Lecco: letture, ricordi e aneddoti a 70 anni dall'alluvione e dalla 'notte dei miracoli'

“La notte dei miracoli”: fu definita così quella tra il 16 e il 17 novembre 1951, quando l’allora sindaco lecchese Ugo Bartesaghi riuscì nel giro di sette ore a organizzare la colonna cittadina dei soccorsi per raggiungere il Polesine alluvionato: in testa i diciassette pescatori di Pescarenico con il loro “batej” adatti a muoversi su quelle acque per andare alla ricerca di persone da trarre in salvo.



A Palazzo delle paure, ieri, è stata ricordata quella notte di settant’anni fa, quello slancio di generosità verso le popolazioni travolte dalla piena del Po. Un ricordo che vede indissolubilmente legati una delle tragedie naturali che ha segnato la storia del nostro Paese e il nome di un sindaco lecchese, Ugo Bartesaghi, di non indifferente statura umana e culturale, prima che politica. E sul cui impegno è imminente l’uscita di un libro scritto dal giornalista Lorenzo Bonini.



Nella serata che a tratti ha ceduto anche un po’ alla retorica – ma tale è l’inevitabile tenore delle celebrazioni – in collegamento streaming da Roma è intervenuta anche Tilde Airoldi, la vedova di Bartesaghi. Allora, in quel 1951, lei aveva solo 19 anni e Bartesaghi ancora non lo frequentava (si sarebbero sposati dodici anni dopo), ma come tutti i lecchesi era coinvolta nel clima generale di solidarietà.
Condotto dalla giornalista Katia Sala, l’incontro è stato aperto dal saluto del sindaco Mauro Gattinoni, che ha detto come Bartesaghi sia l’esempio concreto di come la comunità sia più grande del Comune, oltre a essere emblema di amministrazione civica a cui anche oggi è necessario guardare. Nel contempo ha parlato della mobilitazione lecchese di quella notte come di una prova generale di una Protezione civile ante litteram che allora, con pochi mezzi a disposizione, si muoveva con tanto cuore e magari anche con tanta ingenuità.


Lorenzo Bonini e Mauro Gattinoni

Un altro saluto è stato, anch’esso via streaming, quello di Pierfrancesco Munari, sindaco di Cavarzere, il paese in provincia di Venezia dove in quei giorni era stata indirizzata la spedizione lecchese. Cavarzere che geograficamente – ha ricordato Munari – non è propriamente Polesine e in quell’occasione fu la linea di confine dove si sono fermate le acque, in una tragedia «che ha segnato la storia del Paese e che speriamo sia ricordata anche dalle prossime generazioni».
Poi, appunto, Tilde Airoldi, che parlando del marito ha ricordato come certamente non fosse «della squadra degli armiamoci e partite», e come anche in quell’occasione avesse voluto stare con i suoi pescatori che correvano seri rischi, considerando «il suo essere sindaco un servizio alla città», tanto da essere solito da giovane, dopo la messa, recarsi in carcere a Pescarenico per parlare con i detenuti.


Pierfrancesco Munari

Su quanto sia rimasto del messaggio di Bartesaghi, Tilde Airoldi ha parlato di un ricordo ancora vivo, di persone che l’hanno ammirato e amato seguendone l’esempio «e altre magari un po’ meno. Ma in questa serata voglio ringraziare i figli dei pescatori per quello che i loro padri hanno fatto quella volta».


In collegamento Tilde Airoldi

E’ stato poi il turno di Aloisio Bonfanti, in quel 1951 un semplice chierichetto al santuario della Vittoria – nel cui scantinato era stato allestito il centro di raccolta viveri e indumenti da spedire in Polesine – ma in seguito giornalista e per decenni addetto stampa del Comune, ma soprattutto riconosciuta memoria storica della città. Bonfanti ha raccontato della mobilitazione, ha commentato alcune fotografie sugli aiuti e sui profughi ospitati nel nostro territorio e ha ricordato l’accoglienza trionfale che la città aveva tributato al loro rientro ai soccorritori con in testa il sindaco Bartesaghi che improvvisò un discorso davanti al municipio. Bartesaghi, il cui modo di amministrare fu una svolta storica: un sindaco che non stava rinchiuso nel palazzo ma andava con i cittadini, si confondeva con la gente. Spazio anche per un aneddoto: quello del pescatore premiato con un posto di lavoro all’Arlenico e che dopo tre mesi mollò la tuta blu per tornarsene a gettare le reti nel lago.


Almerino Moretto

Pescarenico e i pescatori che trascurano il proprio lavoro per soccorrere gli alluvionati hanno offerto anche lo spunto per un richiamo manzoniano, con la lettura di alcuni brani del Gran Romanzo da parte di alcune donne dell’associazione “Promessi sposi in circolo – Letture popolari” coordinata da Bruno Biagi, conosciuto per essere stato agente Einaudi per tanti anni ma anche consigliere comunale.
Presentando i brani, Biagi ha proposto un parallelo tra fra’ Cristoforo e il sindaco Bartesaghi, non solo per la generosità, ma anche perché dimostrarono entrambi, oltre a un grande pragmatismo, anche la molta credibilità di cui godevano e che consentì al primo di organizzare la fuga di Lucia e al secondo di raccogliere tante adesioni al proprio progetto. E allora, naturalmente, sono stati un brano su fra’ Cristoforo e il celebre “Addio monti” a significare lo strazio di chi è costretto a lasciare la propria terra. Quattro le lettrici: Franca Alessio, Giovanna Bonaiti, Gaby Fresco Petrone e Gabriella Fumagalli.


Giovanna Bonaiti e Franca Alessio

Si è parlato poi del libro su Bartesaghi del lecchese Bonini che va ad arricchire la bibliografia dedicata al già sindaco lecchese dopo “La politica come servizio” di Giorgio Bachelet e Filippo Sacconi, pubblicato nel 1984. Si occupava, quel volume, del periodo dal 1944 al 1954, e anche quello di Bonini si concentra sul primo arco temporale della vita politica di Bartesaghi, spingendosi di pochi anni più avanti, «perché decisamente è la parte più interessante dell’impegno di Bartesaghi per ciò che ha significato nella situazione dell’epoca», ha spiegato il giornalista lecchese.


Aloisio Bonfanti

«Questo libro – ha detto ancora – era lì da qualche anno che aspettava l’occasione giusta. Che ora è arrivata». E parlando di Bartesaghi, ha cominciato dalla fisiognomica con quello sguardo penetrante su una corporatura un po’ esile a dimostrare forse anche una fragilità interiore. E poi, la lungimiranza e le doti di grande oratore e di penna fine e tagliente, il successo elettorale a soli 28 anni quando appunto divenne sindaco (anno 1948) dopo che un elettore democristiano su cinque lo indicò facendogli raggranellare la bellezza di 2.700 preferenze. Lui che era entrato nella Dc in occasione del referendum su monarchia e repubblica, non condividendo lo scarso impegno del partito nell’appoggiare la seconda opzione.


Bruno Biagi

E in quel tempo di ripartenza dell’Italia e di costruzione del nuovo Stato che non voleva fosse una riproposizione dell’ordinamento liberale precedente il fascismo, Bartesaghi guardava a politiche riformiste, popolari, a un incontro tra i democristiani e le forze della sinistra, «una battaglia che andava fatta proprio in quegli anni Cinquanta ma che il nostro Paese ha poi fatto tardivamente». E così, nel 1954, per il voto contrario in Parlamento all’Unione dell’Europa occidentale (organismo che anticipava la Nato), Bartesaghi sarebbe stato espulso dalla Dc assieme a quel Mario Melloni che negli anni seguenti sarà conosciuto come “Fortebraccio”, il caustico corsivista del quotidiano comunista “l’Unità”. «Erano tempi difficili ed era difficile per tutti capire quali fossero le regole del gioco – ha detto Bonini – in un momento storico in cui si andava preparando la guerra fredda e lo scontro tra i blocchi, e nella contingenza di una nuova rata di aiuti finanziari dagli Usa all’Italia nell’ambito del Piano Marshall».


Francesco Ghislanzoni, Ceko

A chiudere la serata, una breve testimonianza di Almerino Moretto, presente in sala assieme al fratello Luciano: polesani, all’epoca furono profughi e vennero ospitati a Valmadrera. E infine, di Francesco Ghislanzoni, conosciuto come Ceko, il cui padre fu uno dei componenti della squadra di soccorso: «Non erano diciassette uomini – ha detto – ma diciassette leoni e ci hanno insegnato tutto, non solo in quell’occasione ma anche nel lavoro di tutti i giorni. Però, oggi, siamo rimasti soltanto cinque pescatori, perché quel lavoro ce l’hanno distrutto. Non voglio prendermela con la politica in questa occasione, però siamo stati trascurati e molte cose non sono state fatte».
D.C.
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