SCAFFALE LECCHESE/66: il viaggio Milano-Damasco dell'abate Stoppani ''riletto'' un secolo più tardi
La mattina del 21 agosto 1874, dalla stazione centrale di Milano, partì una «carovana composta di nove preti e d'un giovane patrizio, tutti Milanesi» diretta ai "Luoghi Santi". «L'avvenimento per Milano, se non era grande, era nuovo». E doveva certamente avere avuto risonanza non indifferente se anche l'allora capo del governo Marco Minghetti si sentì in obbligo di presentarsi alla stazione di Piacenza per salutare la comitiva di passaggio.
Da parte sua, il professor Vercellin chiosa molti dei passi dello Stoppani. A partire proprio da quelli sulla donna. E poi, sulla poligamia, sulla superiorità della civiltà occidentale e sui rapporti tra Occidente e Oriente. Non per «sbertucciare il peraltro simpatico Stoppani» bensì «cercando di far prendere coscienza di quanto in realtà si debba andar cauti quando si esalta la "civiltà", soprattutto poi se la si considera figlia di questa o di quella cultura, di questa o di quella religione, e non già di tutta l'umanità nel suo complesso».
Ancora oggi, quasi travolti dalle informazioni ma con un Vicino Oriente che rimane più favoleggiato che conosciuto, il viaggiatore che s'avventuri da quelle parti riporta sensazioni profonde. Figuriamoci come dovesse apparire quel mondo così differente a un milanese della seconda metà del XIX secolo che, per quanto colto, cresceva dentro orizzonti decisamente più ristretti.
La partenza, come detto, è dalla stazione centrale di Milano: la comitiva, con qualche breve sosta intermedia, scende in treno fino a Brindisi dove si imbarca per la Grecia per poi proseguire nelle terre ottomane: Smirne, Istanbul, Beirut, Damasco e appunto i Luoghi Santi «per verificare le località, i monumenti e tutte le venerande memorie che si legano a Cristo e agli Apostoli», infine Alessandria e Il Cairo.
Senza trascurare consigli contro il mal di mare o indicazioni gastronomiche condite da una buona dose di scetticismo. Come a proposito di certa gomma che si mastica in Turchia ed è «delizia degli Arem» e che da noi «sciolta nell'alcool si adopera semplicemente come vernice»: «Io provai a gustarne, ma non trovai che fosse una porcheria migliore della resina di pino». Per non parlare naturalmente del caffè alla turca «cioè qualcosa che si mangia e si beve» per il quale «da noi sgriderebbero il servo o la serve che ce l'avessero preparato a quel modo». Però, pare che dei dolcetti levantini fosse ghiotto.
E se è un incanto la scoperta di Istanbul, «la città, la grande città, che sposa, come un anello nuziale, i due continenti, l'Asia e l'Europa, l'Oriente e l'Occidente, e congiunge due ere, due civiltà, due storie del mondo» che «bisogna esser di stoppa per non subirne l'incanto» e che «quanto a impressioni gradevoli e poetiche, la vince su tutti i paesi del mondo», è altrettanto vero che se «levate via le case, levate via quanto è opera dell'uomo; l'incantato Bosforo non è altro che un canale di mare, una gora uniforme che scorre tra due monotoni altipiani». E allora «cento volte più belli i nostri laghi e i nostri monti dell'Alta Italia e cento volte più bello del Bosforo il Golfo di Napoli» e in fondo il Bosforo «può molto bene paragonarsi al lago di Como», l'uno e l'altro «presentano due generi di bellezza che non sono fra loro confrontabili».
E naturalmente gli inconvenienti: il doganiere un po' troppo zelante da ammorbidire con una mancia; il trovarsi per la prima volta, di notte, in un quartiere o in un bazar turco con tutti quei «turchi, o vestiti alla turca, che fumano o stan ritti a guardare come statue di legno»; la guida improvvisata che si offre di accompagnarti e che naturalmente ne approfitta («Turco marrano, ringrazia Dio d'aver trovato dei cristiani e preti che si accontentarono di ridere e di pagarti la mancia»); le preoccupazioni per il compagno di viaggio che si avventura da solo nei meandri della città tra negozi e case che naturalmente sono autentiche topaie.
Finché gli inconvenienti diventano «catastrofe», quando la comitiva lascia Damasco: ci si sta spostando a cavallo, lo Stoppani è in groppa a una bestia che «aveva il maledetto vizio di voler muoversi soltanto quando doveva stare fermo»; accostando un altro cavaliere, costui «mosse il suo cavallo coll'intenzione di farmi passare (...) La permalosa bestia, trovandosi muso a muso colla mia, cominciò a inquietarsi, a saltare, a menar calci. (...) Vidi lampeggiare in aria due ferri, e sentii la mia gamba destra frantumarsi come un vaso di porcellana». In quella campagna in mezzo al nulla, si palesa il miracolo nei panni di un contadino che sta fumando tranquillamente il suo narghilè, ma che sa aggiustare le ossa. A lui si affida il nostro Stoppani, prima di essere riportato in lettiga a Damasco. E 42 giorni dopo tornare a Milano.
Del gruppo faceva parte anche l'abate Antonio Stoppani che con un certo ritardo avrebbe poi dato alle stampe il diario di quel viaggio non proprio fortunato. Per via del funesto epilogo al Cairo, dove il 16 ottobre uno dei viaggiatori - don Natale Ceroli «uomo per ogni riguardo distintissimo ed intimo amico di Alessandro Manzoni» - «fu ucciso dal morbo che rende fatali i sempre estivi calori di quelle contrade», mentre gli altri compagni di viaggio «assaliti dalle medesime febbri, o più o meno da altri malanni, ritornavano non più in lieta brigata, ma tristi e alla spicciolata alla patria». Il nostro Stoppani, invece, già da un mese era stato costretto ad abbandonare la compagnia: il calcio di un cavallo gli aveva fratturato la gamba destra. Fermando a Damasco viaggio e diario. Niente luoghi santi, dunque, ma quaranta giorni da infermo ospite del console italiano prima del ritorno a Milano.
Soltanto nel 1888, però, lo Stoppani si decise a dare alle stampe, con l'editore Cogliati, quel «libricino di note, [di] rapide osservazioni; impressioni a scatto; lampi di fantasia; piccoli aneddoti e annotazioni a vanvera» raccolte sotto il titolo "Da Milano a Damasco. Ricordo di una carovana milanese del 1874". Che fu libro di successo, tanto che alla prima edizione ne seguirono altre nel 1896 e nel 1907. Per poi essere sostanzialmente dimenticato. Del 1989 è un'edizione ridotta, "Da Milano a Damasco. 10 milanesi in Medio Oriente. Diario di viaggio": pubblicato dalle Messaggerie Pontremolesi (in realtà un editore milanese di cui non sappiamo di più) è privo di 14 capitoli ritenuti «di minor interesse» dai curatori.Quello dello Stoppani è il diario di un uomo occidentale dell'Ottocento che era sì uno scienziato, ma era anche un prete cattolico per quanto dell'ala meno conservatrice del clero. Epperò, lo sguardo è quello. Così che il diario potrebbe anche assurgere a specchio di un'epoca, a esempio di come si guardasse all'Oriente che era poi un mitizzato Vicino Oriente. Come suggerisce Giorgio Vercellin (1950-2007), docente universitario di discipline orientali a Venezia e che a tal diario ha dedicato un accurato e interessante studio, "L'abate Antonio Stoppani sulla via di Damasco", pubblicato postumo nel 2015 dall'Istituto per l'Oriente "C. A. Nallino" di Roma.
Il racconto del geologo e abate mischia la descrizione degli aspetti più prosaici del viaggio a quelli turistici (magari con un po' d'approssimazione, visti i ricorrenti Vattelapesca), le digressioni da scienziato alle considerazioni sul mondo "altro". Che sono poi, queste ultime, quelle su cui si concentra l'attenzione di Vercellin e che sarebbero il cuore del diario. Considerato che lo stesso Stoppani, nell'introduzione, si picca di voler offrire un'esposizione la più genuina possibile, contrariamente a quanto fatto da altri autori (a cominciare da Edmondo De Amicis il cui "reportage" su Costantinopoli uscì tra 1877 e 1878), nei cui «libri c'è, bisogna dirlo, se non del falso, certamente parecchio d'esagerato» anche perché «codesti signori m'avevano tutti l'aria d'aver studiato molto, anzi troppo il loro viaggio; l'avevano studiato a memoria prima di accingervisi, a rischio di portarsi in Oriente un certo loro ideale d'Oriente già bell'e fatto entro la testa, colle relative impressioni, a risparmio d'osservazione e di studio dell'Oriente reale, che sarebbero andati a vedere».
Il racconto del geologo e abate mischia la descrizione degli aspetti più prosaici del viaggio a quelli turistici (magari con un po' d'approssimazione, visti i ricorrenti Vattelapesca), le digressioni da scienziato alle considerazioni sul mondo "altro". Che sono poi, queste ultime, quelle su cui si concentra l'attenzione di Vercellin e che sarebbero il cuore del diario. Considerato che lo stesso Stoppani, nell'introduzione, si picca di voler offrire un'esposizione la più genuina possibile, contrariamente a quanto fatto da altri autori (a cominciare da Edmondo De Amicis il cui "reportage" su Costantinopoli uscì tra 1877 e 1878), nei cui «libri c'è, bisogna dirlo, se non del falso, certamente parecchio d'esagerato» anche perché «codesti signori m'avevano tutti l'aria d'aver studiato molto, anzi troppo il loro viaggio; l'avevano studiato a memoria prima di accingervisi, a rischio di portarsi in Oriente un certo loro ideale d'Oriente già bell'e fatto entro la testa, colle relative impressioni, a risparmio d'osservazione e di studio dell'Oriente reale, che sarebbero andati a vedere».
Sennonché, proprio Vercellin ritorce tali accuse contro lo stesso Stoppani, il quale «predica bene ma razzola male, anzi malissimo» e del quale non sarebbero trascurabili la responsabilità e l'importanza «nell'ambito dell'orientalismo» e «nella diffusione della "mostruosa miscela di vero e falso" che da secoli avviluppa le conoscenze occidentali sull'Oriente sopra tutto musulmano». E quindi «lo Stoppani come paradigma di un modo tutt'altro che tramontato di rapportarsi al diverso». Perché «un capolavoro di "mostruosità" come il "Da Milano a Damasco" (...) offre un'occasione eccezionalmente gustosa di mettere a nudo una serie di luoghi comuni di ieri e di oggi sull'Islam e sui popoli e sulle culture del Vicino Oriente» essendo «una paradigmatica, esemplare, cristallina invenzione dell'Oriente, nel duplice senso di questa parola, che vuol dire "rinvenimento, "ritrovamento" quanto "creazione della fantasia, dell'immaginazione"».
Del resto, messo piede da poco in Turchia, lo Stoppani già si sente «nascere e crescere sempre più l'antipatia e la nausea contro quella sporca razza che infesta le coste dell'Egeo, ed ha invaso, con la barbarie più ributtante e colla più assurda superstizione, le sedi dell'antica civiltà che furono anche le sedi gloriosissime del cristianesimo primitivo. Ci fu un momento che uscii a dire (...) "Quand'è che manderete al diavolo tutti codesti Turchi?"». Ma il nostro ne ha anche per il cristianesimo in Oriente, i cui missionari e sacerdoti sarebbero troppo accomodanti nei confronti del mondo circostante: soprattutto, troppo poco farebbero per la conversione degli infedeli. Anche perché «tutto procede sotto la doppia influenza immediata della politica europea e della Propaganda di Roma e dove i Missionari partecipano troppo facilmente alle lotte religiose, alle passioni politiche, o si credono di dover fare gli interessi della madre patria o dell'ordine a cui appartengono».
Molto spazio è dedicato alla condizione della donna. Riassumere in poche righe le lunghe riflessioni dell'abate è impossibile. C'è naturalmente una profonda impressione, E c'è anche un'ambivalenza, più da laico che da religioso, a proposito del velo spesso «messo allo scopo, non di coprire il viso ma di scoprirlo, anzi di attirar maggiormente gli occhi a guardarlo. Ho infatti osservato che la piccolezza e la trasparenza del velo erano, come direbbero i matematici, in ragione diretta della gioventù e della bellezza delle velate». Considerata anche la civetteria di certune che si affacciavano alle finestre fingendo di non esser viste... Comunque, fa un certo effetto «la donna in quel suo stato di abjezione, di pura animalità, di semplice cosa che ci si rivela in tutto; dal viso, benché sempre velato, dall'incesso sgraziato, dalle movenze goffe e impacciate, dal silenzio stupido, dall'abietta sensualità che traspare da quella massa informe di flaccide carni e di vesti sgualcite» non certo in grado di suscitare nemmeno le «passioni più istintive» Fa un certo effetto «a noi, avvezzi a vedere nel sesso femminino la vera e propria metà del genere umano, sostanzialmente pari di diritto e dignità, a vedere nella donna la sorella, la sposa, la mamma e la nonna....». Eccole qua: la sorella, la mamma, la sposa.... Ci sarebbe di che discuterne, ci limitiamo alla sottolineatura. Anche se non stonerebbe una nota a margine a proposito di pari diritto e dignità, nonché più generalmente della condizione femminile nell'Ottocento europeo e nella storia della Chiesa
Da parte sua, il professor Vercellin chiosa molti dei passi dello Stoppani. A partire proprio da quelli sulla donna. E poi, sulla poligamia, sulla superiorità della civiltà occidentale e sui rapporti tra Occidente e Oriente. Non per «sbertucciare il peraltro simpatico Stoppani» bensì «cercando di far prendere coscienza di quanto in realtà si debba andar cauti quando si esalta la "civiltà", soprattutto poi se la si considera figlia di questa o di quella cultura, di questa o di quella religione, e non già di tutta l'umanità nel suo complesso».
Ancora oggi, quasi travolti dalle informazioni ma con un Vicino Oriente che rimane più favoleggiato che conosciuto, il viaggiatore che s'avventuri da quelle parti riporta sensazioni profonde. Figuriamoci come dovesse apparire quel mondo così differente a un milanese della seconda metà del XIX secolo che, per quanto colto, cresceva dentro orizzonti decisamente più ristretti.
Quando scrive di vedere «in tutto e dappertutto un'impassibilità alla turca, in cui un popolo, una nazione può vivere secoli e secoli senza fare un passo né avanti né indietro» ben sintetizza il giudizio su una terra ritenuta quasi immobile, cristallizzata nell'eternità. Non è dunque considerazione razzista - osserva Vercellin - bensì «la certezza di aver a che fare con sopravvivenze del passato remoto». E infatti Stoppani svela il «maligno inghippo: se solo l'Oriente non fosse Oriente, se solo accettasse di diventare come noialtri».
Di là dalle considerazioni politiche e culturali, a noi piace seguire lo Stoppani anche nella quotidianità del viaggio. Fin dai preparativi. Scoprendo che in valigia, oltre al consueto corredo, al chinino contro la malaria, ci mette anche «pistole e revolvers colle rispettive munizioni» e «non so quante altre cose di non felice augurio, ma suggerite dalla prudenza».
La partenza, come detto, è dalla stazione centrale di Milano: la comitiva, con qualche breve sosta intermedia, scende in treno fino a Brindisi dove si imbarca per la Grecia per poi proseguire nelle terre ottomane: Smirne, Istanbul, Beirut, Damasco e appunto i Luoghi Santi «per verificare le località, i monumenti e tutte le venerande memorie che si legano a Cristo e agli Apostoli», infine Alessandria e Il Cairo.
Senza trascurare consigli contro il mal di mare o indicazioni gastronomiche condite da una buona dose di scetticismo. Come a proposito di certa gomma che si mastica in Turchia ed è «delizia degli Arem» e che da noi «sciolta nell'alcool si adopera semplicemente come vernice»: «Io provai a gustarne, ma non trovai che fosse una porcheria migliore della resina di pino». Per non parlare naturalmente del caffè alla turca «cioè qualcosa che si mangia e si beve» per il quale «da noi sgriderebbero il servo o la serve che ce l'avessero preparato a quel modo». Però, pare che dei dolcetti levantini fosse ghiotto.
E se è un incanto la scoperta di Istanbul, «la città, la grande città, che sposa, come un anello nuziale, i due continenti, l'Asia e l'Europa, l'Oriente e l'Occidente, e congiunge due ere, due civiltà, due storie del mondo» che «bisogna esser di stoppa per non subirne l'incanto» e che «quanto a impressioni gradevoli e poetiche, la vince su tutti i paesi del mondo», è altrettanto vero che se «levate via le case, levate via quanto è opera dell'uomo; l'incantato Bosforo non è altro che un canale di mare, una gora uniforme che scorre tra due monotoni altipiani». E allora «cento volte più belli i nostri laghi e i nostri monti dell'Alta Italia e cento volte più bello del Bosforo il Golfo di Napoli» e in fondo il Bosforo «può molto bene paragonarsi al lago di Como», l'uno e l'altro «presentano due generi di bellezza che non sono fra loro confrontabili».
E naturalmente gli inconvenienti: il doganiere un po' troppo zelante da ammorbidire con una mancia; il trovarsi per la prima volta, di notte, in un quartiere o in un bazar turco con tutti quei «turchi, o vestiti alla turca, che fumano o stan ritti a guardare come statue di legno»; la guida improvvisata che si offre di accompagnarti e che naturalmente ne approfitta («Turco marrano, ringrazia Dio d'aver trovato dei cristiani e preti che si accontentarono di ridere e di pagarti la mancia»); le preoccupazioni per il compagno di viaggio che si avventura da solo nei meandri della città tra negozi e case che naturalmente sono autentiche topaie.
Finché gli inconvenienti diventano «catastrofe», quando la comitiva lascia Damasco: ci si sta spostando a cavallo, lo Stoppani è in groppa a una bestia che «aveva il maledetto vizio di voler muoversi soltanto quando doveva stare fermo»; accostando un altro cavaliere, costui «mosse il suo cavallo coll'intenzione di farmi passare (...) La permalosa bestia, trovandosi muso a muso colla mia, cominciò a inquietarsi, a saltare, a menar calci. (...) Vidi lampeggiare in aria due ferri, e sentii la mia gamba destra frantumarsi come un vaso di porcellana». In quella campagna in mezzo al nulla, si palesa il miracolo nei panni di un contadino che sta fumando tranquillamente il suo narghilè, ma che sa aggiustare le ossa. A lui si affida il nostro Stoppani, prima di essere riportato in lettiga a Damasco. E 42 giorni dopo tornare a Milano.
Dario Cercek