SCAFFALE LECCHESE/81: l'omaggio del Comune a Enrico Gandola, 'fondatore' dei musei civici

La pubblicazione è del 1971: si tratta di una settantina di pagine edite dal Comune di Lecco quale omaggio a Enrico Gandola che di professione era ingegnere ma che la nostra città ricorda – o, meglio, dovrebbe ricordare - soprattutto per i suoi preziosi, preziosissimi contributi alla vita culturale.
«Accanto a Carlo Vercelloni – scriveva infatti nella presentazione l’allora sindaco Guido Puccio – può considerarsi a tutti gli effetti fondatore a buon diritto dei civici musei. Modesto e sempre afflitto da mille pensieri, tutti lo abbiamo conosciuto come sovrastato da un pensiero centrale e dominante: quello di assicurare alla cittadinanza, ai musei, reliquie preziose del nostro passato. (…) All’ing. Enrico Gandola, insieme alla nostra riconoscenza, vorremmo che la vita fosse ancora copiosa di bene, di attività, di salute».


Enrico Gandola

L’auspicio venne però ignorato dal destino. Nel 1973, all’età di 82 anni, Gandola sarebbe infatti deceduto. «L’averlo ricordato, l’averlo onorato quand’era ancora in vita, ha forse richiamato su di lui l’attenzione della morte»: così osserva l’anonimo estensore di un ritratto dell’ingegnere contenuto in un librettino del 1977 curato dall’Associazione Giuseppe Bovara e dedicato ai personaggi della vita lecchese tra Ottocento e Novecento. E nel quale di Gandola si legge che, nato a Lecco nel 1891, dopo la prima guerra mondiale «inizia la professione dell’ingegnere, prestando la propria opera soprattutto a sostegno dei piccoli comuni della Valsassina e distribuendo il suo consiglio spesso gratuitamente (a Lecco, in Comune, col solo rimborso delle spese, presterà per parecchi anni servizio gratuito quale ingegnere capo reggente!)». Nel frattempo si occupa di monumenti e antichità, di storia, «frequenta Carlo Vercelloni, un ragioniere la cui abitazione è trasformata in un museo», alla morte del quale continua l’impegno: «Fonda praticamente la biblioteca di Lecco, fonda i musei. Continua a studiar tracce e documenti della Lecco antica, riscopre antichi codici, assicura insieme a molte notizie anche numerose testimonianze del passato della città facendosi donare quanto può per fornire i due musei lecchesi cui, fino all’ultimo, dedica le sue cure».
Per quanto non firmato, il ritratto è probabilmente da attribuire allo storico Angelo Borghi che proprio da Gandola venne spronato a continuare nella ricerca storica locale, come egli stesso ricorda nella presentazione della sua ponderosa Storia di Lecco in corso di pubblicazione. E certamente Borghi pesca nei ricordi personali, quando scrive: «Su una rassegna storico-archeologica di Como, su alcune riviste di Lecco, va pubblicando certi suoi preziosi studi, nei quali espone le proprie ricerche con bonomia e semplicità: sotto c’è molta passione, molto studio, soprattutto moltissimo amore per la sua terra. Raccoglitore appassionato di documenti e di testimonianze, è senza pari disponibile e generoso nel fornire notizie, dati, informazioni a chiunque gliene faccia richiesta, soprattutto ai giovani; incoraggia ogni iniziativa intesa ad illustrare la città e il territorio, nascondendosi sempre, con pudore e con discrezione, spesso cercando di aiutare e di favorire gli altri».



Dello stesso Borghi, inoltre, è la curatela proprio del volumetto del 1971, di quel tributo che il municipio volle rendere all’ingegnere ancora in vita, con la collaborazione dell’Associazione Giuseppe Bovara che oggi ha ormai alle spalle oltre mezzo secolo di attività ma che allora muoveva i primi passi, essendo stata fondata soltanto da un anno.
Quel libretto avrebbe dovuto essere – secondo le parole dello stesso sindaco Puccio - il primo di «una raccolta di volumi intesi ad illustrare le attività lecchesi, l’arte, la storia, la vita della nostra gente (…) così da poter presto contare su quella “storia di Lecco” che, da molti anni auspicata ed attesa, potrebbe raccogliere finalmente la testimonianza della vita di una comunità». L’iniziativa comunale non ebbe però seguito. Per inciso, dovranno anche passare altri quattro decenni perché finalmente la nostra città potesse contare su un primo affresco complessivo della propria storia andando oltre i racconti approssimativi e anche un po’ frettolosi dell’Ottocento (ne abbiamo parlato QUI).



La raccolta del 1971 comprende gli scritti di Enrico Gandola sul castello di Lecco, sulle antiche mura e sul ponte Visconti, sulla chiesa di Santa Maria sul Monte Barro e sull’oratorio di San Fermo a Cortenova in Valsassina, sugli stampatori lecchesi a Venezia, su Carlo Vercelloni.
In apertura viene anche riprodotto un antico stemma di Lecco risalente al Settecento e che «ha il leone in una positura che contrasta con quello degli stemmi comunemente noti»: era impresso su un foglietto «rinvenuto tra le carte della nobile famiglia Baruffaldi di Cortabbio, ora estinta. Sotto lo stemma si legge: “Regola/ per il pane venale/ che si fabbrica/ nel prestino del territorio di Lecco”».



Ci sono poi altre pagine di un certo fascino. Ci incanta, per esempio, l’elenco dei castellani lecchesi dal Filippo Benalio del 1282 al capitano Bernardo Pollavini di Chiavenna, comandante di piazza nel 1809. Oppure le righe a proposito della cinquantina di reliquie che sarebbe stata conservata nella piccola chiesa del Monte Barro, reliquie non da poco: «la tradizione annovera una spina della corona di Gesù Cristo, tre capelli e parte del velo delle B. V. Maria, la corda di S. Francesco, una calza di S. Luigi Gonzaga…». Ma anche le pagine sugli stampatori lecchesi a Venezia: tre quelli «di cui si ha notizia sicura, che tenevano bottega di tipografo nella città lagunare e precisamente: Bernardino se Moronis, di cui si conosce un’opera edita nel 1482; Girolamo Penci (Péntio) con la stampa del libro “Boccaccio. Ne l’anno 1528 – A di XXX di Genaro”; Giacomo Penci è il più conosciuto, e di lui a tutt’oggi sono a noi pervenuti circa una trentina di libri, dallo stesso stampati». Approfondendo lo studio che Gandola aveva pubblicato su una rivista nel 1950, Aroldo Benini avrebbe poi ampliato il numero degli stampatori dandone atto in una mostra allestita nel 1992 alla biblioteca civica: “Dal Lario alla Laguna. Stampatori di Lecco e del territorio a Venezia e altrove: 1472-1534” (con catalogo pubblicato da Cattaneo Editore).



Ma sarebbe naturalmente improprio azzardare qualche sintesi o pescare qui e là. Tanto più che in questi cinquanta e passa anni (lo scritto più vecchio è del 1932, quello più recente del 1950) la ricostruzione storica ha aggiunto molti nuovi tasselli, superato o cassato alcune ipotesi, rivisto qualche particolare, approfondito altri aspetti.
Visto che lo abbiamo evocato, però, ci soffermiamo sul ricordo che Gandola fece, un mese dopo la morte avvenuta il 23 agosto 1932, «del cav. Rag. Carlo Vercelloni». Che fu «ispettore bibliografico per il Circondario di Lecco, figura caratteristica di tanto modeste quanto valente studioso, sempre cortese, sorridente ed affabile con tutti. (…) Lecco deve infatti a lui, se oggi può vantare il possesso d’un museo di storia naturale, ch’è tra i migliori per ordinamento e qualità di esemplari, e può competere con quelli di molte città assai più importanti, e se tra non molto potrà pur aprire al pubblico anche un museo di Archeologia, di Numismatica e del Risorgimento».


Carlo Vercelloni

Nato nel 1861 – ricorda Gandola - «il Vercelloni fin dall’età giovanile attinse la passione di preparatore tassidermico e naturalista da due concittadini lecchesi: l’appassionato naturalista e botanico Luigi Sacchi parroco di Olate e l’illustre geologo prof. Antonio Stoppani, che lo teneva in conto di amico più che di allievo. (…) A venticinque anni, nel 1886, in due locali di piazza Garibaldi egli apriva quello che si può dire il nucleo degli attuali musei di Lecco».
Non solo. «L’attività e l’intelligenza del Vercelloni ebbero pure a manifestarsi in un altro campo, e precisamente nello studio dell’imbalsamazione dei cadaveri, con un metodo tutto suo personale, mediante la “cassa autoimbalsamatrice”, che permette la conservazione delle salme senza ricorrere a manomissioni od asportazioni di parti, come viene generalmente praticato. Il primo esperimento risale al gennaio 1892, quando egli utilizzò la salma di una scimmia, ed un altro seguì nel luglio 1895, presso l’Ospedale Maggiore di Milano, sopra un cadavere umano, che riesumato dopo 13 mesi, si riscontrò in perfetta conservazione. A questo esperimento, di cui la stampa si occupo largamente, ne seguirono altri, tra cui, nel 1902, l’imbalsamazione di Mons. Pietro Galli, d’anni 85, Cameriere d’onore di S. S. e Proposto foraneo di Lecco dal 1862; del sig. Pietro Nava, e di don Davide Albertario, il ben noto direttore dell’“Osservatore Cattolico” di Milano. I relativi studi non mancheranno di dare quei frutti che per vari motivi l’inventore non poté raccogliere».
In realtà di quella bara per l’autoimbalsamazione nulla si è più saputo. E, a quanto ci risulta, anche delle prime sperimentazioni si è persa memoria.

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Dario Cercek
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