SCAFFALE LECCHESE/75: ''La descrizione del Lario'' nell'opera postuma di Paolo Giovio

Ecco il Lario com'era, nel Cinquecento. Secondo la descrizione di Paolo Giovio. Figura non trascurabile di umanista, Giovio fu medico, fu storico e pure vescovo. E' gloria comasca: a Como infatti era nato nel 1483 e a Como trasformò in un museo la propria residenza, soppiantata nel Seicento da quella Villa Gallia che oggi è sede istituzionale. Del tanto che scrisse, ci occupiamo qui di un'opera forse minore: pubblicata dopo la morte dell'autore, si trattava in origine di una relazione privata.
"La descrizione del Lario" - questo uno dei titoli possibili in italiano - gli era stata infatti commissionata da Francesco Sfondrati quando questi divenne conte della Riviera di Lecco per nomina imperiale, nel 1537. Edizione recentissima è quella 2020 della lecchese Polyhistor e curata da Franco Minonzio, già docente e ora editore-libraio.

La copertina della prima edizione risalente al 1559. Accanto un'immagine di Paolo Giovio

 

Francesco Sfondrati fu molte cose tra le quali consigliere privato dell'imperatore Carlo V che il 23 ottobre 1537 lo fece appunto conte assegnandogli in feudo la costa orientale del Lario: Mandello, Varenna, Bellano, Corenno e Monte Introzzo che è la Valvarrone.
Ci spiega Minonzio che, per quanto senatore di Milano, lo Sfondrati, «cremonese d'origine, poco conosceva delle terre ora poste sotto la sua giurisdizione» e decise pertanto di rivolgersi proprio a Paolo Giovio, del quale «la profonda familiarità con il territorio comasco non era meno largamente nota della raffinata cultura umanistica», sollecitandogli appunto «una dettagliata relazione sul territorio del lago di Como, nel quale erano compresi i suoi possedimenti»Giovio «pencolava, in quei mesi, tra Milano e Como, dove seguiva l'avvio dei lavori di costruzione del suo celebre Museo» e «non sappiamo di quale argomento persuasivo seppe avvalersi lo Sfondrati»: tuttavia «l'immediatezza con la quale Giovio, pochi giorni dopo l'entrata in carica dell'amico, si dispose a soddisfarne la richiesta, lascia pochi dubbi sul piacere autentico con il quale intraprese quel viaggio in barca ancorché fuori stagione»: da Como a Samolaco e poi a Lecco e Bellagio, con rientro a Como. «Scelto quale compagno di viaggio l'amico Niccolò Boldoni, medico bellanese, Giovio compì in sei giorni il percorso» alla fine del mese di novembre di quel 1537 stesso e successivamente stilò la relazione.

Lo scritto, naturalmente in latino (e l'edizione Polyhistor ne riporta il testo), venne stampato da un tipografo veneziano soltanto nel 1559, appunto sette anni dopo la morte di un Giovio ormai celebre e apprezzato intellettuale. Già all'epoca, gli stampatori non ancora editori, fiutavano il "mercato" e Giovio doveva essere un autore ricercato: se il lettore ne desiderava nuovi titoli andava in qualche modo soddisfatto. Morto l'autore, restavano archivi ed epistolari a cui attingere.
Sarà anche questa destinazione privata a giustificare certe apparenti irrazionalità. Come il liquidare in poche righe la vicenda del "marchesino Stanga" che «costruì la sua villa Regale» sul promontorio di Bellagio «non in cima, ma a mezza costa, con la facciata rivolta a sud: una villa che vediamo sfigurata dalla sfrenata scelleratezza degli abitanti della Val Cavargna». I quali cavargnini - eravamo stati informati in pagine precedenti - sono «gente dall'indole litigiosa, dall'intelletto sveglio, decisamente sanguinaria, e ingaggiano lotte incessanti e cruente con le popolazioni loro vicine».
Poche righe. A fronte di una più lunga dissertazione sugli «strapiombi rocciosi di Ludovico Savelli, tristemente noti per la morte straziante di costui». Sono i contrafforti a lago del lecchese monte San Martino e Giovio racconta: «Nel giorno di Calendimaggio, come suole fare la gioventù di Lecco, egli era andato in cima a questa montagna a tagliare, con lo spirito lieto che si addice ad una festa, rami frondosi per adornare la sua casa, ma mise il piede in fallo e cadde in uno strapiombo di quella altissima rupe. Sospeso ad un sottile ramoscello, vi restò strettamente avvinghiato finché non diedero l'allarme alcuni barcaioli che, passando, lo avevano visto sospeso nel vuoto, ed allora tutta la città accorse per portargli aiuto. Ma quell'infelice, che non poteva afferrare le funi che gli venivano calate perché aveva le mani occupate, e non riuscì a sopportare più a lungo la vampa del sole cocente, dopo uno strazio durato più di cinque ore, tra le lacrime dei genitori e degli amici che lo guardavano, si perse d'animo e si lasciò cadere: del tutto inutile fu aver coperto il terreno per attutirne la caduta, perché, prima ancora di fracassarsi al suolo, era già morto per l'urto causato dallo spostamento d'aria precipitando».
Lampante la sproporzione: una semplice quasi distratta annotazione per lo Stanga e una cronaca puntigliosa, da autentico cronista moderno, per il Savelli. Evidentemente, da un lato non c'era bisogno di dilungarsi oltremodo su una vicenda che lo Sfondrati probabilmente conosceva, essendo egli cremonese come lo Stanga. Dall'altro, il racconto del tragico incidente del San Martino aggiungeva una qual certa intensità alla propria relazione, quasi a renderla più colloquiale. E che, a noi posteri, tra l'altro suggerisce pure qualcosa sulle conoscenze mediche dell'epoca, a proposito di quella morte per via dello spostamento d'aria.

Carta del lario dal manoscritto di Giovio

Del resto, soltanto il carattere privato della relazione può autorizzarlo a scrivere come le memorie della grandezza e della tradizione romana siano «state trascelte dalla diligente e colta indagine di mio fratello Benedetto Giovio» o come dall'Isola Comacina «traesse origine la nostra famiglia dei Giovio, e restano testimonianze della ricchezza dei nostri antenati (...) mossi da magnanimità non disgiunti da devozione (...) e così, da seicento anni, la nostra famiglia conserva la prerogativa, intatta ancor oggi, di nominare il prefetto e il sacerdote. Per questo motivo, ancor oggi, sullo stemma gentilizio portiamo, ad attestare la nostra origine, il castello dell'isola».
Ma veniamo al racconto di quel viaggio lariano. Che prende le mosse appunto da Como «creata per il godimento del genere umano»: luogo ameno, dunque, sul quale Giovio molto si sofferma con indiscutibile trasporto sentimentale. Avendo anche modo di accennare al museo che va erigendo in memoria di Plinio.

Anonimo del XVI secolo "Villa museo di Paolo Giovio", conservato al museo Giovio di Como

Risalendo il lago, si tocca Cernobbio «che fino a pochi anni or sono era ricca di edifici, ora bruciati, e per la struttura del suo porto, ora bruciato». Così com'è distrutta anche Menaggio a opera ancora di «quelli della Val Cavargna».
Per arrivare a Sala e all'Isola Comacina «dalla dorsale allungata che esibisce agli occhi dei naviganti i resti di una antica città, anch'essa chiamata Isola: è così per volontà dei Comaschi, affinché dell'esempio di quella punizione i popoli del Lario siano avvertiti e imparino a essere più fedeli alla loro madre Como». Nel corso della guerra con Milano, nel XII secolo, i comaschi «con l'aiuto del Barbarossa distrussero Isola dalle fondamenta, ed ordinarono che gli isolani fossero trasferiti in massa a Varenna» aggiungendo il divieto «a chicchessia di costruire sull'Isola Comacina»
Gli isolani, dunque, andarono «a fondare la colonia di Varenna» dove «portarono con sé anche le tradizioni religiose, se è vero che sono i soli, in quel tratto di lago, a non seguire il rito Ambrosiano. E i coloni, in quella nuova sede, edificarono due rocche». E' il mito della "Insula Nova" che diede anche il titolo a una serie di pubblicazioni storiche che un energico parroco varennese, don Lauro Consonni, diede alle stampe nella seconda metà dello scorso secolo. Però - annotava Giovio - «v'è chi, come il giureconsulto Giovanni Maria Scotti, senza dubbio il più illustre abitante di Varenna, afferma di non discendere dagli abitanti di Isola, traendo le sue origini da una schiatta più nobile».
E poi castelli (come quello del Medeghino a Musso) torri, torracce, ville come la Commedia e la Tragedia di Plinio, palazzi, scorci, curiosità.

Per quanto riguarda gli interessi dello Sfondrati, il feudo comincia dal promontorio di Piona che «assomiglia a un piede umano» sulle cui dita «si scorge un convento». Comprende Corenno, «borgo reso illustre dalla villa affascinante di un Sigismondo, medico» e comprende Bellano che sarebbe «l'abitato più importante di tutto il Lario» e «dall'aspetto di una piccola, nobilissima città» che «nella tua giurisdizione è per così dire la capitale». E dove «freddo è l'inverno (...) ma è facile sopportarlo grazie ai boschi vicini che alimentano egregiamente i loro fuochi». Di Bellano, tra l'altro, è il compagno di perlustrazione, quel Niccolò Boldoni «che insegna medicina all'Università di Pavia: lui mi ha accompagnato e mi è stato guida, in questo tentativo di offrire una descrizione del territorio soggetto alla tua giurisdizione».
Se il clima bellanese è un po'ingrato, come sappiamo, ben differente è quello di Varenna dalla «riva alta e soleggiata» e dove «contrariamente a Bellano è l'autunno lunghissimo, e dolce nel suo tepore, che fiacca la durezza dell'inverno».
Soprattutto, però, da quelle parti c'è quel mistero che già all'epoca stregava visitatori e studiosi: il Fiumelatte con quel suo spumeggiare nello scaturire «attraverso un condotto simile a una grande finestra» da «una grande caverna sotterranea» per arrestarsi totalmente all'arrivo dell'inverno. Mistero del quale molti cercarono una spiegazione, compressi coloro «che concepirono una rischiosa curiosità, e attraverso l'imbocco vollero entrare in quella cavità legati a delle funi, per scoprire la ragione di quella sorprendente alternanza di fasi di apparizione e sparizione del fiume. Avanzarono nelle tenebre per un discreto tratto, ma poi si trovarono frontalmente esposti ad un improvviso soffio di vento, e con un sibilo le fiaccole si spensero» come ci tramandano del resto le leggende alimentate da quel corso d'acqua, un saggio delle quali ci è stato dato recentemente da Stefano Motta (CLICCA QUI). E tanto sono "incantati" il fiume e il luogo che anche l'acqua non può essere certo normale visto che «dei pesci morti immersi in essa, permanendo la rigidità si conservano per tre giorni; pesci vivi, o catturati da poco, al solo contatto con l'acqua muoiono». Al mistero del Fiumelatte, tra l'altro, è dedicata una lettera che Niccolò Boldoni inviò nel gennaio 1539 allo stesso Sfondrati che immaginiamo anch'egli affascinato dallo strano fenomeno naturale. Lettera che accompagna la "Descrizione" gioviana fin dalla prima edizione veneziana del 1559.

«Ritengo - spiegava il Boldoni - che la causa dell'esaurimento del flusso sia da ascrivere alla freddezza esterna circostante, dovuta all'inverno. A causa di questa, infatti, il calore si rifugia nei luoghi più interni e sotterranei (...) donde avviene che l'acqua, che nasceva dal freddo nelle viscere del monte (...) cessa di formarsi, e così il corso d'acqua si interrompe». Il medico bellanese racconta d'aver volutoi «penetrare nell'antro dal quale esce il corso d'acqua (...). Ispezionato dunque quel luogo, e perlustrati quegli straordinari anfratti (...) ho congetturato questa spiegazione. Numerose caverne, pressoché eguali, accolgono le acque che defluiscono dai luoghi più elevati dello stesso monte: e quando queste sono riempite, non possono più accogliere al loro intero le acque che ulteriormente cadono dall'alto, ma tutte le riversano allo stesso modo attraverso i loro rivi nell'alveo comune (...) dove le acque, ammassandosi, subito costituiscono un fiume, il quale. Repentinamente formatosi, è inevitabile che repentinamente fuoriesca».
Lasciando le riflessioni sul Fiumelatte, la barchetta di Giovio e Boldoni tocca poi Lierna con il piccolo castello sulla penisola, Olcio con il suo olio e le cave di pietra «dalle quali si trae un tipo di pietra nerissima, con la quale i nostri antenati costruirono, con notevole perizia i pilastri delle colonne del Duomo di Como, quando non erano state scoperte le cave di Musso». Tocca Abbadia e il monastero dei serviti «e poco più oltre, v'è l'estremità della punta, che dista solo sei stadi dalla riva opposta: fino alla quale, da questo punto, i duchi Sforza progettarono, poco tempo fa, ma senza esito, di tendere una catena, per bloccare le scorrerie delle flotte nemiche». E quindi Lecco con le sue fortificazioni «e il suo mercato, sempre affollatissimo» e «un ponte la cui struttura supera quella di qualsiasi altro, difeso da tre castelli separati l'uno all'altro grazie a ponti levatoio, muniti si torre, affidati alla tutela di altrettanti castellani». Costeggia poi l'isoino di Pescarenico, Malgrate, Onno («un nome che dalla gente del posto viene chiamato con un monosillabo» che sarà poi quello dilettale in essere ancora oggi), Vassena, («preferibile a Onno per la sua campagna e i suoi vigneti») e quindi Bellagio («nulla di più degno di ammirazione, dilettevole e salubre si potrebbe trovare»).
Nella sua descrizione, Giovio affianca notizie di valenza e provenienza diverse e non sempre verificate, diremmo oggi. Per esempio, «vi è chi sostiene che il Legnone sia il monte più alto, e dicon ancora che da lui abbia origine una serie di montagne che, come a formare una catena ininterrotta, si estendono fino alla Dalmazia». Se non addirittura fantasiose, come quella dello stambecco: «Quando i cacciatori lo braccano, questi contraendo le zampe e raccogliendosi la testa contro il petto. Si arrotola in forma sferica. E così, col dorso protetto dall'arco curvilineo delle corna, con una strenua decisione si lascia scivolare a guisa di ruota, e rotola lungo le scarpate restando illeso». O che il nome di Cadenabbia sia stato inventato da «marinai ubriachi, i quali qui si riposano, con grande diletto, dalla fatica del remare, pensando che è espletata la metà del percorso della navigazione: è certo che in nessun altro posto, a loro dire, gli osti propinano un vino più sincero e a buon prezzo».

Ponte di Lecco - 1760

In quanto al vino, comunque, già era rinomato quello di Valltellina e lo «era già dai tempi di Caio Sempronio per la copiosa produzione» ed era vino «che «invecchia facilmente e spesso si conserva per molti anni, e quanto più invecchia, tanto più profumato diventa. La sua virtù è così grande che passa dal rango di ciò che è l'onore delle mense a vari impieghi medicinali, poiché è più simile ad un dolce liquore che ad un vino prelibato».
Ma i vigneti erano dappertutto e ovunque si produceva vino, da quello asprigno della Gessima (antico toponimo della zona collinare esposta a lago sotto il monte San Martino a Lecco, oggi tramandato dalla trattoria dei Bodega) a quelli di Lezzeno, «poco alcolici, simili a vinello dal gusto pungente, assai ricercati dagli ammalati» perché «indicati per le infiammazioni intestinali e per i casi di gotta dal tipo caldo. Quanto a me , quando il mosto ribolle, mescolo a metà il vino di Lezzeno con quello di Griante o di Varenna, con una combinazione dall'eccellente risultato. Il vino che se ne ottiene è delicato, quanto a interna consistenza, e sorride tremolante nei bicchieri agli assetati, con il suo brillante colore azzurrognolo».
Decennio più decennio meno, quasi un secolo dopo - nel 1616, per la precisione - , sarà un nipote di Niccolò Boldoni a scrivere una nuova descrizione del Lario con inevitabili influenze da Giovio. Si tratta di quel Sigismondo Boldoni nato a Bellano e che Bellano celebra con un monumento. E proprio in quegli anni andava sorgendo quella Villa Gallia che cancellava le tracce rimaste della residenza-museo di Paolo Giovio.



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Dario Cercek
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