SCAFFALE LECCHESE/64: da Bosisio a Milano, l'abate Parini sempre un po'... trascurato

Parini, quello della vergine cuccia. Già. Il fero giorno dell’aita aita è passo letterario tra i più conosciuti. L’autore, appunto l’abate Giuseppe Parini, deve a esso il merito di non essere del tutto dimenticato: al di fuori degli ambienti di studio, non si può dire che goda oggi di molta fortuna. Vago Eupili a parte, anche noialtri di queste parti non lo si frequenta con particolare assiduità, nonostante sia annoverato tra le maggiori glorie locali.



Proprio come quei ragazzi di Bosisio – il paese brianzolo in cui il poeta nacque – di cui raccontava Fausto Gheller, docente e preside, in una pubblicazione del 2004: interrogati se conoscessero il Parini, «"certamente" risposero, ma dalle successive parole emerse che si riferivano al monumento che avevano da sempre visto in piazza, attorno al quale giocavano e sul quale avevano anche osato arrampicarsi, qualche volta».



A testimoniare che, di per sé, un monumento non è sufficiente a tramandare una memoria concreta. Nonostante le storie della nostra letteratura al Parini dedichino ampio spazio, così riconoscendo che non fu un minore. Anzi: nel suo secolo, un protagonista. Scrisse in versi, come s’usava. Con tutti quegli orpelli classicheggianti che il nostro gusto d’oggi trova un po’ stucchevoli. Suo capolavoro è considerato “Il giorno”, poema nel quale si racconta la giornata di un giovane aristocratico, una satira contro la vita quotidiana della nobiltà fatta di molte apparenze e poca sostanza. Si tratta di un’opera su cui la critica ancora discute: se il Parini abbia voluto fustigare la nobiltà per richiamarla ai propri doveri storici ormai da troppo tempo trascurati; o, invece, se già si trattasse di un de profundis.



Scrisse il suo primo biografo Francesco Reina (nato a Malgrate nel 1770): «Da molt’anni Parini disprezzava le maniere de’ Grandi; e la vita, che conduceva nelle case loro, gliene aveva rendute ancor più odiose. La colta spiritosissima Duchessa Serbelloni, Ottoboni, della cui conversazione usava egli famigliarmente, aveva numerosa brigata di costoro (…); ma toltine pochi il convegno era pieno di scioperati ed ignoranti. Quivi stuzzicavasi sovente la splendida bile di Parini, e gli era forza di sofferire que’ vizj e difetti, che odiava cotanto. Parvegli la vita loro un eccellente soggetto di satira e vi si provò.»



Non mancano però i detrattori secondo cui il Parini nella realtà mendicava considerazione e ospitalità da parte dei ceti che fustigava con la penna. Pure Alessandro Manzoni rilevava come «con tutta la sua democrazia, col voler cantare “il villan sollecito” e le “belle villane”» alla fin fine «le belle da lui celebrate erano sempre contesse e marchese, la Castiglioni, la Castelbarco». Oltretutto, si racconta che «il Parini faceva proprio il comodo suo presso i suoi ospiti principeschi ed in Bolvedro si ricorda ancora come spesso lasciasse i loro convegni per far la corte alla bellissima Caterina Azzalini di Doro, ivi locandiera, moglie di Pietro Magatti».



Che, nonostante prete, cedesse un po’ troppo ai richiami della bellezza femminile è fuori discussione, anche se non dette mai scandalo, come osservato da monsignor Carlo Marcora. Certo è che non fu uomo di sacrestie ma molto mondano. Pure questo materia di polemica tra chi depone per un’autentica vocazione religiosa e chi invece la considera una solenne impostura volta a garantirsi l’eredità della zia. Nella stessa biografia del Reina si legge che «nemico egli della superstizione dell’impostura fu creduto ateo e nol fu mai».



In fin dei conti, l’opera sua è molto secolare. Linguaggio compreso (un epigramma, tanto per intenderci: «All’abate Recalcati,/disonor de’ preti e frati,/solennissimo maiale,/madrigale»).
Detto ciò, non si vuole esorbitare. L’intento, qui, è più modesto: soffermarci sulla memoria e sui legami con il paese in cui nacque nel 1729: forse il pomeriggio del 22 maggio, nella casa oggi museo, con il battesimo avvenuto la mattina del 23 nella chiesa di Sant’Anna. A Bosisio, restò fino ai dieci anni di età, quando si trasferì a Milano per continuare gli studi, ospite di quella famosa zia che appunto fu disposta ad accollarsi la cura del fanciullo purché si facesse prete.



A Milano, il Parini restò. Senza recidere i legami con le proprie origini difese in una celebre polemica sul dialetto milanese con il padre barnabita Paolo Onofrio Branda che gli rinfacciava umili origini brianzole. Del resto, il Parini - «che non ebbe mai a muoversi, neppure per un viaggio di lavoro o una semplice trasferta di diporto che lo conducesse oltre i prediletti confini del Ducato milanese» scrive Giuseppe Nicoletti nella biografia edita da Salerno nel 2015 – tornava per soggiorno e svago nella sua terra, ospite a Palazzo Agudio di Malgrate o a Villa Appiani di Bosisio, trattenendosi non poco. Sempre pronto a difendere i suoi compaesani, anche contro le filippiche del parroco di Pusiano al quale dedicò un gustoso sonetto brianzolo, tacciandolo d’ubriaco e invitandolo a non ridere troppo che, se per caso dovesse tornare a Bosisio «Podii specciav in su quel vost zucon/Ona rosciada, ma ben maladetta/De nos bus, de pomm marsc e de fuston.». E cioè che si aspettasse pure, sulla testa. una bella scarica di noci guaste, mele marce e torsoli di verza.



Del resto, aveva esordito con alcune poesie pubblicate con lo pseudonimo di Ripano Eupilino: l’anagramma del cognome (Parino in originer, poi trasformato) e un richiamo al lago, quel “vago Eupili” che comparirà in altre odi. E certo appartengono al ricordo dell infanzia quei contadini e quella vita nei campi descritta molte volte, pure nel “Giorno” e nelle odi “La vita rustica” e “La salubrità dell’aria”. Quest’ultima una lode all’aria brianzola rispetto a quella malsana di Milano (già allora, ma per altri motivi rispetto a oggi).



C’è un libro fondamentale per conoscere più da vicino l’illustre bosisiese. Ed è l’Albo Pariniano di Giuseppe Fumagalli, uno straordinario bibliografo toscano il cui capolavoro fu un repertorio di tutte le località italiane che ebbero uno stampatore, ma che fu anche direttore della Biblioteca nazionale di Brera. L’Albo Pariniano fu pubblicato nel 1899 per i tipi delle Officine dell’Istituto italiano d’arti di grafiche di Bergamo (già allora un marchio prestigioso) in occasione del primo centenario della morte del poeta. Se ne ebbe una ristampa anastatica nel 1979 – ricorreva il 250° della nascita - a cura dell’Amministrazione provinciale di Como con l’introduzione di Carlo Marcora dalla quale abbiamo già attinto.
Si tratta di un raffinato racconto iconografico che già si avvaleva di fotografie scattate appositamente (Carlo Vismara, il fotografo)  Ideato come un catalogo di immagini, attraverso dettagliate didascalie vi si racconta la vita di Giuseppe Parini sotto diversi punti di vista.



Si comincia con una galleria di ritratti: se ne censiscono undici, «il più importante» dei quali sarebbe quello dipinto dal tirolese Martino Knoller «poiché eseguito dal vero da valente artista contemporaneo del Parini e suo familiare.» Ci sono poi gli scritti, le testimonianze, il capitolo dedicato alle onoranze coi monumenti (quelli pubblici e quelli privati), le lapidi, le medaglie. E c’è naturalmente la vita del Parini con i luoghi, le persone, i documenti biografici come i registri scolastici e l’atto di morte; ci sono le foto del lago di Pusiano «che a’ tempi di Plinio aveva nome di Eupili che così di frequente ricorre nei versi del Parini» e nel quale «nel 1820 per la prima volta fu visto un minuscolo battello a vapore»; ci sono le foto del paese di Bosisio, della casa natale e della stanza «dove secondo la tradizione dei presenti abitatori, sarebbe nato Giuseppe Parini. Ma la tradizione non può avere gran peso, poiché poco prima del 1847, cioè prima delle onoranze che per iniziativa di alcuni patrioti milanesi si resero al sommo poeta, era quasi perduta in Bosisio ogni memoria del più grande dei suoi figli, e non si conosceva con esattezza nemmeno quale fosse la casa dov’egli era nato. I mobili che stanno nella stanzetta sono poi affatto moderni». E comunque c’è pure la foto dei discendenti del Parini «in linea collaterale, già s’intende; cioè quasi tutti Appiani, derivati da Laura Elisabetta Parini e mar[itata] Appiani e da Carlo suo figlio. Nota che questa famiglia Appiani nulla hanno a che fare con la nobile famiglia del pittore».



Ci sono le ville dei Serbelloni compresa quella di Bellagio «oggi ridotta ad albergo» e di Bellagio ci sono le case (una presunta e una probabile) che il Parini avrebbe abitato. E, ancora, la schiera dei personaggi che, in una maniera o nell’altra, hanno avuto a che fare con il nostro abate o che di lui si sono occupati. C’è, infine, il Palazzo di Brera dove il Parini insegnava e dal 1774 alloggiava in «quattro piccole stanze a terreno, in fila l’una all’altra, fiancheggiate da un portico e prospiciente a mezzogiorno con le finestre sull’Orto botanico»: non manca neppure la foto della stanza in cui spirò il 15 agosto 1799.
E’ il Reina a raccontarci gli ultimi momenti di vita del poeta: «alle due dopo il meriggio ritornò egli alla stanza; e giunto dicontro a una finestra vide una luce inusitata, e disse ridendo al servidore , che non aveva veduto mai sì bene dall’occhio risanato; sentissi una nuova forza, per cui passeggiò dell’una all’altra stanza, senza esservi tratto da altrui come di solito accadeva. Dopo varie faccende sdrajossi sul letto, torse alquanto la bocca, né parlò più: momenti dopo placido spirò».
La figura di Francesco Reina è particolarmente importante per la memoria postuma del Parini. Alla morte del poeta, infatti, i parenti misero all’asta le sue opere che si dispersero in mille rivoli. Reina tentò di recuperarne quante più possibili per poi pubblicarle tra il 1801 e il 1804, precedute appunto da una “Vita di Giuseppe Parini” scritta di suo pugno che ancora oggi è lettura irrinunciabile per gli studiosi L’abbiamo nelle mani nell’edizione del 1999 voluta dall’Associazione culturale Giuseppe Parini di Bosisio con postfazione di Paolo Bartesaghi.



Era, il 1999, l’anno bicentenario della morte che vide lo svolgersi, nel paese brianzolo, di una serie di celebrazioni che il Comune ha voluto riassumere in una pubblicazione stampata nel 2004 da Bellavite a cura di Gioconda Binda e nel quale si indica un possibile itinerario pariniano (l’antica parrocchiale, il monumento nella piazza davanti al Comune e la lapide di piazza della Vittoria. il battistero con il fonte restaurato, la casa natale, la Villa Appiani). Nel fascicolo si ipotizza anche una traduzione del “Mattino” per i bambini: è l’idea appunto di Fausto Gheller per avvicinare i più giovani alla lettura del Parini, considerato quanto un ragazzo: sì, aveva tentato di leggere il Parini ma non ne capiva la “calligrafia”.
Perché, contro la smemoratezza, vanno sensibilizzati i giovani: così scriveva nel 1968 l’allora sindaco bosisiese Lodovico Melzi d’Eril presentando una “Guida alla Bosisio pariniana” che il Comune commissionò a  Ferdinando Cesare Farra, docente milanese e studioso di letteratura lombarda, «con il preciso intento di servire alla chiarezza storica, ma soprattutto di offrire alle giovani generazioni delle nostre terre briantee, motivi culturali, che potranno costituire un sano patrimonio anche per le future generazioni.»



Tra le altre cose, Farra ci racconta del lento recupero di quella memoria a partire proprio da quella celebrazione del 1847 di cui ci parlava il Fumagalli quando, già era scomparso il ricordo della casa. Proprio due anni prima – ci racconta infatti Farra -  Pier Ambrogio Curti, ospite di Villa Banfi, aveva fatto ricerche della casa natale: racconta d’aver chiesto ad una donna anziana del borgo se mai avesse conosciuto il Parini. Ed ecco la risposta: “Sì, sì; era uno stregone dei tempi antichi!”». In quel 1847, la casa ebbe comunque la sua bella lapide celebrativa.



Le condizioni dell’edificio andarono comunque peggiorando con il passare del tempo finché nel novembre 1930 «il prefetto decretava che “nell’interesse nazionale” era disposta l’immediata requisizione della casa, si consnetiva ai proprietari il tempo strettamente necessario e non superiore a un mese dalla data di notificazione, per l’asportazione delle masserizie in altra sede. A costoro veniva offerto, a titolo di prezzo di vendita, la somma di L. 12.900.». A fine anno la casa divenne statale, ma ci vollero altri decenni di pressioni amministrative e battaglia politica , con di mezzo anche una guerra mondiale, perché si potesse rimettere in sesto lo stabile: «Si giunge così alla data del 29 giugno 1961 e ai festeggiamenti per la riapertura della restraurata casa».



Per non parlare della tomba. Che non c’è. L’abate venne infatti sepolto nel cimitero della Mojazza dopo «privatissimi funerali – ci dice il Reina - per lutto de’ tempi e per sua volontà così espressa: voglio ordino comando, che le spese funebri mi siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all’uso, che si costuma per il più infimo dei cittadini».
Quel cimitero, vicino a Porta Comasina, non c’è più: fu chiuso nel 1895. Si racconta che la salma del poeta sia stata smarrita durante il trasferimento. Ma pure che al momento dell’apertura della tomba non sarebbe stato trovato alcun resto. Nel cortile di un grande caseggiato popolare, rimane però la lapide dettata nel 1799 da Calimero Cattaneo. Nel 1999, monsignor Marcora suggeriva vanamente una ricerca sotto quel cortile: «Non dovrebbe essere difficile riconoscere la salma dato che il Parini era alto da m. 1,80 a m. 1.85 ed aveva il piede destro atteggiato a forma equina nel metatarso». Sui siti ancora si favoleggia.



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Dario Cercek
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