Due anni da quanto il monatto ha suonato la campanella. Ma la storia non si archivia così. Sanità, politica economia, qualcuno è responsabile


Sono passati ormai due anni da quando la campanella del monatto ha infestato le strade di ogni paese, piazza, stanza e il suono delle sirene, non delle cicale, ha infranto il tranquillo organo di Corti della coclea fissandosi nella memoria. Sono passati due anni e le voci che si rincorrono sono ancora le stesse: chiudere, aprire, mettere, smettere, vaccinarsi, non vaccinarsi, meglio, peggio, primi, ultimi, tanti, pochi, emergenza, normalità, è una litania continua, è la monotonia del non senso del rumore di fondo del media assordante e imbarazzante.
Eppure una cosa è certa, i morti sono tanti anche oggi. Centocinquantamila, centosettantacinque mila, duecentomila, un milione, cinque milioni. Lascio agli epidemiologi, agli statisti il compito di stilare tabelle e fare proiezioni.
In tante case, in questi due anni, si è partecipato ad ampliare involontariamente, con nuove testimonianze, l’antologia  di Spoon River: “ Se avessi potuto vivere ancora un altr’anno/ avrei finito la mia macchina volante/ e sarei diventato ricco e famoso./ Per questo ho fatto bene l’operaio/ che ha tentato di scolpire per me una colomba,/ e farla simile piuttosto a un pollastro./ Perché, cos’è tutta la vita, se non un aprirsi al guscio/ e poi scorrazzare  nel cortile/ fino al giorno del ceppo?/ Salvo che l’uomo ha il senno di un angelo/ e vede l’accetta fin da principio. (Franklin Jones)”.
Camminando civilmente lungo i vari selciati dei cimiteri, si incontrano storie di vita da poco interrotte; non è importante l’età, la fragilità, la patologia, la condizione o sapere che c’è un tempo per vivere e per morire (banale e ipocrita considerazione del vivente), quello che colpisce è la data e un brivido sottile, ma profondo, attraversa il sensoriale, il sentire e ti assale il senso della vaghezza, del fantasma che sta accanto. E non c’è voglia ti sentire lo sproloquio vacuo e svilente delle parole dei politici, dei sapienti.
Lo sguardo cade sulla tomba, sulla data: ti spaventi. Se lo conosci, e sai che è colpa di quello strano segmento biologico mutevole e mutante che si è impadronito di quel corpo, ti assale un sentimento di rabbia. Sì, era fragile, si era vecchio, si era… e verrebbe voglia di gridare, a chi cerca di far quadrare il cerchio per motivi di propaganda, dal profondo delle viscere“ Guai a voi anime prave”, ma poi il riflesso dello specchio  mi rispecchia e allora mi taccio.  E mi risuona nella testa la  vecchia Parabola di Luca:  “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello…”
Però posso dire che negare l’evidenza, fingere che tutto va bene, che tutto rientrerà in una normalità e che questa vicenda passerà alla storia,  non mi sta bene. Ci sono delle responsabilità che riguardano il sistema sanitario, politico, economico: tutto ciò non  può essere negato. Non basta togliere la mascherina per cantare le lodi della primavera di Botticelli. Quanti sono i morti per epidemia per l’esodo in atto tra le frontiere del Mediterraneo, dei confini dell’Europa dell’est e non solo?
Quando si cammina nel viale della memoria e incontri quello che ti sta accanto, ti assalgono questi pensieri; puoi recitarti a memoria i postulati del padre della psicoanalisi, Sigmud Freud, tanto studiato, che parla della pulsione di Eros (vita) e di Thanatos (morte), ma non basta per asciugare le lacrime di quei figli, di quelle madri, padri, amici che sono stati trafitti da un colpo di vento improvviso.
L’impulso di Eros sollecita a guardare il futuro con uno sguardo disincantato per non ricadere  nell’inganno improvviso. Ci sono delle responsabilità differenti. La responsabilità maggiore riguarda chi governa, chi produce, chi informa. Non è vero che siamo tutti uguali. I disagiati, i poveri  hanno  pagato e continuano a pagare più di tutti il costo  di questa pandemia.
Dr. Enrico Magni, Psicologo
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