SCAFFALE LECCHESE/70: Fausto Valsecchi, il poeta scomparso tragicamente a 23 anni

Fausto Valsecchi: un nome che ai più non dirà ormai nulla. Neppure, va detto, gli rendono onore le sciatte targhe toponomastiche della strada collinare a lui intitolata. Del resto, l'uomo morì troppo presto per lasciare segni indelebili. Tanto più che già si era trasferito nella più feconda Milano, com'era inevitabile destino per i letterati di provincia d'un tempo. Era un giovane poeta e già questa è definizione non propriamente onorevole, si sa, avendo nelle nostre contrade valore soprattutto di perdigiorno. Con «il torto gravissimo, - come scrisse Arnaldo Bonzagni su "La Patria degli Italiani" - di far della poesia, imperdonabile da parte di borghesi ben pensanti». Maggior peso avrebbe invece avuto quel diploma da ragioniere impostogli dal padre e che pure diligentemente egli conseguì.

Vita breve, si diceva: nato nel 1890, morì infatti nel 1914, vittima di un incidente tanto stupido quanto, appunto, tragico.
A compendiarne vita e opere, ma anche quanto altri scrissero di lui, c'è un raffinato libro pubblicato nel 1966 dall'editore lecchese Ettore Bartolozzi con la curatela di Carlo Del Teglio. Avverando così, quasi trent'anni dopo, l'auspicio di Pino Tocchetti che nel 1934 scriveva delle molte poesie di Valsecchi «disperse su giornali e riviste dove attendono che una mano amica le raccolga e le aduni».
La biografia del poeta lecchese è presto riassunta: nacque il 31 dicembre 1890 a Lecco dove trascorse l'infanzia e l'adolescenza per poi iniziare gli studi di ragioneria al Collegio Nazionale di Sondrio e concluderli all'Istituto tecnico di Bergamo dove si diplomò nel 1908. A Bergamo restò ancora per un anno collaborando con "Il Giornale" - foglio d'orientamento democratico e anticlericale - su cui pubblicava novelle e articoli critici, prima di trasferirsi a Milano nel 1910 avviandosi a una promettente carriera letteraria: collaborazioni con vari giornali, ma anche traduzioni per Sonzogno.
La morte lo colse il 4 giugno 1914 sul Naviglio a Milano: in barca si lasciava trasportare dalla corrente leggendo un libro e non avvedendosi di una chiatta che sopraggiungeva. «Il giovane poeta Fausto Valsecchi morto tragicamente nel naviglio» avrebbe titolato all'indomani il "Corriere della sera".

«Il Valsecchi - questa la fredda cronaca dell'epoca - era socio della "Canottieri Milano", la quale ha il proprio "chalet" nella darsena di Porta Ticinese. E nella sua qualità di canottiere era solito, nella buona stagione, verso sera, prendere un'imbarcazione e fare una remata lungo il Naviglio, verso Corsico. Anche ieri sera il Valsecchi fece la solita gita su una piccola imbarcazione ad un solo posto: una lancia. Remò fino alla trattoria della Bellaria, oltre San Cristoforo; poi, dopo avere legato l'imbarcazione a riva, scese a bere. Si trattenne nell'osteria un quarto d'ora, poi ritornò in barca verso Milano. Ma approfittando della corrente in direzione favorevole, tralasciò di remare, lasciando andare la lancia alla deriva e mettendosi a leggere un romanzo che aveva con sé. Erano circa le 18, quando la lancia col Valsecchi passava sotto il ponte di San Cristoforo. Il giovane poeta continuava a leggere e non si era accorto che verso di lui veniva, rimontando il Naviglio, un grosso barcone, di quelli che portano i carichi di ghiaia, trainato da un cavallo. Il Valsecchi, che volgeva le spalle al barcone stesso, si trovò improvvisamente investito dalla prora. All'urto balzò in piedi, ma batté fortemente la testa contro il fondo della prua del barcone investitore, traballò, perdette l'equilibrio e cadde nell'acqua, mentre la lancia si rovesciava». Due passanti si gettarono nel naviglio per soccorrerlo, riuscirono a portarlo a riva, «ma ormai egli non dava più segni di vita: ed infatti qualche istante più tardi spirava. La morte pare debba attribuirsi più al colpo ricevuto urtando la nuca contro la prora del barcone che all'acqua bevuta. (...) La breve e dura vita i questo poeta si è chiusa con una morte che è l'ultima sarcastica crudeltà del suo destino. Quell'ala di sogno che si sperò un giorno dovesse alzarlo lontano si è infranta in un canale, fra le brutte ripe. L'umile realtà alla quale si era sforzato di liberarsi è stata, come l'amarezza della sua vita, la brutalità della sua morte».

L'articolo è siglato E.J. e sono probabilmente le iniziali di quello stesso Ettore Janni che quattro anni prima indicava in Valsecchi («E' un poeta, questo mi pare») una promessa per la letteratura italiana e «con un articolo generoso e stupendo - parole di Tocchetti - lo aveva rivelato all'Italia traendolo dall'angolo oscuro della sua vita di lavoro e sacrificio». Parole che forse fecero più male che bene al nostro: «Troppo giovane per sostenere il peso di un articolo simile - così commentò il già citato Bonzagni -, in mezzo all'invidia di moltissimi, egli diventò un po' "quello dell'articolo di Janni" e così dovette lottare violentemente per sostenersi una reputazione ch'era nata improvvisamente». Verranno da qui le amarezze. Ma anche, ed è la dura vita, le privazioni: «La sua famiglia aveva voluto far di lui un ragioniere - ancora Bonzagni -. Egli piantò coraggiosamente la famiglia assieme a quella desiderata professione. Di casta agiata egli patì ogni sorta di ristrettezze».
Nel ricordo del direttore del Giornale di Bergamo il debutto giornalistico: «Un giorno mi venne annunciata la visita di un giovanotto studente dell'Istituto Tecnico. Chiedeva ospitalità per certi suoi trafiletti nei quali la forma elegante, briosa, vestiva un contenuto di profonda e sana filosofia. "Io sono - disse presentandosi - Fausto Valsecchi. Il papà vuole fare di me un ragioniere. Io ho un invincibile orrore per i numeri. Partita semplice, partita doppia, libro di cassa, giornale, tutta roba che mi fa impazzire... Il ragioniere non lo farò mai, vorrei invece fare il giornalista..." - "Brutto mestiere, figliuolo!" - «Potrà anche essere ma... Mi prenda qui con lei..."». In cambio della promessa di terminare gli studi, il direttore accondiscese «e così ogni giorno, nel pomeriggio, Fausto Valsecchi capitava in redazione, col suo sorriso di bambino contento, a rovesciar sulle cartelle, con calligrafia rotonda, uguale, nitida, le notizie che aveva raccolto in giro, o il resoconto del teatro» ed erano articoli «che fecero scalpore tra noi giovani ed anche tra gli altri - ricordava Giulio Menegatti - e specialmente fra le signore che rimasero sorprese dall'audacia birichina e affatto nuova dello scrittore giovinetto». Aggiungendo: «Non sono superstizioso: però un ricordo mi fa stranamente pensare: penso al primo articolo di Fausto Valsecchi, pubblicato sul nostro Giornale, in cui con infinita grazia e con vero e generoso sentimento il giovane poeta lamentava la tragica morte di parecchie giovinette naufragate nel lago di Lecco»
Si tratta della tragedia delle filandiere avvenuta il 31 gennaio 1909, una domenica: quel giorno sedici donne, quasi tutte operaie tra i 12 e i 45 anni del filatoio Longoni di Pescate, si recarono al santuario di San Girolamo a Somasca. Al ritorno, la barca si rovesciò nell'Adda: perirono tutte con i due rematori. 
Alle Torrette di Pescate, una piccola targa, collocata tra una citazione manzoniana e la descrizione di una nutria, ricorda quel tragico episodio di oltre un secolo fa.

In quanto alla produzione letteraria di Fausto Valsecchi, il libro raccoglie 14 poesie e otto novelle: «Sono i pochi scritti che qui si è potuto reperire e ordinare - non ci sono tutti, purtroppo, ma (...) certo la parte più significativa dell'opera sua» affinché «tutti lo conoscano e imparino ad amarlo, a considerarlo come un antico compagno di scuola, e di svago, un poco strano e bizzarro». Così Carlo Del Teglio che pone Valsecchi tra i poeti crepuscolari parlandone in un saggio introduttivo. E noi che di quel movimento ricordiamo soprattutto il gozzaniano salotto di nonna Speranza con le «buone cose di pessimo gusto» ritroviamo davvero in Valsecchi certi echi inconfondibili e struggenti. Per esempio: «La tua spinetta d'ebano, corrosa/da un tarlo melanconico, ripete/tutte le sere l'aria più noiosa/che abbia mai fatto danzar un tempo sete/crude di vecchi guardinfanti rosa. /E' certo un innocente minuetto/composto per le nozze campagnole/d'una nonna gentile ch'ebbe affetto/per la musica dolce, le viole/d'aprile, il raso bianco ed il belletto». Oppure: «Ed è la sera che scende/sull'arsa strada maestra/ mentre nel borgo s'accende/ un cuore ad ogni finestra». E ancora: «E' giunta l'ave ad annunciar la sera/nell'ombra della stanza ove son solo; /presto dirà mia madre la preghiera, / flauteggerà fra breve l'usignolo». E infine: «Una neve di cipria e di belletto/come sopra un presepe, dove tutte/le figurine portano bautte/e danzano con grazia il minuetto, /mentre un abate cicisbeo, che conta/alle dame una favola scipita/pensa a una sua felicità finita/con quell'anno benigno che tramonta».
«Al nostro orecchio - scrive Del Teglio - scaltrito da infiniti mutamenti di mode e di gusti letterari ed artistici (...) questa poesia, come quella degli altri crepuscolari, non può che suonare affiochita e scaduta, e mostrare la corda di tutte le sue ingenuità, dei suoi manierismi, delle sue manchevolezze». Anche perché «non ancora e non sempre, è evidente, il Valsecchi raggiunge l'accordo perfetto fra l'ispirazione, fra l'intenzione e la resa poetica. Ma questo è un altro discorso, relativo all'immaturità e ai limiti più che naturali, nell'arte di un poeta poco più che adolescente». Eppure già intuendo un percorso di maturazione in essere.
E «non importa che sia richiamato un mondo scomparso con delle immagini né nuove né originali: quello che importa è il rimpianto nostalgico di un tempo sepolto, pieno di cose buone e gentili, di affetti semplici e di valori umani che i nuovi tempi hanno negato e distrutto per sempre».

Del Teglio propone anche un parallelo con il più celebre Sergio Corazzini, «nato e vissuto a Roma, pochissimo, dal 1887 al 1907» notando una «sorprendente affinità» con «il destino di morte di questo suo contemporaneo, anche se meno di lui conosciuto». Affini, appunto, «per la precoce attività, per la loro immatura scomparsa, per gli elementi stessi della loro poetica, sostanziata d'immagini che presto diventeranno tropi, o stilemi, ossia si faranno maniera, contrassegni tipici e convenzionali di tutta la corrente».
Nelle novelle - otto quelle recuperate della ventina sparsa in diverse pubblicazioni - l'incedere di Valsecchi pare avere ancora un che di scapigliato, raccontando vicende a tratti improbabili, accentate con decisa ironia: i genitori di un eroe, «nati per tacere in quanto «genitori di eroi non lo si diventa, né dalla mattina alla sera, né mai. Eroi si può diventare, ma genitori d'eroi bisogna nascere. Come i poeti. E noi eravamo nati per tacere e per soffrire»; gli eredi beffati da una vecchia malata ma tenace, ma soprattutto perché «sepolta la malattia, la salute fu la sola eredità»; un necrologio irriverente che genera un duello che non potrà mai compiersi; la vendetta di un marito tradito... Novelle che mettono in evidenza «la posizione del Valsecchi - ancora Del Teglio - di fronte ai dati sociali e culturali del suo tempo (...) ed è la posizione d'un anticonformista, d'un ribelle». E confermano comunque «le doti autentiche e la stoffa d'uno scrittore d'istinto, specie se si tien conto che questo genere di narrativa è fra i più ardui in letteratura, e richiede un lungo magistero d'arte, un'esperienza consumata che per la brevità della sua vita il giovane autore non poté acquisire». Infine, «vi si nota, soprattutto, l'impegno puntiglioso di chi sa d'essersi liberamente, buttato allo sbaraglio, con tutte le forze, contro ogni convenzione, contro una società e un mondo tutto sbagliato e da rivoluzionare dalle fondamenta - eterna aspirazione d'ogni nobile giovinezza; vi si nota la consapevolezza inebriante di "camminare verso la celebrità"».

La celebrità. Poco prima di morire - ricordava Nino Pettini che lo aveva incontrato «nella sua modesta cameretta di via Mameli» - stava pensando a un dramma da rappresentare al Teatro di Montecarlo: «Sarà una cosa tutta nuova, che difficilmente applaudiranno; ma non è l'applauso che io cerco... Nulla più soddisfa l'anima mia che poter affermare interamente la singolarità dei propri pensieri, anche quando, anzi, la pluralità degli uomini ti sono contrari!».

Dario Cercek
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