SCAFFALE LECCHESE/87: omaggio a Nonna Gina e alla sua produzione, tra racconti, canti, leggende e memorie rese immortali

La scomparsa, nei giorni scorsi, di Virginia Favaro Lanzetti ci induce a riscoprire la figura di "Nonna Gina", così come la conoscevano i lecchesi dallo pseudonimo che lei stessa scelse per quel suo ruolo di testimone della tradizione popolare cittadina. Scrivendo, raccontando e soprattutto ricordando.
Virginia Favaro non era una studiosa, intesa come intellettuale con alle spalle frequentazioni scolastiche o universitarie. Era una donna semplice: licenza elementare e poi subito a bottega. Com'era un tempo destino per chi non fosse benestante. Una vita quotidiana comune a molti: il matrimonio nel 1949 con Vittorio Lanzetti, i tre figli, i nipoti.
Tuttavia ha prodotto materiale di importanza non irrilevante per la cultura popolare del nostro territorio. Molto di quel materiale è poi confluito nei due libri più noti: "Nonna Gina racconta. Caratteri, figure, ambienti, consuetudini della vecchia Lecco" del 1995 e "Nonna Gina racconta ancora" uscito un decennio dopo, nel 2007. Libri ai quali si aggiungono, nel 2010, un meno riuscito "Nonna Gina racconta... di tutto un po'" e, nel 2014, la raccolta di leggende tra Lario e Brianza: la candela degli annegati, la Madonna del Pilastro, i morti della Fiandra, la strega di Tartavalle, la leggenda di Fiumelatte, l'eremita della grotta di Laorca, il dirupo di Bellagio sono alcune della trentina di leggende catalogate e raccontate. Con l'appendice della vera storia dell'assegno del morto, vicenda di un signor Pino avaraccio e del destino di un assegno non dovuto: si tratta di un episodio personale che l'autrice volle raccontare ravvisandovi un che di sovrannaturale nonché motivi di riflessione.

Tra tutte queste opere, c'è anche un preziosissimo "Nonna Gina canta. Le canzoni popolari del suo tempo", scritto con il musicista e maestro di coro Francesco Sacchi. Pubblicato nel 1997, è una ponderosa raccolta di canti popolari, alcuni di larga diffusione territoriale e altri squisitamente lecchesi (per esempio "Soeu la cülmen del Muntebar" o "In cima al Resegun"): complessivamente oltre 150 brani dei quali si riporta il testo e per alcuni anche la notazione musicale. «Le canzoni - spiegava Favaro - sono le stesse che ho cantato fin da bambina; alcune le ho imparate stando vicina alle lavandaie che prone su "l'ass e la bredela", in una sosta del faticoso lavoro, intonavano una canzone. A volte, a loro si univa un pescatore o uno scaricatore a rafforzare il coro. (...) Ora soltanto i cori di montagna o gruppi folcloristici conservano e cantano queste vecchie canzoni e sono i continuatori degli antichi cantori che diedero inizio al canto popolare che tuttora ci parla di un'epoca passata a volte arcaica, come dai loro testi traspare. Quante storie sarebbero andate irrimediabilmente perdute se il canto popolare non le avesse fatte giungere fino a noi».
Tutti i volumi citati sono stati pubblicati dall'editore Cattaneo.
Un impegno, quello di "Nonna Gina" cominciato già alla soglia dei cinquant'anni di età. Tutto sembra essere iniziato un giorno del 1975. Così racconta Germano Campione, il giornalista lecchese che proprio quell'anno aveva fondato Radio Lecco che fu la prima radio privata della nostra città, una delle primissime in Italia, e dalla quale in seguito germogliò anche la prima televisione locale.
«Un'ascoltatrice di Radio Lecco - ricorda Campione nella prefazione a "Nonna Gina racconta ancora" - mi segnala una signora, esperta di tradizioni popolari e autrice di poesie in dialetto che tiene nel cassetto. Fissiamo un incontro nella sua abitazione in via Belvedere, una delle poche case di ringhiera rimaste a Lecco. Da pochi giorni ha traslocato dalla casa di via Mascari dove è nata, dove abitava la nonna e dove è andata a vivere con marito dopo essersi sposata nel 1949. (...) Da quell'incontro nasce poi l'idea di realizzare una rubrica settimanale per la radio: «Il titolo "I sturiell di Nonna Gina" viene scelto dalla stessa signora Virginia che sta per diventare nonna per la prima volta». Poi la televisione: «Comincia la carriera "professionale" di Nonna Gina, invitata da diverse radio locali ed anche emittenti tv lombarde». Partecipa al Gazzettino Padano con Nanni Svampa «che canta accompagnadosi con la chitarra» mentre lei «esegue alcuni canti di lavandaie senza strumenti, come cantavano le donne di filanda e le stesse lavandaie al lago». Nel frattempo, le collaborazioni con il settimanale "Il Resegone" e con "Archivi di Lecco", ma «c'è anche la passione per il Manzoni e Nonna Gina, dopo avere frequentato un corso, diventa guida turistico-manzoniana e per circa vent'anni accompagna centinaia di comitive in giro per la città». Poi l'impegno nei cori e la collaborazione con Gianfranco Scotti, Angelo Biella e Giuliana Mondini per il Vocabolario lecchese.
Un "domestico memoriale" è la definizione data proprio da Gianfranco Scotti per i libri di Nonna Gina: «Semplici e senza pretese - così lei stessa presentava i suoi scritti nel 1995 - sono queste descrizioni di luoghi che mi hanno visto bambina e che, purtroppo (...) sono cambiati e non sempre in meglio» scritti col pensiero «di fare cosa gradita ai giovani che non possono ricordare, agli anziani che ritroveranno, per un momento, qualche sprazzo della loro giovinezza».

Le più accattivanti sono infatti proprio le parti più personali, quelle in cui lo sguardo su Lecco è filtrato dall'esperienza soggettiva. Per quanto, Nonna Gina abbia anche consultato e ripreso quanto contenuto in altre pubblicazioni precedenti (le leggende, per esempio, o certi episodi della storia cittadina), è laddove la penna viene guidata dal sentimento che il lettore si lascia trasportare «nella realtà quotidiana di quel tempo - per usare ancora le parole di Scotti - nel costume così profondamente cambiato, nelle vie e nelle piazze di una Lecco scomparsa che ancora risuonava del grido dello "strascee", dei canti delle "figlie di Maria", degli accenti di un dialetto allora lingua corrente ed amata, del fischio delle locomotive, delle voci dei bambini che giocavano senza pericoli nei vicoli del vecchio borgo».

Rileggiamo, per esempio, le pagine sul mercato di Lecco contenuto nel primo dei volumi e ci pare di sentire e vedere figure e personaggi che Nonna Gina ha davvero incontrato mantenendo inalterate negli anni meraviglie infantili: i « "mercant di brazz" così chiamati perché vendevano stoffa e tela misurandola con le braccia» o l'arrotino che scendeva da Premana, il «limonaio, con voce baritonale, offriva cinque limoni per una lira» e «il venditore di penne che cambiava pompette e pennini». E c'erano ancora il "fra cercott", il frate che si aggirava fra le bancarelle per la cerca, e il grande invalido della prima guerra mondiale che, all'angolo di via Roma, chiedeva l'elemosina. Mentre Al lato del "Punt Picul" stava l'ombrellaio «che ne vendeva per tutti i gusti: in "setagloria" con il manico di corno per gli elegantoni» e «chi voleva un ombrello senza pretese, lo sceglieva tra quelli di cotone nero con il manico di celluloide» mentre «il grande ombrello, dal grosso manico di legno, in cotone verde e blu, bordato da vivaci colori, veniva ormai acquistato solo dai valligiani, che lo usavano negli alpeggi, o dai contadini brianzoli»; tra una vendita e l'altra, si metteva mano a quelli vecchi che la gente portava a riparare perché non erano certo usa e getta come oggi.
I polli si compravano vivi e chi non si sentiva di ammazzarlo «lo portava in un magazzino di vicolo Granai dove "el mazzagaén" gli tirava il collo, lo sgozzava e lo ripuliva delle interiora» e «la gente del vicinato ne comperava per pochi soldi il sangue, per fare il sanguinaccio, e le rigaglie per cuocere l'appettitoso "busechin"».
E se era inverno, quei polli finivano appesi alle finestre: «A quei tempi il frigorifero non lo aveva nessuno e pochi avevano la ghiacciaia, "el giazzireu" che d'estate il Geremia teneva rifornito ogni mattina di ghiaccio» e d'inverno, appunto, «per tenere la roba in fresco, ci si serviva di davanzali e balconi: così, cinque o sei giorni prima di Natale si vedevano appesi per le zampe, ai ganci delle griglie, polli e tacchini spennati, messi lì a "frollare"».
Già, il Natale «che per noi bambini significava proprio l'attesa della nascita di Gesù» che cominciava con l'arrivo di San Nicolò con la grossa mela lasciata sotto il cuscino. E poi la novena dell'Immacolata, i canti mariani, i presepi per preparare i quali si andava in montagna a cercare muschio e pungitopo... E il giorno di Natale «una bella usanza era quella di portarsi a casa un orfanello o un vecchietto solo, per dividere con lui la nostra festa. Noi invitavamo la Guglielma, una vecchietta amica di famiglia che si era dovuta ritirare al ricovero Airoldi-Muzzi. Arrivava da noi per il pranzo con il suo cappotto marrone che allora era la divisa dei ricoverati».
Immagini d'altri tempi. Come le casine in legno per le previsioni del tempo che stavano sui balconi delle famiglie benestanti: «Se il tempo era bello, si apriva la porticina di destra e ne usciva un omino col bastone da passeggio in mano, se invece si metteva al brutto, dall'altra parte si affacciava una vecchietta con l'ombrello aperto». Che, poi, anche la balbuzie prevedeva il tempo: «Si diceva che quando un balbuziente tartagliava più del solito segnava pioggia»: infatti sul lungolago il riferimento era un facchino di nome Carlin: «Quando, invece delle solite bestemmie e pasrolacce, usava parole pulite balbettando a più non posso, i suoi compagni dicevano ridendo: "el Carlin el parlà nett, gh'è scià l'aqua". E pioveva davvero».
Nonna Gina miscela ricordi personali a informazioni storiche, momenti lieti ad altri più drammatici come il bombardamento sulla città del 9 gennaio 1943, ci racconta le vecchie strade e le vecchie case, del ciliegio dell'amica Marinetta e delle chiavi lasciate sotto al "portareau". E conservando memoria di certi personaggi sui quali ormai era già calato l'oblio. Come «il barcaiolo Nasatti che si meritò ben cinque medaglie d'oro al valore per salvataggi da lui effettuati nel nostro lago. Quando metteva l'abito della festa se le appuntava tutte sula giacca, peccato che di tre aveva solo il nastrino: le medaglie le aveva vendute per racimolare qualche soldo in momenti di difficoltà finanziaria».
Le parole sono inoltre accompagnate da vecchie fotografie. Alcune note e molto viste, altre emerse dall'archivio personale dell'autrice pertanto autentiche rarità. E, come tutte le vecchie immagini, alimentano qualche malinconia anche nel lettore meno incline a rimpiangere il tempo che fu.


PER RILEGGERE LE PRECEDENTI PUNTATE DELLA RUBRICA, CLICCA QUI
Dario Cercek
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.