In viaggio a tempo indeterminato/201: emozioni contrastanti in Bosnia

Ore 07:00
“Allāhu Akbar, Allāhu Akbar”.
Il canto del muezzin riempie il van e mi distoglie dai miei sogni.
Nel dormiveglia mi lascio coccolare da quella melodia, quasi fosse una ninna nanna cantata per risvegliarmi dolcemente.
Abbiamo attraversato il confine e siamo entrati in Bosnia. Pochi chilometri, una linea immaginaria e tutto un altro mondo ad aspettarci.
Le mattine qui iniziano con un canto e il suono delle campane mi sembra quasi un lontano ricordo.



Ore 08:00
Apriamo il portellone del minivan e la luce di un sole tenue mi illumina il viso.
Fa freddo, l’aria sembra piena d’acqua ma profuma di nuovo e di fresco.
Ci incamminiamo verso un piccolo caffè. I tavoli fuori si riempiono del vociare delle persone.
Apriamo la porta e il caldo umido misto all’odore di fumo mi risveglia dal torpore. Qui si può fumare anche all’interno, come fare un salto agli anni ‘90 quando ero bambina e si poteva fumare anche sui treni.
“Bosanska kafa” leggiamo sul menù. Ne ordiniamo due e dopo pochi minuti compaiono davanti a noi due vassoietti color rame, appoggiata una piccola tazzina di ceramica bianca, una zolletta di zucchero e la džezva, un pentolino con il manico dorato.
Siamo a pochi chilometri da casa, meno di mille, ma davanti a quel caffè mi sento lontana, come se invece di guidare, negli ultimi giorni fossimo volati a Oriente.



Ore 09:00
Il caffè ha funzionato e con la carica giusta ci mettiamo in viaggio.
Siamo in una zona delicata del Paese. Dietro quei monti verdi e imponenti c’è la Croazia, l’Europa inizia da lì per chi viene da Est.
La strada si arrampica sinuosa seguendo il corso del fiume. Il sole sta salendo lentamente in cielo ma l’aria è ancora frizzante.
Stiamo andando a vedere un parco nazionale pieno di cascate, grotte e pozze naturali.
“I want to break free
I want to break free
I want to break free from your lies...” esce a tutto volume dalla cassa bluetooth del van.
“Attento Pa’, ci sono delle persone che camminano a lato strada”
Lui rallenta, io incrocio lo sguardo con un ragazzo, avrà vent’anni.
Ha uno sguardo profondo ma sembra spento.
Gli sorrido, non so che altro fare.
Poi abbasso lo sguardo e noto che ai piedi indossa solo dei calzini logori.
Davanti a lui altre dieci persone, tutte senza scarpe, in fila, con indosso felpe e maglie leggere.
“The game” lo chiamano. Centinaia di persone, provenienti da zone difficili del mondo come Afghanistan, Pakistan e Iraq, ogni giorno cercano di attraversare il confine tra Bosnia e Croazia. Sono in viaggio da anni e sognano l’Europa, un luogo sicuro dove vivere, l’abbraccio dei loro cari che li hanno preceduti.
Quello che più spesso trovano, però, sono torture e violenze alla frontiera, poliziotti che tolgono loro tutto, soldi, cellulari e scarpe.
Abbasso la musica, resto in silenzio.
E davanti a quelle persone che camminano a lato strada, l’unica cosa che riesco a pensare è che potrei esserci io lì ora, scalza a rincorrere un futuro degno di essere vissuto.
Quanto deve essere orribile quello da cui fuggono se sono disposti a qualunque tortura pur di entrare in Europa?

VIDEO


Ore 12:00
La mattina è stata intensa e piena di emozioni contrastanti che solo la natura con la sua bellezza ha saputo placare.
Lo scrosciare incessante delle cascate ha cercato invano di coprire il pensiero che l’uomo sia l’unico essere vivente a costruire confini, a fare guerre ai suoi fratelli, a limitare le libertà in nome di diritti riservati a pochi.
“Guarda che belli quei signori che stanno mangiando l’uva seduti al tavolo” mi dice Paolo.
Ci avviciniamo, “Ciao” li salutiamo.
Ci sorridono e ci parlano ma non capiamo nulla.
Poi il signore si alza, prende il secchio pieno d’uva e ce ne offre un grappolo.
Metto in bocca il primo chicco ed è dolcissimo.
Mi ricorda immediatamente quando ero bambina, mio nonno raccoglieva la stessa uva dalla vite nell’orto.
Io mi sporcavo le mani di viola e mi gustavo tutta quella dolcezza.
Mio nonno aveva visto la guerra, le bombe cadere su Dalmine.
E penso che se fosse qui, lui forse ora lo capirebbe davvero lo sguardo spento di quel ragazzo che camminava senza scarpe lungo la strada.
Perché anche lui è stato “quel ragazzo” e domani chissà, potremmo essere anche noi.
Angela e Paolo
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