
Il comandante Raffaella Forni
(Foto scattata a seguito di un'operazione
messa in atto a Carenno nel 2013)
I numeri – fortunatamente – sono molto piccoli ma “sudati”, frutto cioè di ore e ore investite sul campo e soprattutto “scremati” rispetto alle ben più frequenti violazioni amministrative contestate - dalla mancata annotazione della giornata alla caccia a distanza ravvicinata da case o strade - per essere invece inquadrati esclusivamente sui danni che il mondo venatorio arreca alla fauna selvatica e più in generale alla biodiversità. Dall’1 febbraio 2013 al 31 gennaio 2014 sono 4 i reati venatori accertati in provincia di Lecco secondo quanto indicato nel “Calendario del Cacciatore Bracconiere”, frutto dell’analisi della caccia illegale in Italia commissionata da Committee Against Bird Slaughter. Un dato che cresce, di pochissimo, se si prende in considerazione la stagione successiva ovvero quella compresa appunto tra l’1 febbraio 2014 e il 31 gennaio 2015 con 6-7 casi (dato da ufficializzare) evidenziati dal Nucleo Faunistico della Polizia Provinciale guidata dal Comandante Raffaella Forni. Valori estremamente piccoli rispetto al dato nazionale, relativo a 90 provincie interessate dal problema su 110: nel 2013 - 2014 sono stati raccolti un totale di 548 casi di reati rilevanti contro la fauna selvatica, che hanno coinvolto 1133 persone, delle quali il 70% (818 soggetti) era a caccia di uccelli nell’atto di bracconare mentre il 30% (356) era a caccia di mammiferi. Sono due i reati commessi più frequentemente dai cacciatori/bracconieri: l’uso dei richiami elettromagnetici per attrarre più facilmente gli uccelli a portata di fucile (22% dei casi) e l’abbattimento di specie particolarmente protette (20%). Seguono la caccia in zona di divieto (12%), la caccia a specie protette (11%), la caccia con lacci, reti, trappole e tagliole (11%), la caccia in periodo di divieto (10%), la caccia notturna (6%), la caccia con fucili alterati, contenenti più di 3 colpi o con matricola abrasa, silenziatore o altro (5%). Riportati raramente sono i casi di uso di veleno (nonostante il problema sia diffuso e di enorme impatto sulla fauna selvatica), di caccia dalle automobili e di superamento dei limiti giornalieri di abbattimenti (tutte queste categorie ferme all’1%).

Le regioni che si guadagnano la maglia nera del bracconaggio – ma allo stesso tempo la maglia bianca del più alto tasso di reati scoperti – sono la Campania (17%), la Lombardia (15%), la Puglia (11%) e la Calabria (10%). Da anni, poi, la provincia di Brescia si attesta come il principale territorio di bracconaggio, a maggior ragione se si considera che in alcuni casi i reati riscontrati in altri territori vanno “addebitati” proprio a cacciatori provenienti dal bresciano.
“Qualche anno fa, i numeri erano più consistenti anche nel lecchese” spiega il Comandante Forni. “Poi abbiamo assistito a un mutamento culturale” argomenta, precisando però come – soprattutto in alcune zone – si concentrino ancora catture a scopi commerciali, legate magari a tradizioni culinarie, da tenere particolarmente monitorate. “La nostra è un’attiva quotidiana di accertamento delle violazioni amministrative, di bonifica delle aree quando ci imbattiamo in trappole o tagliole (sempre meno frequenti), di controllo preventivo per la tutela della fauna. Ci occupiamo anche di contenimento della specie: stiamo terminando, ad esempio, il piano per il cormorano. Quando ci imbattiamo in qualcosa di anomalo avviamo l’attività investigativa e di appostamento: è molto difficile però giungere all’identificazione degli autori dei reati, anche se spendiamo molto tempo. Quattro può sembrare un numero molto piccolo ma si tratta di casi in cui è stata comprovata l’attività illegale con l’identificazione del responsabile”.
Un conto insomma trovare una tagliola non regolare, un conto è riuscire a risalire a chi l’ha posizionata.