SCAFFALE LECCHESE/80: un breviario per trascorrere 'Un anno con Manzoni'

L'autore
«Preghiamo il Cielo che ci dia un anno veramente novo; però fiat voluntas di Chi ne sa più di noi». Così scriveva Alessandro Manzoni al figlio Pier Luigi il 25 dicembre 1849. Cambiano le epoche, ma al passaggio d’anno l’auspicio è il medesimo. E’, questa lettera, l’incipit di una sorta di breviario manzoniano pubblicato quale strenna per il Natale del 1984 dalla Banca popolare di Lecco della quale oggi rimangono solo ricordi e quell’immenso marmoreo mausoleo di piazza Garibaldi che proprio in queste settimane è argomento di polemica politica.
Il volume – “Un anno con Manzoni”, il titolo - venne stampato in vista delle celebrazioni del bicentenario della nascita dello scrittore che ricorreva proprio nel 1985. A compilarlo fu Umberto Colombo, sacerdote, docente universitario, critico letterario e, all’epoca, conservatore del Centro nazionale di Studi manzoniani.
Il taglio e il filo conduttore del libro sono dunque religiosi. Essendo peraltro religioso lo stesso concetto di breviario. L’intento era appunto quello di servirsi del Manzoni come di una guida spirituale che accompagnasse il lettore durante tutto l’anno. La breve prefazione, del resto, è firmata dal cardinale Giovanni Colombo che fu arcivescovo di Milano dal 1963 al 1979 e parla appunto del Manzoni come di «uno dei pochi autori che accendono il desiderio d’averlo compagno di viaggio». Se ci sono opere «che parlano a una sola stagione della vita» non è certo il caso di quella manzoniana che invece è «come il biblico albero piantato lungo il decorso d’un rivo perenne, che frondeggia e fruttifica in tutti i tempi dell’anno».
Soprattutto – aggiungeva il cardinale - «ciò che farà sempre più cara e ricercata la pagina del Manzoni è l’“aura consolatrice” che da essa promana. Vengono certi giorni in cui l’aridità del cuore, la noia di tutto, la sfiducia in tutti, ci scavan dentro un vuoto che opprime; arrivano certe sere in cui passioni e risentimenti, delusioni e rimorsi, memorie e previsioni, ci tolgono la pace e il sonno. In questi giorni, in queste sere, la parola del Manzoni è quella di un amico discreto e fisato, che ha virtù di sopire paure, angosce e rabbie, di sciogliere l’animo dalle mutevoli illusioni e dalle grettezze egoistiche, di sollevarlo sopra il tumulto interiore e farglielo contemplare con la serenità di chi osserva da un’altura la vita travagliata della valle. A volte basta una sola pagina manzoniana perché l’animo si senta, per mite attrazione, introdotto nella visione calma e pensosa della relatività degli eventi umani, dell’inguaribile nostra fragilità, della grandezza e bontà di Dio che “perdona tante cose per un’opera di misericordia”».
La copertina
«Pertanto Manzoni – sono parole di Umberto Colombo – diventa il nostro esame di coscienza che ci regala inquietudini redentive o consolazioni».
Della religiosità del Manzoni – dei travagli, dell’evoluzione, della “conversione”, della Provvidenza – tanto è stato scritto ed è peraltro tema su cui ancora gli studiosi discutono. Se vogliamo, questo libro può essere un aiuto ad approfondire il pensiero religioso dello scrittore lombardo, il quale – scrive Colombo - «consultava Dio osservando l’andar del mondo» ed è motivo per cui, a proposito di “Promessi sposi”,  «la vita varia di quella zolla del mondo – la Lombardia – e di quel frammento di tempo – un paio d’anni del Seicento - raccontata con ricca saggezza d’ogni giorno e di sempre, offre la tentazione di “inventare” quasi una formula che meglio definisca il romanzo secondo un personale (ma, non per ciò, capriccioso) “veder dentro”: anzi sbaglierebbe chi, raccolti i modi di lettura, credesse in un definitivo possesso perché si chiuderebbe nel già trovato, tradendo il catalogo aperto alla continua scoperta, derivante dall’inesauribilità  dell’autentica poesia». E allora «l’uomo – còlto nella sua singolarità, nella sua concretezza, rappresentato nel gioco multiforme degli atteggiamenti – è il mondo poetico al quale Manzoni pensa perché la radice profonda della storia risiede nella persona che, mentre costruisce o distrugge il suo mondo, aiuta, lo voglia o no, a costruire o a distruggere il mondo. Il tempo della storia è “umano”: la storia, alla quale il poeta si richiama, non è descrizione di fatti che, visti dall’esterno, sono campi dello storico (…sprovveduto), bensì contemplazione commossa e pensosa della vicenda intima in cui si afferma la vita dello spirito: drammaturgia, quindi, che rappresenta l’interno degli attori del dramma». Che è, il dramma, «l’episodio tragico della prima colpa» che si ripete come pure si ripete «l’attuazione dalla promessa di redenzione» raffigurate con la superbia e l’umiltà. Ma «l’itinerario della superbia con è quello della salvezza e, quindi, neppure quello della felicità», mentre «l’itinerario dell’umiltà – virtù tanto umiliata perché non capita – conduce alla grazia» E così «tutta la storia – anche quella del Seicento – diventa “sacra”».
Tutto ciò sottende alla scelta dei passi raccolta nel libro: ogni giorno un brano. Appunto, un “breviario manzoniano” come viene scritto nella presentazione. Ed è una lettura – mette in guardia don Colombo – da fare «senza precipitazione, senza la smania il 27 maggio di passare al 28: Manzoni non ha scritto roba svelta. Anzi c’è da avvertire la “difficile facilità” del Manzoni, il quale – si disse – è come uno di quei laghetti alpini il cui fondo non riesci a toccare con tutto il braccio quando credi che possa bastare un dito».
Un brano manzoniano ogni giorno per tutti i giorni dell’anno, quindi. Molto proviene dai “Promessi sposi”, dall’edizione definitiva e dalle prime bozze che sono andate circolando con il titolo – ormai definito improprio – di “Fermo e Lucia”. Ma per altri passi si è attinto alle poesie, agli Inni Sacri, alle lettere, ai saggi. Ogni brano è preceduto da poche righe introduttive dello stesso don Colombo «che sono spunti (e neppure ci sono tutti quelli chele citazioni richiederebbero): il meglio e il di più toccano ai lettori, i quali saranno ulteriormente “fortunati” se sapranno approfittare del Manzoni per continuarlo o, persino, superarlo. Manzoni non punto d’arrivo, bensì di partenza».
Ad aprire l’anno, nella pagina del 1° gennaio, c’è un passo della poesia “La Pentecoste”, uno degli Inni Sacri. Non è scelta bizzarra – per quanto una scelta sia di per sé arbitraria – perché evocata al curatore proprio da quell’“anno veramente novo” di cui si leggeva nella lettera natalizia del Manzoni al figlio: «Il “novo” – è la chiosa del curatore – viene appunto dallo Spirito Santo che, tra le varie novità in dono, offre la “pace”: quella che alberga dentro l’uomo per espandersi all’umanità: una “pace” che costa anche: e i martiri ne sono l’esempio più eroico e più divino». La Pentecoste, quindi: «Nova franchigia annunziano/ I cieli, e genti nove; / Nove conquiste, e gloria/ Vinta in più belle prove;/ Nova, ai terrori immobile/ E alle lusinghe infide,/ Pace, che il mondo irride,/ Ma che rapir non può».
Naturalmente, non staremo a spizzicare qui e là. Anche per rispetto degli intenti del “raccoglitore”, come don Umberto viene definito nella presentazione del volume non raro nelle librerie dell’usato dove quindi può ancora essere reperito.
Ad accompagnare l’intero anno è stato scelto di aprire ogni mese con una illustrazione di Alessandro Manzoni, secondo l’età, immagini che «raffigurano le “stagioni” del Manzoni, momenti della sua lunga vicenda umana, dall’infanzia alla vecchiaia» ed esse stesse «ci possono dare un filo conduttore, assumere il valore di un simbolo».

Manzoni con la madre e a 17 anni.
Sotto a 20 anni e al tempo del matrimonio con Enrichetta Blondel

Il mese di gennaio è così introdotto dal dipinto attribuito sembra ormai in via definitiva ad Andrea Appiani e nel quale è raffigurata Giulia Beccaria con un Alessandro bambino che pare quasi entrar per sbaglio nel riquadro (frutto di un taglio maldestro della tela e non dell’estro del pittore. Se il quadro è del 1790, Manzoni ha dunque cinque anni. I lecchesi hanno potuto vederlo, questo ritratto, lo scorso anno nella mostra  “Manzoni nel cuore” allestita dall’associazione “Giuseppe Bovara” che a Palazzo delle paure ha celebrato i propri cinquant’anni..  
Per febbraio abbiamo un Manzoni che entra nel collegio dei somaschi a Merate, per aprile il celebre ritratto da ventenne realizzato da un anonimo inglese e per maggio e la litografia anonima di Alessandro Manzoni all’epoca delle nozze con Enrichetta Blondel (1808).

Manzoni a 35 anni e in una litografia
Sotto a 63 e a 87 anni

Via via, arriverà anche il tempo delle riproduzioni fotografiche: per ottobre c’è il dagherrotipo di Stefano Stampa con il profilo di un Manzoni a 67 anni e a dicembre la fotografia scattata da Giulio Rossi allo scrittore che ormai ha 87 anni. Un anno prima della morte, avvenuta il 22 maggio 1873. E per quel giorno di maggio il “breviario” di don Colombo riporta il passo del cosiddetto “Fermo e Lucia” nel quale il Manzoni si sofferma sull’amore: sentimento certo necessario, non così invece lo scriverne che, anzi, risulta dannoso. Non è un caso se nel Gran Romanzo, l’autore non indugi più di tanto su sentimenti e pulsioni dei due promessi sposi, a costo di farli apparire un po’ insipidi. Così che un secolo dopo prete Colombo gongola: «un amore che ha la dignità delle cose care e belle».
In fondo, la storiella di Renzo e Lucia, si sa, fu pretesto per parlar d’altro. Tanto più che – come già detto (QUI) – ben altri sono i personaggi immortali.
A proposito dello scriver d’amore, comunque, così la pensava il Manzoni: «Concluso che  l’amore è necessario a questo mondo: ma ve n’ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po’ più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di sé stesso: oh di questi non v’han mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po’ più nelle cose di questo mondo; ma dell’amore come vi diceva, ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l’andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno per un prodigio mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d’amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per mettere una linea sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei».


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Dario Cercek
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