In viaggio a tempo indeterminato/193: un tesoro abbandonato
Una botte di vino di quelle che d’estate mio nonno faceva arrivare da Pavia.
Comprava quella damigiana di vino rosso e lo suddivideva in tante bottiglie da un litro, un tappo di sughero per chiuderle. Poi le posizionava in fila sulla mensola del garage. Io lo osservavo, con in mano un grappolo d’uva viola appena raccolto dalla vite nell’orto.
I muri spessi, di quelli che d’estate ti tengono fresco ma che poi d’inverno maledici perché dentro non ci si scalda mai.
La stufa a legna che annerisce le pareti.
Un mazzo di carte sul tavolo della cucina.
E’ rimasto tutto così nella casa dell’ultimo abitante di Roghudi Vecchio, un borgo fantasma disperso nel bel mezzo dell’Aspromonte in Calabria.
Nel nostro girovagare per il mondo, siamo spesso andati alla ricerca di luoghi come questo e trovarlo nella terra di origine di Paolo, devo ammettere che mi ha molto colpito.
Un mix di fascino e decadenza, con una buona dose di passato e una spolverata di mistero.
La ricetta perfetta per un luogo unico che ti trasporta in un’epoca lontana.
Chilometri e chilometri di strade tortuose e saliscendi tra gli incendi che purtroppo stanno distruggendo la vegetazione in questa zona di Calabria, sono la porta d’accesso a questo piccolissimo borgo costruito nel mezzo del nulla.
Il nome Roghudi deriva dal greco “rogòdes”, pieno di crepacci o “rhekhodes”, aspro.
E mai nome fu più azzeccato dato che questo piccolo borgo abbandonato sorge su uno sperone roccioso a picco sulla Fiumara Amendolea, il fiume che arriva al mar Jonio.
Fino al 1971 il paesino era abitato da circa 1650 abitanti che svolgevano una vita a strettissimo contatto con la natura. Molti erano pastori che lasciavano pascolare i greggi nelle terre impervie dell’Aspromonte.
Mentre mi siedo all’ombra della vite, nella piazzetta principale del paesino, mi sembra di sentire le voci di quei pastori in una calda giornata estiva.
Quella calma apparente però, nel 1971 improvvisamente svanisce quando piogge torrenziali provocano morti e dispersi.
Il sindaco di allora, decide di firmare un’ordinanza che prevede lo sgombero immediato del borgo.
E’ l’inizio della fine di Roghudi a cui però si oppongono i pastori, legati visceralmente a quei luoghi d’origine che si rifiutano di abbandonare.
Nel 1973 un’alluvione ancora più forte si abbatte nuovamente sul paesino.
Tutti gli abitanti, anche i più tenaci, si vedono costretti a lasciare le loro case e a trasferirsi a Roghudi Nuova, situata a circa 40 km.
Camminare tra quelle viette, con le porte che cigolano sospinte dal vento, fa uno strano effetto.
A Roghudi si è lontani da tutto e la civiltà sembra aver deciso di spostarsi da lì.
In un luogo del genere, leggende e racconti popolari sono la ciliegina sulla torta.
Tra i più curiosi, quello che narra di un’usanza tipica di Roghudi.
Si dice che le madri legassero le caviglie dei bambini piccoli con delle corde, fissate ad enormi chiodi conficcati nelle pareti esterne delle case. Non si trattava di una punizione bensì di un modo per evitare che i figli cadessero nei burroni, come già successo in passato ad altri sfortunati bimbi.
Voci popolari raccontano che di notte si possano ancora sentire i lamenti di questi bambini provenire dai dirupi.
Non so se sia vero, ma di una cosa sono certa, passare una notte tra quelle case abbandonate deve essere un’esperienza folle e alquanto angosciante.
Beh, io di certo non la farei.
Ma di giorno, con la luce del sole, circondata dall’immensità della natura, non posso far altro che rimanere estasiata davanti a questo tesoro, nascosto tra i monti e le fiamme di una Calabria aspra e selvaggia.
Comprava quella damigiana di vino rosso e lo suddivideva in tante bottiglie da un litro, un tappo di sughero per chiuderle. Poi le posizionava in fila sulla mensola del garage. Io lo osservavo, con in mano un grappolo d’uva viola appena raccolto dalla vite nell’orto.
I muri spessi, di quelli che d’estate ti tengono fresco ma che poi d’inverno maledici perché dentro non ci si scalda mai.
La stufa a legna che annerisce le pareti.
Un mazzo di carte sul tavolo della cucina.
E’ rimasto tutto così nella casa dell’ultimo abitante di Roghudi Vecchio, un borgo fantasma disperso nel bel mezzo dell’Aspromonte in Calabria.
Nel nostro girovagare per il mondo, siamo spesso andati alla ricerca di luoghi come questo e trovarlo nella terra di origine di Paolo, devo ammettere che mi ha molto colpito.
Un mix di fascino e decadenza, con una buona dose di passato e una spolverata di mistero.
La ricetta perfetta per un luogo unico che ti trasporta in un’epoca lontana.
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Il nome Roghudi deriva dal greco “rogòdes”, pieno di crepacci o “rhekhodes”, aspro.
E mai nome fu più azzeccato dato che questo piccolo borgo abbandonato sorge su uno sperone roccioso a picco sulla Fiumara Amendolea, il fiume che arriva al mar Jonio.
Fino al 1971 il paesino era abitato da circa 1650 abitanti che svolgevano una vita a strettissimo contatto con la natura. Molti erano pastori che lasciavano pascolare i greggi nelle terre impervie dell’Aspromonte.
Mentre mi siedo all’ombra della vite, nella piazzetta principale del paesino, mi sembra di sentire le voci di quei pastori in una calda giornata estiva.
E me li immagino lì, seduti sulle panche di legno, con un bicchiere di vino tra le mani, che chiacchierano di vita, circondati dal silenzio di quella natura tanto affascinante quanto crudele.
Quella calma apparente però, nel 1971 improvvisamente svanisce quando piogge torrenziali provocano morti e dispersi.
Il sindaco di allora, decide di firmare un’ordinanza che prevede lo sgombero immediato del borgo.
E’ l’inizio della fine di Roghudi a cui però si oppongono i pastori, legati visceralmente a quei luoghi d’origine che si rifiutano di abbandonare.
Nel 1973 un’alluvione ancora più forte si abbatte nuovamente sul paesino.
Tutti gli abitanti, anche i più tenaci, si vedono costretti a lasciare le loro case e a trasferirsi a Roghudi Nuova, situata a circa 40 km.
Roghudi Vecchio diventa ufficialmente un borgo fantasma.
Camminare tra quelle viette, con le porte che cigolano sospinte dal vento, fa uno strano effetto.
A Roghudi si è lontani da tutto e la civiltà sembra aver deciso di spostarsi da lì.
In un luogo del genere, leggende e racconti popolari sono la ciliegina sulla torta.
Tra i più curiosi, quello che narra di un’usanza tipica di Roghudi.
Si dice che le madri legassero le caviglie dei bambini piccoli con delle corde, fissate ad enormi chiodi conficcati nelle pareti esterne delle case. Non si trattava di una punizione bensì di un modo per evitare che i figli cadessero nei burroni, come già successo in passato ad altri sfortunati bimbi.
Voci popolari raccontano che di notte si possano ancora sentire i lamenti di questi bambini provenire dai dirupi.
Non so se sia vero, ma di una cosa sono certa, passare una notte tra quelle case abbandonate deve essere un’esperienza folle e alquanto angosciante.
Beh, io di certo non la farei.
Ma di giorno, con la luce del sole, circondata dall’immensità della natura, non posso far altro che rimanere estasiata davanti a questo tesoro, nascosto tra i monti e le fiamme di una Calabria aspra e selvaggia.
Angela e Paolo