Lecco: con 'Il tempo di una canzone', Franco Fabbri riporta sui palchi degli anni Settanta

Si dice “popular music”: intraducibile, perché in Italiano la musica popolare è altro, è il folk. Mentre il termine anglosassone designa una “terza via”: quella musica che si inserisce tra la “classica” o la “colta” dei grandi compositori e quella a trasmissione orale delle tradizioni contadine. Ed è una musica nata agli inizi dell’Ottocento e che a poco a poco si è estesa fino a diventare quella più ascoltata.

Dunque, “saggi sulla popular music”: sono quelli contenuti nel libro “Il tempo di una canzone” di Franco Fabbri, esponente di punta di quegli “Stormy Six”, storico gruppo che visse la sua stagione d’oro tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, ma anche musicologo e docente universitario. Libro edito da Jaka Book e presentato nel secondo della serie di appuntamenti per il festival “Re Nudi” promosso dal Crams in occasione dei cinquant’anni dal festival pop di Montalbano che fu il primo autentico raduno musicale e giovanile in Italia.

Intervistato dal giornalista Vittorio Colombo, al circolo Promessi Sposi di Germanedo, Fabbri non ha parlato soltanto degli studi contenuti nel libro ma ha consegnato alla piccola platea anche una serie di ricordi personali a cominciare dalla curiosa e decisamente incredibile vicenda del nome del gruppo: Stormy Six, appunto. “Sesto Stormo” o “Tempesta Sei”, ha chiesto Colombo. E si tratta in realtà di una domanda senza risposta, con l’origine di un nome già misteriosa pochi anni dopo il suo conio: «Tra 1965 e 1966 – ha spiegato Fabbri – gli Stormy Six erano un gruppo di studenti milanesi che facevano cover di gruppi inglesi. Già dopo poco tempo, nessuno si ricordava più chi avesse inventato il nome. In quei tempi, i gruppi che nascevano si davano nomi inglesi: storm, hurricane, tornado, andavano alla grande. Fin dal 1970, il gruppo ha continuato a cambiare come componenti e come ricerca, ma non avevamo il coraggio di cambiare il nome come hanno fatto altri (si pensi solo ai “Quelli” diventati Pfm). Ci avevamo provato con Macchina Maccheronica ma non ha funzionato e siamo rimasti Stormy Six , anche se i francesi ci chiedevano perché continuassimo a usare quel nome da vecchia ferraglia».

Franco Fabbri

A grandi linee, Fabbri ha ricostruito le vicende del gruppo strettamente intrecciate con le vicende degli anni Settanta italiani: i movimenti, il clima di strategia della tensione, i festival dell’Unità, i mutamenti di gusto, costume, cultura, la contestazione. Un momento storico in cui si inserisce anche l’esperienza della cooperativa “L’orchestra”, una sorta «di sindacato dei musicisti militanti contro lo sfruttamento da parte dei compagni»: perché di fronte ad alcuni artisti con tanto di manager non si batteva ciglio e si pagava qualsiasi cachet; altri erano costretti a esibirsi in situazioni oggi impensabili e con compensi all’osso. «Quando il gruppo degli Yu Kung – ha ricordato Fabbri – tornando da un concerto, rimase coinvolto in un gravissimo incidente stradale, dicemmo “basta”: fossero stati pagati il giusto non sarebbero tornati a casa alle 4 del mattino nella nebbia ma si sarebbero fermati a dormire in qualche pensione….».

Gli anni Settanta sono appunto stati aperti dalla rassegna di Montalbano «che per noi fu importante: in quell’occasione ci convincemmo di saper suonare davanti a un grande pubblico: fino ad allora avevamo suonato a qualche festival, in sale da ballo, in feste studentesche».
In realtà, i ricordi dell’evento lecchese, organizzato dalla rivista controculturale milanese “Re Nudo” di Andrea Valkcarenghi, sono sfumati: «Il prato, la gente, il suono che non era proprio quello che mi aspettavo e ho ancora alcune fotografie in bianco e nero che qualcuno ci scattò in quell’occasione».
Di quell’anno, Fabbri ha ricordato tre momenti. Il passaggio a un festival viareggino che era uno dei tentativi dell’epoca di intercettare le nuove sensibilità ma già allora screditati. Successivamente un breve soggiorno a Rossino sopra Calolziocorte dove i i genitori avevano affittato una casa per trascorrervi le vacanze estive e dove cominciò a prendere forma l’album “l’Unità” dedicato al brigantaggio meridionale e ispirato da un libro acquistato casualmente a Roma. E, a fine settembre, appunto Montalbano. Che, come detto, fu il primo vero raduno giovanile sulla falsariga di quanto era già avvenuto in Inghilterra e negli Stati Uniti e che in Italia si sperimentava in ritardo. «Fu nel 1970 – ha raccontato Fabbri – con l’uscita primo del triplo lp e per del documentario su Woodstock che i giovani italiani si resero conto di cosa fosse un festival rock. Fino ad allora si sapeva poco, da un giorno con l’altro vennero scoperti Joe Cocker e Crosby, Stills, Nash & Young, gli Who e Santana. Artisti che un momento prima non si filava nessuno e che improvvisamente divennero famosissimi». Disco e film avviarono un’esperienza che avrebbe segnato, nel bene nel male, gli anni successivi.

Detto dei ricordi, spazio agli studi contenuti nel libro. Cominciando dallo spazzare la credenza, alimentata anche da Wikipedia «dove ci sono troppe bufale», secondo cui “il tempo della canzone” in media sui tre o quattro minuti di durata sia stato determinato dalla durata dei dischi a 45 giri. I quali in realtà potrebbero arrivare fino a sette minuti. Ma le canzoni duravano quei tre o quattro minuti ben prima della nascita del 45 giri nel 1949: «Le canzoni più o meno brevi per la fatica dell’esecuzione la sostenibilità dell’uditorio, magari in un salotto. Soprattutto, «ogni canzone crea un proprio tempo dell’ascolto e dell’immaginazione: ci sono brani che raccontano una vicenda in tempo reale, altri che racchiudono trent’anni di vita e altri che in tre minuti spiegano cosa avviene nel millesimo di secondo di un esperimento scientifico. Il gusto cambia coi tempi: adesso, sembra che si stia tornando ai brani brevi, indotti da Spotify che consente di interrompere un brano se non gradito». Dunque, meglio brani brevi.
Dario Cercek
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