SCAFFALE LECCHESE/73: quando i nostri 'batej' soccorsero il Polesine. Dagli 'Archivi' pensieri e azioni dei giorni dell'alluvione

Ricorrono, proprio in questi giorni, i settant'anni dall'alluvione del Polesine, catastrofe che è parte importante della memoria collettiva del nostro Paese. E della nostra città. Ce lo ricorda una giornata commemorativa organizzata dal Comune di Lecco per mercoledì 17 novembre (QUI). Perché in quei giorni del novembre 1951, anche Lecco fece la propria parte nel soccorrere le popolazioni alluvionate. Fu una mobilitazione di solidarietà dell'intero territorio, sotto la guida dell'allora sindaco Ugo Bartesaghi. Che fu davvero in prima linea. Non è un caso che, in città, la memoria della tragedia sia indissolubilmente legata a quella dell'uomo.

Ugo Bartesaghi

A restituirci un racconto degli aiuti lecchesi c'è un prezioso numero monografico della rivista storica "Archivi di Lecco" uscito nel 1996. Ricorreva, quell'anno, il ventennale della morte proprio di Ugo Bartesaghi. Che appunto fu sindaco - il primo democristiano, dal 1948 al 1954 (QUI) -, ma anche parlamentare dal 1953 al 1972 per tre legislature alla Camera e una al Senato, figura di alto profilo intellettuale non soltanto per la città, protagonista nel 1955 di un caso politico clamoroso che gli costò l'espulsione dalla Dc: continuò allora l'attività politica lecchese alla guida di un gruppo civico, mentre il Pci gli offrì di tornare in Parlamento candidandolo come indipendente nelle proprie liste. Il 13 marzo 1976 si tolse la vita su un treno che lo stava portando a Roma. Una storia personale e politica di cui si dovrà tornare a parlare.

La copertina del numero monografico della rivista storica "Archivi di Lecco" uscito nel 1996

Però, più che lo sbocco tragico di una vita di impegno, più che le grandi battaglie ideali e più anche che per gli altri molti meriti riconosciutigli quale sindaco, la gran parte dei lecchesi lega il nome di Bartesaghi appunto ai giorni del Polesine. Ed è per questo che, nel 1996, Carlo Panzeri - una militanza democristiana e un'amicizia con Bartesaghi - confezionò quel numero speciale della rivista con un lavoro di ricerca ostinata e certosina, non priva di difficoltà: «Abbiamo incontrato molti ostacoli - scriveva - Ci è stato risposto spesso: "In quei giorni avevamo altro a cui pensare, quasi nessuno era provvisto di macchina fotografica e non si aveva il culto della memoria storica». Settant'anni fa, altri tempi. Pensate oggi, tempo "social": altro che culto della memoria storica...

A differenza di altre catastrofi, il Polesine rappresentò forse il vero momento fondante della nostra Repubblica, il momento in cui gli italiani in quanto italiani si sentirono davvero comunità. Forse per la prima volta nella storia (e poi non più, ma ciò è argomento per altre lunghe discussioni). La guerra era finita soltanto da sei anni, molti conti erano ancora in sospeso. Eravamo ancora un Paese agricolo, il boom economico nemmeno immaginato, molte ferite ancora aperte. E nei giorni di quella tragedia sembrava che si scoprisse davvero che il destino ormai era un destino comune.

Così fu anche per Lecco: «Una stagione irripetuta di unità cittadina e di solidarietà che ha visto legati tutti in un vero e proprio impeto di amore - così si legge in "Archivi" nella premessa da attribuire, pensiamo, ad Aroldo Benini - Ricordarlo, e ricordare contemporaneamente Ugo Bartesaghi che fu al centro di quell'impegno e di quell'azione, ci è sembrato più che il compito dello storico, un dovere civico, un messaggio da trasmettere al volontariato d'oggi, e alle generazioni avvenire».
Però, a proposito di unità cittadina, qualche mal di pancia deve esserci anche stato se lo stesso Benini, in una serata organizzata dal Circolo Salvemini nel 1977, ebbe a dire: «Accusato al suo rientro d'esser partito coi comunisti di Pescarenico Bartesaghi risponde d'aver cercato uomini coraggiosi e di averli trovati indipendentemente dalla loro fede politica e dalle tessere» (l'intervento è contenuto in "Lecco per Ugo Bartesaghi", opuscolo pubblicato dal Comune di Lecco nel 1978).
L'autunno di quell'anno 1951 fu tremendamente piovoso e tra il 14 e il 16 novembre il Po ruppe gli argini in più punti allagando pressoché l'intera provincia di Rovigo e parte di quella di Venezia. Quando, molto dopo, verrà fatto un bilancio del disastro, si parlerà di un centinaio di vittime e di 180mila persone rimaste senza tetto, ma si faranno anche i conti con un esodo di massa: circa metà della popolazione della provincia rodigina lasciò la propria terra per cercare ospitalità altrove e molti non tornarono più. Si calcola che non sia tornata al proprio luogo d'origine una persona su quattro. E piccole comunità di polesani mettevano radici nei luoghi dove erano state ospitate nel periodo dell'emergenza.

 

Scriveva Cesare De Michelis, nell'introduzione all'edizione 2001 (Marsilio) di quelle straordinarie "Cronache dell'alluvione" che Gian Antonio Cibotto pubblicò per la prima volta nel 1954 da Neri Pozza (e ora riedite dalla "Nave di Teseo"): «Quando la sera di mercoledì 14 novembre 1951 a Paviole, tra Canaro e Occhiobello, il Po rompe e si apre una breccia di duecento metri e oltre, il maltempo durava da una settimana (...). Comincia così la tragedia del Polesine: per undici giorni, dal 14 al 25 novembre, le acque dilagano incontrollate sommergendo quasi ottomila ettari, praticamente tutta la provincia di Rovigo e oltre, inondando più di cinquemilaseicento case. Per tornare a una desolata e straziante normalità non saranno sufficienti sei mesi e a quel punto molti degli sfollati non torneranno più indietro, convinti di avere perso per sempre la loro guerra col fiume. Quando a novembre se ne erano andati, trascinandosi dietro le masserizie, sembravano calmi, rassegnati a questi traslochi periodici, invece il '51 non fu un anno come tutti gli altri, prima e dopo, lasciò ferite talmente profonde che ancora ne resistono i segni».
Il preludio alla catastrofe polesana era stata una serie di allagamenti e frane in diverse parti d'Italia, alcune tragiche anche nel territorio lariano, come ricorda Panzeri. La notte dell'8 agosto, per esempio, «quando un importante rovescio faceva irrompere le acque del torrente San Vincenzo nella valle sottostante, riversandosi e invadendo i comuni di Sorico, Gera Lario e Domaso, dopo aver travolto cascinali, case, un'officina, una villa, una trattoria, e aver reso pericolante il ponte sul Livo. Trenta le persone uccise». O l'8 novembre a Tavernerio: «Verso sera, il torrente Cosia sfaldava le pendici della collina che sovrasta il paese, trascinando a valle parte della collina stessa e provocando una frana, calcolata in milioni di metri cubi, che investiva le case sulla riva del torrente. Fu un attimo che costò la vita a sedici persone»
Intanto il Po cominciava a farsi minaccioso fino ad aprire tre brecce nel Polesine: «La più grave a Polesella, in provincia di Ferrara, dove si allargava col crollo di altri argini e con la complicità dell'Adigetto fino a Rovigo, raggiungendo in poche ore l'altezza di un metro nel centro di Adria. Furono necessarie misure di emergenza e il rapido sgombero della zona: migliaia di persone dovevano abbandonare le case ed ogni bene, in fretta, sempre più in fretta. Episodi drammatici e spesso tragici diedero l'impressione di un esodo» che ai reduci della Grande Guerra ricordava Caporetto.

Servivano barche. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 novembre, una telefonata raggiungeva Ugo Bartesaghi chiedendo la messa a disposizione di tutti i natanti disponibili. Lo stesso sindaco raccontava le ore concitate nel diario tenuto in quei giorni e pubblicato poi sul settimanale "L'Azione": «Natanti a motore adatti, a Lecco non esistono se non il canotto di gomma di [Pietro] Vassena: lo si richiederà e la risposta sarà un sì di cuore». Poi, ci sono i pontoni della Canottieri e, naturalmente, «le barche dei nostri pescatori: i mezzi più adatti per la loro forma larga che dà stabilità, e soprattutto perché hanno fondo piatto, il che permette loro di solcare con sicurezza acque come quelle». Il racconto si fa poesia: «Care nostre barche di Pescarenico sacre a una dura quotidiana fatica, familiari col fiume corrente e col lago ondoso, use ai pericoli di queste acque ed esperte delle collere improvvise dei venti: barche cui guarda con amore il lecchese....».

«Nel giro di non più di sette ore - è la cronaca di Panzeri - in via Leonardo da Vinci, allora senza traffico perché il ponte nuovo ancora non c'era, fu allineata una colonna di sei autocarri, di cui due provvisti di rimorchio, preceduti dalle Fiat 1100 del Comune di Lecco che, alle 9,15 del mattino, si metteva in moto alla volta di Rovigo. Sugli autocarri erano stati caricati quindici "batej", larghe barche a fondo piatto, scortate da 17 pescatori che le avrebbero condotte» e sono i Ghislanzoni, i Polvara, i Monti, i Riva.

Oltre ai "batej" c'era il gommone di Pietro Vassena «completo di pilota (il figlio Mario)», c'era materiale di salvataggio, stivaloni, impermeabili, salvagente. Gli autocarri erano stati messi a disposizione da diverse aziende con tanto di autisti, la Sal fornì due autobus. A dirigere il convoglio lo stesso sindaco Bartesaghi e alcuni tecnici comunali. Nel frattempo si rivolse «un appello alla cittadinanza perché venisse in aiuto dei fratelli con viveri, indumenti, coperte e altri» e si avviò una raccolta di fondi. Colonie e asili vennero messi a disposizione per accogliere gli sfollati.

Panzeri ha raccolto nel volume tutti i documenti che è riuscito a recuperare. Uniti alla ricostruzione storica e al diario del sindaco Bartesaghi, il cuore del volume, tramandano i nomi, uno per uno, di tutti coloro che furono impegnati nei soccorsi, i momenti tragici e i gesti di generosità, catalogati con la puntigliosità di un ragioniere. E le storie personali. Come quella di Tiziano Rapegia, 24 anni, e di Maria Camozza, 21, sfollati ospitati alla colonia di Cassina e che nel gennaio 1952 furono sposati nella chiesa di Santa Marta a Lecco da monsignor Giovanni Borsieri e non mancò nemmeno il pranzo di nozze preparato dalle Suore misericordine. Gli sposi arrivavano da un piccolo paese in provincia di Rovigo, Crespino, dove forse sono poi tornati, non sappiamo. Sono nomi, i loro, che il tempo ha cancellato nei ricordi lecchesi, ma quel matrimonio rappresentò in quel momento un messaggio di speranza.

Panzeri ha arricchito la propria ricerca con interviste ai volontari della Croce rossa e ai barcaioli di Pescarenico, con testimonianza di persone come Aldo Rossi, Sergio Spini, Bruno Bianchi, Pino Pozzoli, tutti per molti anni punti di riferimento del dibattito culturale cittadino. Un rilievo particolare, inoltre, ha la testimonianza di monsignor Teresio Ferraroni che nel 1970 diverrà vescovo di Como, ma che in quel 1951 insegnava a Lecco e reggeva il santuario della Vittoria e che di Bartesaghi dice: «Era un uomo drammatico e in quel dramma del Polesine ha rivelato pubblicamente per la prima volta, credo, questa sua indole (....). E' capitata questa cosa del Polesine, è esplosa in lui quest'ansia di fare, di agire, ha sentito di avere un compito, un ruolo, un dovere, e giunge a dare dell'incosciente ai pescatori che lasciano a Pescarenico le loro famiglie, mentre egli si appresta a guidarli e li guida sapendo che in qualche momento può essere loro di peso. Lecco è esplosa allora, come lui. I pescatori riconoscono, nella loro semplicità che era affascinante, un fascinatore (...) Mentre ricordo di lui che egli viveva e sentiva la sua angoscia e la teneva per sé, e non la comunicava se non, qualche volta, attraverso una citazione dotta, una frase del "suo" Leopardi, anch'egli una coscienza drammatica del suo tempo e di tutti i tempi».

Allora, il diario scritto da Bartesaghi in quei giorni va letto con calma: non è un arido resoconto delle giornate, così com'è, denso di riflessioni e considerazioni che danno a semplici annotazioni un respiro letterario. A cominciare dallo sguardo sull'esodo: «Persone che abbandonano, gravati da una pena muta e cupa, i luoghi dell'alluvione. Sono uomini, donne, bambini, trasportati su autocarri, fissi con un'espressione di desolato abbattimento e di disperata stanchezza a una visione che non è delle cose circostanti, ma delle loro case e dei loro campi invasi e sommersi dalle acque inesorabili; sono carichi di scorte agricole e di bestiame, quel che si è potuto salvare d'una ricchezza devastata e distrutta, e che non dice più benessere, ma parla della infinita miseria su cui galleggia come un povero relitto. Sembra l'esodo di una gente, davanti ad un esercito invasore. E' l'esercito delle acque, più tremendo, feroce e inarrestabile della più potente e barbara armata umana».

I bambini in lacrime, le madri spaventate e «quanta pietà di voi, vecchi sgomenti e accasciati, che piangete in silenzio, senza un sospiro né un gemito, come impietriti e solo vivi per spremere dagli occhi infossati, giù per le rughe fatte d'improvviso tanto più profonde e dolorose, tutta la desolazione dei vostri anni sopraffatti!». Chiedendo perdono a Dio «se per amore dell'uomo, e per affanno della sua oppressa e travolta debolezza, del suo angoscioso terrore e della sua ansia di scampo (...) se per la voce dei chiamati dall'acqua (...) non ci ricordammo del giorno del Signore, del Suo precetto (...) dimenticammo, Signore, dei segni dell'amore Tuo (....) non udimmo le Tue campane, non vedemmo le Tue chiese spalancate (...). La Tua messa, il Tuo sacrificio si celebravano quel giorno sopra i campi allagati e le speranze distrutte, negli uomini straziati».
Sono solo un paio di passi dei molti con i quali Bartesaghi descrive il paesaggio di desolazione che ha sotto gli occhi e il prodigarsi dei lecchesi, i salvataggi e i pericoli corsi. Per concludere, proprio come in una poesia, con la certezza che domani il cielo tornerà sereno: «Ci resterai in cuore per sempre, terra di Polesine martoriata, che abbiamo amato ed amiamo come la nostra natia, perché t'abbiamo conosciuto nell'immenso dolore. Vorremmo rimanere ancora, per essere coi tuoi figli ad attendere il giorno in cui lo splendore del sole brillerà sui tuoi solchi ritornati fecondi, ribenedetti dal sudore dell'uomo nella invocata pietà di Dio, sulle tue case riaperte alla vita, sui tuoi bambini tornati giocondi fra gli alberi in fiore. Solo quel giorno, davanti alla prora delle barche che i pescatori nostri tornano a spingere sul loro fiume e sul loro lago, l'acqua ritornerà limpida e chiara, e rifletterà ancora l'azzurro».


PER RILEGGERE LE PRECEDENTI PUNTATE DELLA RUBRICA, CLICCA QUI

Dario Cercek
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.