Lecco: Luisa Rota Sperti pubblica 'Cara Paola', libro autoprodotto specchio di un'epoca che fu

"Cara Paola" è il titolo. Ma è un incipit, l'inizio di una storia, del racconto di un decennio tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Era il 1966. La Paola in questione di cui nulla si sa - chissà chi era veramente, chissà dov'è oggi - rispondeva alle lettere dalle colonne di una rivista rivolta al mondo giovanile che proprio a quell'epoca alzava la voce rivendicando il diritto di decidere per la propria vita contro costrizioni secolari, rompendo i recinti, scrollandosi di dosso i grilli parlanti. E quel giornale - chissà se sinceramente o se già per quelle più prosaiche ragioni commerciali che poi avrebbero divorato tutto - rispondeva ai bisogni delle nuove generazioni. Ed è la lettera a quel giornale di un giovane bolognese che scriveva poesie a dare l'abbrivio a questa sorte di zibaldone a più mani.

"Cara Paola" è il titolo di un libro dell'artista lecchese Luisa Rota Sperti, conosciuta per le sue opere grafiche tra paesaggi fantastici e richiami orientali, tra Tolkien e le montagne nostre e del mondo. Un libro autoprodotto che ha preso corpo, come il genio della lampada, uscendo da una cesta nepalese confinata in cantina e nella quale stavano sepolte «lettere, aerogrammi, messaggi scritti, cartoline», specchio di un'epoca che fu, quella della controcultura, dell'underground, di quella contestazione giovanile che generò il mondo hippy finito sconfitto dalla Storia. Con una presenza importante ad accompagnare la narrazione, quella della sorella minore, «Icia, che si chiama ancora così» alla quale è dedicata l'opera «e che forse è la vera protagonista»: ha 9 anni all'inizio del libro quando si affaccia su un mondo rischioso «ma nei suoi confronti c'era tutto un sistema di protezione» e ne ha 19 alla conclusione.
Dopo decenni era forse giunto il momento di liberarsi di quelle vecchie lettere, ma una volta che se le è ritrovate tra le mani, Rota Sperti ha pensato che qualcosa avrebbe dovuto farne. Così ha deciso di raccogliere alcuni dei messaggi di quegli anni: «Dal 1966 al 1979 dall'Oriente, dalle Caserme del Servizio Militare Obbligatorio, dalle Comuni, dalle terre e case occupate, dalle carceri, dalla "piazza bella piazza", dalle riserve indiane e nei coffee shop, dalle ambasciate, dai poeti, dai "viaggiatori per sempre", dagli "amici per sempre", da scrittori, religiosi, sorelle, nonne, mamme, compagni di scuola».
"Cara Paola" è stato presentato l'altra sera alla libreria "Parole nel tempo" di via Partigiani a San Giovanni, ma l'incontro ha poi imboccato un'altra strada e l'autrice ha raccontato tutta una vita: gli amori («le persone che davvero ho amato sono quelle che non mi hanno mai toccata»), i mestieri saltuari, il disegnare furioso, le incomprensioni e le scelte radicali, questa nostra città com'era e com'è, «il mondo che è cambiato e non è che sia meglio o peggio, semplicemente era un altro mondo». E naturalmente, le persone che in un modo o nell'altro non ci sono più.

Luisa Rota Sperti

Certo, a cominciare da quel primo viaggio in Afghanistan nel 1966 fatto con un amico a bordo di una Fiat 500: «Ma non ero coraggiosa, quando partivo per l'Oriente avevo paura e la paura del viaggio ancora mi è rimasta. Ma si partiva. E si partiva senza sapere niente. Ricordo la prima volta a Herat: avevo vent'anni, i capelli biondi lunghissimi, una camicia e i pantaloni corti perché faceva caldo. Incontrammo quelle donne tutte coperte. Noi lo chiamavamo chador ma indossavano il burka. E da sotto spuntavano le scarpe coi tacchi. Allora, il giorno dopo, mi sono coperta anch'io: gonna e maniche lunghe. Per rispetto. Partecipai a una festa di donne afghane. Mi fecero cantare "O sole mio". E tra donne poterono scoprirsi, tolsero il burka, qualcuna aveva la minigonna. Davvero, non mi davano quell'idea terribile sulla loro vita. Poi sì, c'erano anche gli aspetti terribili, ma non bisogna fare di tutta l'erba un fascio. E non ero tra donne della classe benestante o colta...».
O quell'altra volta che rimasero bloccati nel deserto: «Che ne sapevamo noi? Con il caldo le gomme della 500 scoppiarono, restammo bloccati. A sera, mi sentii anche male. Passò un'auto con dei ragazzotti, erano di quelli "barbuti" che si vedono ancora oggi... Ci hanno soccorsi, ci hanno portati all'spedale lasciando qualcuno a guardia del 500 che il giorno dopo è stata portata a Kabul».
Sono episodi e vicende che restano dentro, che vanno ad arricchire un bagaglio che ci si porta per tutta una vita e nel quale ancora decenni dopo, coi capelli più corti e imbiancati, si va a pescare.
Ha poi parlato di Tolkien, la lettura di tutta una vita. Perché si era alla ricerca di una spiritualità che in Oriente «non potevamo trovare: amo il Tibet, per esempio, ma le nostre radici non stavano là». E allora si leggevano i testi di tutte le religioni, «i più noiosi erano quelli monoteisti». Eppure le radici stavano qui «ma c'era l'esigenza di fuggire in una terra oltre e in Tolkien abbiamo trovato le radici, abbiamo trovato quella terra in cui si combatteva contro il male e si vinceva e poi il male ritornava e si combatteva ancora e così all'infinito ed è una metafora della vita. Non c'è una spiegazione logica, è un sentire». Poi, vero, «ci sono i tolkeniani di prima e i tolkeniani di dopo. Adesso, povero professor Tolkien, faranno anche una saga televisiva e chissà che ne verrà fuori. Io vorrei fare qualcosa per i tolkeniani di prima e per quelli di dopo, chissà se sarà possibile....».
Certo è che Tolkien è stato l'ispiratore di gran parte della produzione artistica di Luisa Rota Sperti, «con tutte quelle foreste, quante foreste» nella quali perdersi dietro al "demone" al «bisogno di disegnare furiosamente e mi rendo conto che è una patologia».

Quella sorta di epistolario che è "Cara Paola" e che racchiude un decennio di quasi mezzo secolo fa diventa così una specie di sigillo a un'intera esistenza anche dopo che tutto è finito, «nel 1980, finito per me ma anche per tutti, io dovevo crescere un figlio e nell'underground non si poteva fare, ho provato anche nelle comuni ma non facevano per me». Il racconto diventa quello di un'artista che è rimasta sempre fedele a se stessa nonostante le dicessero che i suoi lavori erano fuori dal tempo e quindi improponibili. Però, avanti: quadri e libri illustrati, storie di alpinismo, giochi per bambini, tanti incontri «ma mai che mi sia venuto in mente di approfittare di qualcuno o di adularlo per ottenere qualcosa». Pertanto, ha un valore tutto particolare l'attestato di stima nei confronti di uno dei galleristi lecchesi più conosciuti, quell'Oreste Bellinzona che avrà anche un caratteraccio «ma ti dice le cose come stanno».
A chiudere il libro, c'è una postfazione di padre Angelo Cupini, il fondatore della Comunità di via Gaggio e poi dell'attuale Casa sul Pozzo a Chiuso e con il quale Luisa Rota Sperti ha collaborato in più di un'iniziativa. «Una sera dei primi anni 70 - ricorda don Angelo - ho dato retta a un giovane "fuori dalla norma" che mi chiedeva di andare a incontrare un altro giovane, del sud, rientrato da un viaggio in nord Europa, e fuori di testa (suonava un violino che non aveva) alla stazione di Lecco. Sono andato. Non siamo riusciti a comunicarci nulla. Abbiamo solo organizzato un piccolo aiuto in coperte e sacco a pelo e del cibo. Sono tornato a casa con l'impressione che qualcosa di grosso era avvenuto nella mia vita».
D.C.
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