SCAFFALE LECCHESE/89: il 'testamento' di don Abele Meles, primo parroco di Pescarenico

«Mi aspettavo di vedermi assalito, preso e gettato nel lago, mi ero fatto piccino piccino e rannicchiato in fondo la carrozza, desideroso solo di essere assorbito ed eclissato dai cuscini». Così fu, l’8 settembre 1898, l’ingresso ufficiale del parroco di Pescarenico. Ed è lui stesso a raccontare. Don Abele Meles aveva 36 anni, essendo nato nel 1862, e arrivava da Pasturo dove era stato coadiutore per 12 anni. E’ un bozzetto, quello che ci regala, destinato inevitabilmente a evocare la figura manzoniana di don Abbondio e certo non solo per la suggestione d’essere nel «più manzoniano dei luoghi del romanzo» come Angelo Sala definiva Pescarenico nel suo libro sul convento di cui abbiamo già parlato in questa rubrica a proposito della settecentesca “Cronichetta” cappuccina.



Di Pescarenico, don Abele fu il primo parroco, arrivandovi appunto nel 1898 «trovando tutto da fare e nulla di fatto» in un villaggio poverissimo e rissoso di poco più di 600 anime per restarvi fino alla morte avvenuta nel 1939 lasciando «una parrocchia assai migliore materialmente di quello ch’io ho ricevuto», una parrocchia ormai «tranquilla che si aggira intorno alle 4.000 anime, ricca d’industrie ed anche di un certo numero di famiglie doviziose».
Tre anni prima della morte, redasse una sorta di testamento spirituale, una breve sintesi del proprio operato, mettendogli titolo “La mia parrocchia” e spiegando: «A me preme solo far conoscere come Pescarenico sia stato eretto in parrocchia, quali avvenimenti accompagnarono e seguirono questo fatto». Nel 1967, nell’anno settantesimo della creazione della parrocchia, quello scritto diventò poi un opuscolo su iniziativa di don Giovanni Brandolese.



In quel 1898,  don Abele, “promosso” parroco, venne destinato a Chiaravalle Milanese «che gode di una certa importanza» ma non propriamente ambita dal “nostro”, il quale fu preso dall’ansia «perché mio zio, don Arsenio Meles, passato dalla coadiutoria di Acquate a parroco della pingue e ricca parrocchia di Masate, era morto dopo soli sei mesi di parrocchialità in conseguenza, si disse, della malaria». E così, «il ricordo del mio povero zio, la paura ch’io passando dall’aria ossigenata di Pasturo all’aria delle paludi di Chiaravalle Milanese, avrei incontrato la medesima triste fine» determinò la rinuncia «motivandola con quelle ragioni ch’io credevo le più giuste e valevoli a scagionare il mio rifiuto» seguito da «velate minacce di punizioni da parte dei Superiori».
Fu così che gli toccò prender possesso della cura di Pescarenico nelle vesti del «Cireneo che avesse a portare questa croce» perché la situazione nel villaggio di pescatori non era delle più attraenti.



E’ lo stesso Meles a spiegare la situazione con un po’ di sarcasmo consentitogli ormai dall’età avanzata e dal tempo trascorso.
«Nel 1897 – leggiamo -, per questioni sorte tra il Preposto di Lecco, monsignor Pietro Galli, e don Cesare Airaghi allora cappellano coadiutore nella chiesa sussidiaria del Cappuccini, la popolazione di Pescarenico, che amava molto il suo cappellano, per sostenerlo e difenderlo contro il suo superiore tanto fece e brigò che ottenne dall’autorità civile e da quella ecclesiastica i decreti necessari perché la frazione colla chiesa sussidiaria fosse retta in parrocchia» e la curia nominò quale delegato arcivescovile proprio don Airaghi.
Da un lato, «monsignor Galli, perduta la partita, si vendicò facendo assegnare i confini della nuova parrocchia verso Lecco a pochi metri dalla chiesa sussidiaria. Sapeva, il furbo, che una vasta area sita in Pescarenico era stata scelta per l’erezione del nuovo ospedale» e in pratica se l’accaparrò». I contrasti tra la prepositura e la parrocchia saranno una costante, così come in passato fu una costante la rivalità tra secolari e cappuccini.



Per don Cesare, invece, la “vittoria” si rivelò più di impiccio: «Di carattere molto gioviale, buon compagnone, d’ottimo cuore aveva passato a Pescarenico più di trent’anni senz’altri obblighi fuorché quello di celebrare tutti i giorni la Messa nella chiesa dei cappuccini ed assistere alle principali funzioni della prepositurale. Quasi completamente libero d’ogni altra cura, don Cesare si era, a poco a poco, lasciato dominare dalla sua forte passione alla caccia. Giudicò grande ventura per lui di avere in affitto l’uccellanda al Bione della celebre famiglia Manzoni trasferitasi a Brusuglio. (…) Nel trovarsi ora a dover disimpegnare tutti i doveri di parroco, don Cesare si sentì molto a disagio» quando gli si presentò un certo Padre Umile che si installò a Pescarenico come coadiutore. Sennonché, ne vennero screzi e divergenze: Padre Umile «dominando la soverchia bonomia di don Cesare si diede a spadroneggiare»: l’uno faceva una cosa, l’altro lo contrastava e i parrocchiani si divisero in partiti contrapposti «che finirono, in pubblico ed in privato, ad accanirsi ed a combattersi non solo con le parole, ma anche con i fatti». Furono, quelli dal 1897 fino a parte del 1899, «anni di tafferugli, sommosse e aspre lotte, durante le quali avvennero episodi tutt’altro che edificanti» come una processione che finì con torce e candele spaccate sulla testa. Così che monsignor Galli ebbe buon gioco nel far cacciare l’uno e l’altro dall’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari.



Si capisce, dunque, l’apprensione di don Abele al momento del suo ingresso «che si credeva tragico» e «riuscì invece tranquillo e in parte anche buffo», con un’omelia che deve essere stata surreale: «Il pensiero di dover parlare a persone che mi erano poco benevoli in simili circostanze, era stato un incubo che mi aveva per qualche mese turbato e assillato. E’ vero che io avevo fatto del mio meglio per prepararla [la predica] (…) Il fatto fu che salito il pulpito, per lo spavento che avevo in corpo, non seppi più raccapezzarmi (…) Ciò che abbia detto in quei quindici minuti non lo so. So soltanto che come predicatore ho fatto la più meschina delle figure», motivo per il quale «da quel punto i miei parrocchiani incominciarono a compatirmi e a volermi bene».



Come abbiamo visto, infatti, don Abele restò a Pescarenico tutta la vita con un bilancio più che soddisfacente. Raccolti un tempio malandato e una canonica pressoché inesistente e costretto a fare a meno dell’aiuto del prevosto indispettito (il quale anzi, in passato ,s’era distinto per avere “rubato” le vecchia pala d’altare del Cerano ai pescarenichesi che si «ammutinarono» e «tumultuando» andarono a riprenderselo a Lecco), il primo parroco si ingegnò a raggranellar quattrini non disdegnando di andare a bussare di persona alle famiglie meglio messe, per ampliare la chiesa (con qualche ripensamento per l’incongrua decorazione del soffitto), erigere il nuovo campanile, accantonando senza patemi il progetto di don Giuseppe Polvara la cui realizzazione sarebbe stata troppo onerosa. Don Polvara, originario proprio di Pescarenico, fu il fondatore della scuola d’arte cristiana Beato Angelico a Milano e «nel 1923 – ci informa Angelo Sala – sollevò «il suo rammarico per il destino del convento, che non aveva trovato nessuno disposto a riscattarlo». Cruccio, quello del convento, destinato a durare: ci vorranno ottanta e passa anni perché il vecchio convento francescano, soppresso dai napoleonici e finito in mani private, torni a essere parte della chiesa.


All’epoca di don Abele, lo stabile del convento era inizialmente nelle mani di «due zitellone» non propriamente trattabili considerato il putiferio scatenato  all’ipotesi dell’allungamento della chiesa sul sagrato. Zitellone che, però, si sarebbero volentieri disfate dell’intero complesso per tornarsene nella loro Milano. Del resto c’era di mezzo l’anatema appunto dell’epoca napoleonica: «Il convento incamerato dal governo, cacciati i cappuccini, venne messo all’asta. Conviene ricordare che la Chiesa colpiva di scomunica tutti i compratori. (…) E’ un fatto che ricordano tutti i vecchi del tramonto del secolo che quelli che avevano comperato alle aste pubbliche i beni ecclesiastici, ebbero tutti una triste fine. (…) Ciò sembra sia precisamente quanto è anche successo a un avvocato di Milano, che all’asta comprò per infimo prezzo il convento dei cappuccini. (…) Questo povero avvocato, nullostante fosse di grido, era finito oberato di debiti ad essere spogliato di tutti quanti i suoi averi». Convento compreso che finì alle “zitellone” le quali a loro volta «ebbero un sacco di guai» e «mi pregarono perciò di comprarlo» per 50mila lire che naturalmente il curato non sapeva dove andare a prendere. Così le due sorelle se lo tennero per altri vent’anni prima di venderlo a un industriale.
E’ di quell’epoca, la visita dello scrittore Carlo Linati a don Abele, «severa figura di prelato lombardo» come ne scrive nel libro “Sulle orme di Renzo. Pagine di fedeltà lombarda” stampato a Firenze nel 1919 e ripubblicato un secolo dopo (nel 2020) dall’Archivio Cattaneo di Cernobbio. Linati era venuto a Pescarenico «essendomi stato riferito che l’umile convento (…, il centro religioso della concezione manzoniana, minacciava di venir acquistato dal proprietario di una fabbrica di tele metalliche per impiantarvi la sua industria» Si tratta probabilmente dell’imprenditore di cui ha scritto Arnaldo Ruggiero nel suo “Piccolo mondo antico lecchese”: «tale Piloni  (io lo ricordo bene perché era guercio da un occhio) che senza tanti complimenti, al piano terreno impiantò molte macchine per la fabbricazione di "stacchette" e di reti metalliche».



Don Abele – ci racconta ancora Linati – condusse il visitatore nella sacrestia: «Lì trasse da uno stanzibolo un quadro coperto di vetro dov’era compilato su pergamena polverosa un “Elenco di tutti Morti sepolti nella Chiesa”. E’ una doppia e lunga fila di nomi, tra i quali un “Fra Cristoforo da Barsio”, morto nel 1759. “Ma dunque – fo io, - Padre Cristoforo esisteva, fu una figura reale. “Non solo reale, ma anche di Barsio, signor mio, del paese di origine del Manzoni stesso….”». Ancora oggi agli ospiti le guide mostrano copia di quella pergamena.



Infine, c’è la curiosa storia dell’asilo infantile che «si deve a uno – annota don Meles - che si è fatto ricco nel servire di cera gran parte delle chiese dei dintorni» che è poi quell’Antonio Corti del quale ancora oggi la scuola materna porta il nome, all’epoca titolare appunto di una importante cereria. Gli è che il Corti pare non fosse proprio un praticante visto che morì «lasciando un legato per l’erezione d’un crematoio pubblico nel cimitero di Lecco, disponendo nel suo testamento funerali unicamente civili e la cremazione della sua salma. Questo bel tipo lasciò anche un appezzamento di terreno di sua proprietà, con una piccola somma di denaro perché Pescarenico venisse dotato di un asilo infantile laico. Fu questo uno dei più gravi dispiaceri che io, nei primi anni che ero a Pescarenico, ho avuto. Mi ero recato a visitarlo negli ultimi giorni della sua vita, ma al suo letto ebbi la sorpresa di sentirmi dire da lui: “l’ho ricevuto volentieri come amico, ma non come sacerdote”. I sacerdoti gli erano amici unicamente perché gli portavano denaro». L’idea di un asilo, però, «fu su subito ben accolta»: costruita la sede, venne affidata «la custodia dei bambini ad una vedova che fungeva da direttrice ed a una maestra patentata giardiniera» le quali «contro intenzione del povero defunto (…) disimpegnarono lodevolmente le loro mansioni con l’insegnare ai bambini e alle bimbe le orazioni e i primi elementi del catechismo». Col tempo poi ci si accorse che «il personale laico gravava soverchiamente sul bilancio dell’asilo» e così nel 1927 arrivarono le suore. E tanti saluti all’Antonio Corti: così andavano (vanno?) certe faccende.



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Dario Cercek
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