Al signor Giuseppe, con un grazie
Ho letto il breve scritto del sig. Giuseppe del cui contenuto lo ringrazio perché mi consente di aggiungere qualche considerazione alla sue (che pur condivido) rispetto al saper coniugare contenuti sostanziali e brevità argomentativa, su cui anch'io a volte mi interrogo.
Non volendo però fare un trattato mi limito, semplificando molto, ad alcuni aspetti di quello che ritengo, certo opinabilmente, un buon livello di comunicazione.
Diffido della moda corrente, predominante oggi, che misura l'efficacia comunicativa di uno scritto soprattutto sulla sua brevità (o presunta concisione) spesso però purtroppo equivalente a superficialità e banalizzazione tipica degli slogans pubblicitari o del lessico di certi politici che, agendo sull'immaginario collettivo, sollecitano la “pancia” dei destinatari (target li definirebbero gli esperti) del “messaggio”.
La trovo una traduzione a livello comunicativo dell'efficientismo produttivo tipico di una società basata quasi esclusivamente su “vendita e remunerabilità” del proprio “prodotto”, in questo caso culturale o politico.
Con questo non voglio certo fare, al contrario, l'elogio della trattazione enciclopedica “a prescindere”, proprio anche in ragione degli effetti che ben descrive il sig. Giuseppe.
Direi quindi, parlo in termini generali, che ci debba essere una giusta tensione alla sintesi ma mai rinunciando ad un sufficiente livello argomentativo (e all'occorrenza documentale) che consenta a chi legge, oltre che di comprendere le motivazioni di chi si confronta, di non ridurre il tutto ad una pura adesione all'eventuale credibilità della “parola” dell'uno o dell'altro.
Credo in altri termini che, da parte di chi scrive, ci debba certamente essere uno sforzo di semplificazione, persino nell'uso dei termini, ma contemporaneamente e liberamente un analogo sforzo di chi, se interessato, legge (come cerco del resto di fare anch'io come lettore) nell'approfondire a parte gli argomenti (magari incrociando anche altre fonti) come pure nel ricercare il significato dei termini che non si conoscono. Quasi un dovere di autodeterminazione che passa anche dalla conoscenza e padronanza della linguaggio corrente.
Non foss'altro per evitare ciò che evidenziava un certo don Lorenzo Milani quando affermava sostanzialmente che “ogni parola non conosciuta oggi sarà un calcio in culo domani”.
Del resto, tornando al sig. Giuseppe, se io ho potuto essere breve nella mia replica a Trezzi è perché sia lui che io avevamo già prima argomentato in modo articolato il nostro rispettivo punto di vista.
Quindi in sintesi, ma è solo un mio parere: più che questione di quantità direi che dovrebbe essere di qualità di approccio di tutti coloro che sono coinvolti nella comunicazione ed è solo con lo sforzo consapevole di tutti (quelli che scrivono e quelli che leggono, augurando anche che si invertano tra loro) che si può esercitare il libero pensiero di ognuno e, attraverso il confronto, una crescita partecipativa di tutti.
Rinnovo i ringraziamenti al sig. Giuseppe, di cui mi augurerei di conoscere pure il cognome, per avermi anche dato modo di esporre, allargando un po' il discorso, questo mio personale punto di vista.
Non volendo però fare un trattato mi limito, semplificando molto, ad alcuni aspetti di quello che ritengo, certo opinabilmente, un buon livello di comunicazione.
Diffido della moda corrente, predominante oggi, che misura l'efficacia comunicativa di uno scritto soprattutto sulla sua brevità (o presunta concisione) spesso però purtroppo equivalente a superficialità e banalizzazione tipica degli slogans pubblicitari o del lessico di certi politici che, agendo sull'immaginario collettivo, sollecitano la “pancia” dei destinatari (target li definirebbero gli esperti) del “messaggio”.
La trovo una traduzione a livello comunicativo dell'efficientismo produttivo tipico di una società basata quasi esclusivamente su “vendita e remunerabilità” del proprio “prodotto”, in questo caso culturale o politico.
Con questo non voglio certo fare, al contrario, l'elogio della trattazione enciclopedica “a prescindere”, proprio anche in ragione degli effetti che ben descrive il sig. Giuseppe.
Direi quindi, parlo in termini generali, che ci debba essere una giusta tensione alla sintesi ma mai rinunciando ad un sufficiente livello argomentativo (e all'occorrenza documentale) che consenta a chi legge, oltre che di comprendere le motivazioni di chi si confronta, di non ridurre il tutto ad una pura adesione all'eventuale credibilità della “parola” dell'uno o dell'altro.
Credo in altri termini che, da parte di chi scrive, ci debba certamente essere uno sforzo di semplificazione, persino nell'uso dei termini, ma contemporaneamente e liberamente un analogo sforzo di chi, se interessato, legge (come cerco del resto di fare anch'io come lettore) nell'approfondire a parte gli argomenti (magari incrociando anche altre fonti) come pure nel ricercare il significato dei termini che non si conoscono. Quasi un dovere di autodeterminazione che passa anche dalla conoscenza e padronanza della linguaggio corrente.
Non foss'altro per evitare ciò che evidenziava un certo don Lorenzo Milani quando affermava sostanzialmente che “ogni parola non conosciuta oggi sarà un calcio in culo domani”.
Del resto, tornando al sig. Giuseppe, se io ho potuto essere breve nella mia replica a Trezzi è perché sia lui che io avevamo già prima argomentato in modo articolato il nostro rispettivo punto di vista.
Quindi in sintesi, ma è solo un mio parere: più che questione di quantità direi che dovrebbe essere di qualità di approccio di tutti coloro che sono coinvolti nella comunicazione ed è solo con lo sforzo consapevole di tutti (quelli che scrivono e quelli che leggono, augurando anche che si invertano tra loro) che si può esercitare il libero pensiero di ognuno e, attraverso il confronto, una crescita partecipativa di tutti.
Rinnovo i ringraziamenti al sig. Giuseppe, di cui mi augurerei di conoscere pure il cognome, per avermi anche dato modo di esporre, allargando un po' il discorso, questo mio personale punto di vista.
Germano Bosisio