'In Afghanistan le guerre non finiscono mai': Khalid racconta la fuga (terminata solo a Mandello), per rendere moglie e figli 'liberi'

Khalid
"Io ho vissuto la guerra. Per me era importante che i miei figli non la vedessero. Ora qui sono liberi, possono decidere della loro vita. A loro chiedo solo una cosa: di studiare. Perché il mondo lo si cambia solo con la penna e non con la pistola". Khalid è un concentrato di umiltà e forza. E' un uomo, un marito, un padre, segnato da una vita dura che non gli ha fatto sconti, anzi. A 44 anni ancora da compiere, ha già pagato più volte conti salati, metaforicamente e non solo. Ma i suoi occhi, che si inumidiscono pensando alle tribolazioni del passato, dietro la mascherina chirurgica, si illuminano parlando invece della sua consorte e dei suoi quattro figli, ormai adolescenti. Se ha camminato per 45 giorni di Stato in Stato per poi sbarcare in Italia lo ha fatto per loro. Per portarli via da un Paese che non trova pace e che, oggi, come ieri, non può garantire un futuro sereno. "In Afghanistan le guerre non finiscono mai", sostiene, con riferimento alla stretta attualità e alla storia di una Nazione invasa a più riprese per poi essere dilaniata anche da scontri interni, fino ad arrivare al 15 agosto con la presa di Kabul da parte dei talebani e i civili ammassati all'aeroporto per chiedere di essere portati via, trasformandosi in un attimo da interpreti, calciatrici, cuochi o collaboratori di cooperanti in profughi. Un'etichetta che anche Khalid si è visto appiccicare addosso. Dal 2017 vive a Mandello del Lario, dove finalmente parrebbe aver trovato ciò che cercava. Il suo viaggio della speranza inizia nel 1999, con gli studenti coranici in lotta con i Mujaheddin dopo la fine dell'occupazione sovietica, due anni prima di quell'11 settembre 2001 che cambierà di nuovo le sorti del Paese. Con il fratello maggiore - che gli ha sempre fatto da padre e da madre avendo perso entrambi i genitori in tenerissima età - scappa in Iran dove nasceranno poi i suoi quattro figli oggi di 16, 14 e i gemelli di 13, tutti comunque con passaporto afghano perché non riconosciuti come cittadini dello Stato che li ospita ma... non li accoglie. Accenna ad un“Governo stretto” Khalid per descrivere le fatiche patite anche in quella che aveva immaginato come la sua nuova casa. Non parla ancora fluentemente l'italiano ma il concetto è chiaro, soprattutto quando aggiunge che in uno stato islamico non funziona come in Europa, ricordando le continue pretese di denaro per l'accesso a servizi essenziali come le cure mediche o l'istruzione e soprattutto la mancanza di rispetto per chi, per una ragione o per l'altra, è considerato diverso. Profughi inclusi. Nel 2010, dopo un provvisorio rientro in  Afghanistan, dunque, una nuova partenza mentre il fratello maggiore con la famiglia si sistemava in Svizzera. Pagare per pagare, consegna ben 12.000 dollari a trafficanti di essere umani che per quella ingente cifra, con altri disperati, lo avviano verso l'Italia. A piedi, attraverso la Turchia e la Grecia per poi arrivare a Bari e essere reindirizzato – questa volta da altri – in Sicilia, ottenendo dopo 10 mesi, dalla Questura di Agrigento, quel passaporto da richiedente asilo che ci mostra, quasi come fosse necessaria quella scritta in oro su copertina azzurro per attestare il suo diritto di sentirsi al sicuro. Gli ci sono voluti quasi altri due anni – di lavoro nei campi e sacrifici di ogni sorta per mettere insieme i quasi 5.000 euro necessari per acquistare tutti i biglietti – per portare via da Vardak, la città a 35 chilometri da Kabul dove è nato, moglie e figli. Tutti insieme, poi, dopo un altro lustro, sono riusciti ad approdare appunto a Mandello, ben consapevoli di come, anche in Italia, Nord e Sud non offrano le stesse possibilità. “Anche in Sicilia, dove anche gli italiani con il lavoro sono in difficoltà, sono stati tutti buoni con me. Posso solo ringraziare. E il mio grazie va anche al Comune di Mandello, con il suo sindaco, i servizi sociali e il centro d'ascolto: ci hanno aiutato davvero tanto. Per otto mesi sono rimasto senza lavoro, poi mi hanno trovato un posto come giardiniere alla Cooperativa Due Mani. Qui mia moglie – che ha avuto problemi di salute – e i miei figli stanno bene. Non dovevano vedere la guerra. I ragazzi da settembre andranno tutti a scuola a Lecco. Io dico sempre loro che devono studiare. Bisogna studiare”. Lui stesso aveva creduto con l'istruzione di potersi salvare. Ha frequentato la scuola Rahman Baba, una realtà di livello, seguendo le orme del fratello in un lavoro governativo. Nei vent'anni di occupazione americana i suoi nipoti, figli di una sorella e dei fratelli della moglie, rimasti a Kabul hanno creduto di poter prendere in mano, attraverso i libri, il loro futuro. “Li abbiamo sentiti nei giorni scorsi, non escono più di casa. Cosa succederà loro? Io mi chiedo dove è scritto che donne e bambini non possono studiare? Siamo tutti uguali, maschi e femmine. Metà del mondo è donna. Perché per uscire di casa mia moglie dovrebbe essere accompagnata da un uomo? Appena sposati le ho promesso sarebbe stata libera. Io stesso in Italia non vesto abiti afghani, perché dovrei farlo? Io rispetto tutti, questo Paese, la sua Bandiera. Dovrebbe essere così ovunque”.
Dovrebbe. Ma appena insediati i talebani in Afghanistan hanno cambiato anche il vessillo nazionale.
“Non penso più a tornare. Ma prego per tutti”.
A.M.
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