, l'Acciaieria Caleotto (foto Palamatti, Fototeca Simul); a destra Laminatoio Arlenico

Penserà il Fascismo a cancellare gli uni e gli altri ma anche ad accomunarli quando chi degli uni e degli altri sarà diventato un oppositore del regime. Così – ci ricorda ancora Benini -, il giornalista cattolico Uberto Pozzoli, nel 1929, avrà parole commosse per la morte dell’avvocato socialista Antonio Valzelli che «ha saputo convergere l’intelligenza fervida, la solida dottrina, la eccezionale agilità dialettica al trionfo del principio basilare della giustizia dell’“unicuique suum tribuere” (a ciascuno il suo, ndr), noi rendiamo doveroso quanto commosso omaggio, profondamente addolorati che la Sua vita non sia stata illuminata dalla nostra Fede, e che il rito della Chiesa non abbia avvolto nel suo manto di mestizia e di speranza la morte di Lui».
Chiosa Benini: «Erano gli anni della dittatura imperante, e ad Uberto Pozzoli, dell’antico avversario socialista, ora unito a lui dal comune rifiuto del fascismo. Era impedito dire di più. Ma quanti sapevano leggere tra le righe anche allora scorsero (…) ben più che un elogio funebre: una professione di fede, una commossa e sincera espressione di solidarietà e d’amicizia».
Al “biennio rosso” seguì il “ventennio nero”.
«Molti – ancora De Battista – continuarono nell’impegno sindacale durante i primi anni del fascismo, in alcuni casi diventarono militanti socialisti o comunisti e protagonisti della Resistenza per poi tornare, dopo la Liberazione, all’impegno sindacale. Ma, nel settembre 1920, il segno prevalente nelle fabbriche era quello della stanchezza operaia poiché la classe era indebolita dalla crisi, dalla disoccupazione, dal caro vita. (…) La deriva reazionaria dello Stato e del padronato era in atto: le forze dell’ordine venivano mandate a perquisire le case dei “rossi”, le sedi sindacali, i circoli operai ed alle perquisizioni spesso seguivano gli arresti. Gli industriali lecchesi erano ormai apertamente complici e finanziatori del fascismo. (…) All’indomani della marcia su Roma (28 ottobre 1922), i fascisti invasero la sede della Camera del lavoro (…) e installarono nei locali la loro sede».
Il sindacalismo cattolico riuscì a barcamenarsi qualche anno in più, ma «nel maggio 1926, il prefetto ordinò lo scioglimento della Unione del lavoro di Lecco, con la chiusura degli uffici e la confisca dei beni, dei documenti e del materiale trovato».


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Dario Cercek
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