Lecco: l'attesa è finita, inaugurata 'Il filo rosso', mostra tributo alla lotta di liberazione della donna

“Il filo rosso. Storie del movimento delle donne a Lecco”. Inaugurata a Palazzo delle paure la mostra che vuole ricordare un decennio di battaglie – sostanzialmente gli anni Settanta del Novecento - per un’emancipazione femminile che nel frattempo era diventata “liberazione della donna”. Una mostra che avrebbe dovuto avere luogo lo scorso anno a ridosso della giornata dell’8 marzo e che l’emergenza covid ha costretto a rimandare, nonostante per due volte sia stata tentata l’apertura.

E’ una mostra che vuole ricordare un passaggio importante della nostra storia, un passaggio per il quale – come ha detto Titta Papini - «tutto quello che c’è stato dopo non c’era stato prima», intendendo con ciò i diritti della donna come persona e non come “proprietà” di un uomo: il padre, il marito, il medico, il prete. «E non si torna indietro, la nostra è stata una rivoluzione».
«Il filo rosso – si spiega nell’introduzione alla mostra – è il filo di lana usato per scialli, sciarpe, per la produzione di quei lavori a maglia che nonne e madri avevano vissuto come dovere e necessità; per le femministe diventa affermazione della differenza di genere. Il rosso è il colore del mestruo, delle lotte e delle violenze subite».

Erica Bartesaghi

Ma il filo rosso è che il legame tra le giovani generazioni e le femministe di quegli anni alle quali «devono la libertà e i diritti di cui oggi godono» e che comunque vanno difesi quotidianamente perché «i diritti non sono acquisiti per sempre» come ha ricordato Enrica Bartesaghi. In questa occasione, acquista così un significato tutto particolare il coinvolgimento nell’allestimento di una classe del liceo artistico “Medardo Rosso”, a testimoniare appunto il filo rosso che lega lo ieri all’oggi.
La mostra vede nel ruolo di organizzatori il Collettivo femminista autonomo che non esiste più in quanto tale ma le cui animatrici ne mantengono vivo lo spirito combattivo, il Comune di Lecco e il Sistema museale lecchese. Con l’adesione di Telefono Donna, dell’Udi (che era l’Unione donne italiane e oggi è l’Unione donne in Italia per rappresentare anche i diritti delle immigrate), del sindacato Cgil e dell’Anpi. A presentarla, ieri sera – sabato 30 ottobre – la conservatrice dei musei Barbara Cattaneo; l’assessore alla cultura e vicesindaco Simona Piazza, la presidente dell’Udi lecchese Dora Luisa Busato; la docente del liceo artistico Luciana Venturini, docente al liceo artistico e appunto, per il Collettivo femminista, Titta Papini ed Enrica Bartesaghi.

Fiori per Giancarla Pessina

L’occasione è anche servita per tributare un riconoscimento a Giancarla Pessina e Giovanna Rusconi, figure storiche dell’Udi lecchese, l’associazione nata a livello nazionale nel 1944 e a Lecco l’anno seguente, germogliata dai gruppi femminili impegnati nella Resistenza. Ed è servita anche per ricordare Daniela Butti, tra le protagoniste delle battaglie femministe di quegli anni Settanta, morta lo scorso anno senza riuscire a vedere realizzata la mostra alla quale aveva dato il proprio contributo (e la cui testimonianza è riportata in un video). L’assessore Piazza e le organizzatrici hanno così detto di voler dedicare la rassegna proprio a Daniela Butti oltre che a tutte le donne del mondo e in particolare alle donne afghane che devono trovare la forza per liberarsi da sole perché bisogna diffidare di tutti coloro che dicono di volerle liberare. Ma non è solo per questo che in mostra vi sono alcuni abiti provenienti dell’Afghanistan: si tratta di abiti che davvero venivano indossati dalle femministe in quel gesto paradossale di rivolta per cui la liberazione passava anche attraverso vesti castigate a contestare le mode e il “corpo femminile mercificato”.

Titta Papini

In un intervento appassionato, è stata propria Titta Papini a ricordare quegli anni, quando si conquistava il nuovo diritto di famiglia, si cambiavano le leggi sull’adulterio e il delitto d’onore, si aboliva la “clausola del nubilato” (per cui una donna veniva automaticamente licenziata al momento delle nozze) e le norme sul “matrimonio riparatore”, venivano introdotti il divorzio e l’interruzione di gravidanza per avere garantita la quale «abbiamo anche occupato l’ospedale, dove ancora le donne che partorivano lo facevano in solitudine ed erano insultate da un’ostetrica che forse c’è ancora», si chiudevano i manicomi («nelle quali molte donne venivano recluse solo perché “irregolari”, perché non si adattavano a un destino di casalinghe, mogli e mamme). Obiettivi per ottenere i quali sono occorsi anni di battaglie «il valere come persone» ce lo siamo conquistato». E poi, ha aggiunto Busati, gli asili nido, le scuole a tempo pieno, i consultori. E poi ancora, appunto, Telefono Donna, contro le violenze domestiche con un tempo la legge perdonava, per quanto oggi «le donne denunciano, ma c’è ancora silenzio da parte dei maschi».

La mostra si articola in tre sale al piano terreno del Palazzo delle paure, toccando i temi della sessualità, della contraccezione, della maternità e dell’aborto, puntando i riflettori sulle letture e sulla musica ascoltata in quegli anni, sui vestiti appunto, sui grafici e i manifesti, sul lavoro, sulle frasi di protesta. E in un angolo, reperti ormai preistorici come un megafono e una macchina per ciclostile. In tutto questo si inseriscono gli interventi delle studentesse (e di uno studente) dell’Artistico. «Che sono stati bravissimi – ha detto Venturini – perché il progetto era partito con una classe ma si è poi interrotto per il covid. Ed è passato tutto a un’altra classe che ha dovuto rifare daccapo tutto il lavoro di ricerca perché per i ragazzi si trattava di conoscere un periodo lontano nel tempo». Un’epoca remota che rischiava di essere completamente dimenticata ed è questo il motivo per cui un giorno Papini ha telefonato all’amica Enrica dicendola: «Mi è venuta un’idea».

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Ad accompagnare l’esposizione anche una pubblicazione che raccoglie una serie di testimonianze su quegli anni e rappresenta un documento importante (ne abbiamo parlato QUI).
Nelle prossime settimane saranno anche organizzati incontri pubblici: un primo è già fissato peer giovedì 4 novembre alle 18 nelle Scuderie di Villa Manzoni con la giornalista Giuliana Sgrena che presenterà il libro “Dio odia le donne”.
La mostra è aperta, fino al 28 novembre, il martedì dalle 10 alle 13, il mercoledì e il giovedì dalle 14 alle 18 e da venerdì a domenica dalle 10 alle 18. Ingresso libero.
D.C.
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