SCAFFALE LECCHESE/60: ''Sull'Adda'' con Cesare Cantù nei panni di uno studente

A piedi lungo l'Adda dalle sorgenti alla foce. In quest'epoca di cosiddetto turismo lento, di riscoperta (e invenzione o reinvenzione) di "cammini", ha un suo fascino riprendere in mano una guida, più culturale che turistica, di ormai un secolo e mezzo fa. Si tratta di un lavoro di Cesare Cantù, lo storico nativo di Brivio, del quale lo Scaffale si è già occupato per una delle sue opere "brianzole" più celebri, il "Carlambrogio da Montevecchia" (CLICCA QUI)

"Sull'Adda" è volume che Cantù pubblicò nell'1884 per la tipografia romana di Edoardo Perino. Dovrebbe essere ancora reperibile in un'edizione moderna: è quella del 1990 della casa editrice comasca "Nodolibri", illustrata da alcune stampe ottocentesche.
Cantù scrive in prima persona, vestendo i panni di uno studente che, dopo i sommovimenti politici del 1830, lascia l'Italia andando esule «in Isvizzera» e restandovi «del bel tempo per aspettare che si sollevasse tutta l'Italia come un uomo solo: eh sì! La primavera accese qualche focherello là sul Po, e subito l'Austria vi pose sopra il suo piede ferrato. "Tanto meglio", ci dissero i nostri guidoni, "lo sdegno si accumula: l'idea matura: vedrete all'anno nuovo". E l'anno nuovo giunse e trascorse nell'aspettativa».
«In questa fiducia passarono tre novenni» con lo studente naturalmente cresciuto e occupato «da ingegnere dietro a strade ferrate, a fabbriche di macchine, a forni di fusione ma "Dove che vada l'esule / Sempre ha la patria in cor»: pertanto giunge il momento «di riveder casa mia e i miei».

Il passo dello Stelvio

Seguiamo dunque questo percorso che riporta il nostro eroe in Italia, attraverso uno strano itinerario disegnato probabilmente per consentire di scollinare allo Stelvio da Bolzano dove il nostro protagonista giunge in diligenza e da lì «presi i provvedimenti acciocché i bagagli mi fossero consegnati al mio paese natale, poi fattomi una valigia dello stretto necessario, e postamela alle spalle, con cappello sformato a gran falde, e un bastone alpino alla mano, cominciai la mia pedestre peregrinazione verso la patria».

In realtà, il racconto del percorso è irregolare: molto accurato in alcune parti, superficiale in altre, mentre taluni passaggi e paesaggi sono del tutto trascurati. Segno evidente che l'autore ha confezionato la guida limitandosi al materiale di cui già era in possesso non curandosi di colmare le parti lacunose. L'intento è comunque quello di offrire un quadro il più completo possibile, unendo le notizie di carattere storico a quelle economiche, le suggestioni letterarie alle spigolature scientifiche. Comprese le polemiche su piene e alluvioni. Sarà, per esempio, di conforto sapere che le proteste di Como erano già accese allora e probabilmente da molto tempo ancora addietro: «Causa principale del sempre crescere delle piene si credettero i depositi dei torrenti che nell'emissario di Lecco vennero ad allungare scanni di ghiaia fin ad attraversare tutta la sezione del fiume, suddividendolo così nei distinti bacini di Moggio, d'Olginate, di Brivio. Aggiungetevi strozzature artificiali; siccome le pile del ponte di Lecco, gli avanzi d'un antico ponte a Olginate, ed edifici pescherecci, che formavano un cono rovesciato incontro alla corrente: le chiuse pure artefatte a Lavello e a Brivio. La città di Como studiò sempre i mezzi di prevenire questi disturbi: nel 1440 fu allargato il ponte di Lecco con un nuovo arco...».

L'Adda a Brivio

 


L'alter ego dello scrittore sale al Passo dello Stelvio, «in mezzo ai monti più giganteschi d'Europa. Pochi de' passaggi alpini han varietà d'attrattive quanto questo, ove differenzia singolarmente il pendio settentrionale dal meridionale. Né, come in altre creste alpine, una successione di ghiacciai e di rupi eleva a negre rocce, poco prominenti dall'ultima valle. Qui l'inclinazione è grandissima, laonde ogni passo reca nuove scene. Eppure, mentre in Isvizzera, paese di montagne, è quasi un'epidemia il voler visitare i giganti delle Alpi, e s'ha per gloria l'aver salito il Monbianco o il Pilat o la Jungfrau, i Lombardi non si curano di venire, dalla monotonia della pianura, a visitare monti come questi, che vanno fra i più sublimi, e che possono raggiungere con non grave difficoltà, anzi seduti nelle carrozze che li conducono al corso».
Dallo Stelvio o, meglio, dal Giogo scende a Bormio di cui decanta i bagni termali. Qui, «a destra s'interna la valle del Fraele [dove] entro un bosco di pini, da una grotta sbocca una grossa fontana perenne, che scarica un lago sovrapposto, e che dicesi la fonte dell'Adda» anche se «per dir vero questa fonte non fa che aggiunger acqua a quella che già ci accompagnò fin dal Giogo e che deriva dal fondersi delle ghiacciaie del monte Cristallo».
Da lì, il fiume e il nostro "osservatore" vdiscendono l'intera Valtellina. La guida ci racconta aneddoti, e curiosità: la robusta gioventù e le donne ridondanti di vivacità e salute, a Grosio, frate Antonio di Grossotto a cui «fra' Paolo Sarpi mette in bocca un'arringa al concilio di Trento, per mostrar quanto i riti della messa siano mutati dagli antichi», l'arciprete di Mazzo Giovannangelo De Medici, fratello del famoso Medeghino, divenuto poi papa Pio IV, il borgo ancora importante di Tirano, le glorie di Ponte («Saverio Quadrio che scrisse molte opere» e Giuseppe Piazzi, l'astronomo che al primo giorno del 1800 a Palermo scoperse un asteroide»), i vigneti del Sassella e del Grumello, il torrente Mallero che a Sondrio è «diventato spaventoso dopo i disboscamenti» e poi Morbegno e la valle del Bitto dove penetrò «il conte Brunoro, capitano di ventura al servigio di San Marco e vi conobbe una tal Bona Lombarda e se ne invaghì»..

La foce dell'Adda a Colico

E «dopo Piantedo eccoci a Colico e al lago», al Pian di Spagna forse un tempo «fiorente di popolazione», al forte che «il conte Enrico di Fuentes, governatore di Milano, divisò di fabbricare» sul «colle ferruginoso di Montecchio» per comandare «ai due laghi, al corso dell'Adda e alle strade che vengono da Chiavenna e dalla Valtellina». Forte che, si sa, servì a poco o niente e divenne ben presto un rudere. Non mancando, però, di far qualche danno: «come raggio di fortezza, prescriveasi che nel Pian di Colico e di Spagna non fossero piante, non seminati. Ciò peggiorava l'aria», così che «gli abitanti di queste terre, all'estate migravano sui monti per evitare le febbri, ma la poveraglia rimanea al Piano, per custodire le mandre che vi godeano il pascolo libero. E mentre nelle maremme toscane la vita media tocca ai 22 anni, qui non durava che 19».
«A migliorare il pian di Colico» cominciarono «per proprio conto» all'inizio dell'Ottocento Luigi Sacco, «il propagatore dell'innesto vaccino» e il francese Giacomo Roussellin: «Fu allora che Colico svestì il proverbiale squallore, fabbricò magazzini, alberghi, buone case; si poté impunemente rimanervi anche nell'estate: ed oggi i suoi contorni mi parvero una vera Brianza».

Fuentes

Sennonché aperta la strada militare «pensossi di rimettere in essere il forte di Fuentes, per riparo d'una eventuale ritirata che gli Austriaci dovessero fare dalla Lombardia e a tal uopo desolar di nuovo la campagna tutta. Vuolsi che il dispiacere di questo progetto cacciasse il Roussellin alla disperazione a al suicidio». E «ora notate bene - chiosa Cantù -. Del Fuentes, che fabbricò un forte minaccioso ai popoli, micidiale alla guarnigione e ai circostanti, restò popolare il nome: il Roussellin e già sconosciuto; consueta giustizia distributiva di quella comunità, che inneggia a Bonaparte e deride San Francesco». Però, aggiungiamo noi, oggi a Colico c'è una via Roussellin. Il tempo, dunque, è davvero galantuomo?
Il nostro camminante prende la "nuova" strada del lago, quella progettata dall'architetto Carlo Donegani (lo stesso dei valichi dello Stelvio e dello Spluga, all'epoca le strade più alte d'Europa) e realizzata tra 1818 e 1822. Prima, tra i paesi del lago, ci si poteva muovere solo per viottole sassose e impervie o per acqua: «Ma ecco fervere l'opera: si spiana, si colma, si taglia, si fora. La giornata consumavasi a fare buchi da mine, e caricarle: venuta la sera, brillavansi; e lo sbigottito navigante e il lontano abitatore vedevano, udivano centinaia di colpi romper le tenebre e il silenzio, spaccare la roccia. Così si apersero mirabili gallerie. Delle strade n'ho veduto la parte mia, ma nessuna di tanta bellezza»

La galleria di Varenna

E così «torno alla mia Adda, e a questa infinità di spazio che essa occupa nella gran vallata che dicono il lago di Como» che «ha figura d'un Y rovesciato» ed è orlato «da 85 Comuni con meglio di 88.000 abitanti, contando quelli di città» e dove molta parte della popolazione vive di pescagione nonostante siano «3500 anni che i pescatori si lamentano, che "adesso" non si piglia più pesce, come i cacciatori si lamentano che adesso non passano più uccelli». E naturalmente il problema delle piene con le lamentazioni di Como e già allora sotto accusa le chiuse del Lavello e di Brivio.
Dopo una sosta a Varenna, «il luogo più opportuno a vagheggiar non solo come si fa a 20 anni, ma a meditare, come si fa a 50, questo lago bello e magnifico», la discesa a Lecco dove «si passa il ponte».

La diga a Olginate

Però «io volli percorrere questo luogo in barca e presi posto in un barcone: a dritta abbiamo le terre di Pescate, Torrette, Garlate, Olginate, ove sbocca l'Aspide; Capiate, presso cui sfocia il Greghentino; poi le isole, in una delle quali il Casino del Vicerè che il dottore Cantù di Brivio avea fatto alzare per banchettarvi Eugenio Beauharnais quando invitavalo qui alla caccia. A sinistra, un colle sporgente a Chiuso per chiudere veramente la valle, segnando il confine col Bergamasco; poi si riaprono graziose pendici, dove è la terra di Vercurago, e a mezza china Somasca, rinomata per l'Ordine che vi istituì san Girolamo Miani, e pel santuario sacro a questo alla Valletta, meta d'autunnali pellegrinaggi.». E poi, la val d'Erve, Calolzio, Fopenico, Lavello, «indi una spiaggia deserta sotto al monte di Bisone e alle alte terre della val San Martino fino alla Sostra, ov'era un tempo l'emporio delle merci venete, per traghettarsi a Brivio».

E sono, quelle di Brivio, soste e riflessioni più lunghe, naturalmente: «Brivio! Ah questo nome mi fa battere il cuore. L'ho pur riveduto dopo 25 anni quel mio nido paterno! Corsi alla casa, ahimé deserta! là sul margine del lago, ove tutto il giorno sentivo un picchiar di martelli, conficcar di chiodi, strisciar di pialle, stridere di seghe, stendersi di pece per far le barche, su cui passarono metà della vita i miei parenti; e dove ritrovavo la scuola più santa dopo il catechismo, quella dell'onesta fatica, del divenire utili, indipendenti, perserveranti». E' un rincorrersi di ricordi, un passeggiare malinconico chiedendosi «dove sono coloro che piansero il mio partire», ora che per strada è guardato come uno straniero, «i vecchi e i fanciulli non sono più quelli che ho lasciati vecchi e fanciulli» tra il castello «che tante volte ho assalito alla testa di dodici o quindici garzoni», la chiesa «dove balbettai la fede e la speranza» e il cimitero «ove dormono i miei vecchi, fortunati di non avere una storia». Si addensano ricordi letterari: Bassano Finoli e il suo romanzo "Igilda di Brivio", Luigi Gualtieri e il suo "Innominato" e anche un tal Cesare Cantù, della cui novella "Il castello di Brivio" «confesso non aver mai inteso accennare il fatto: bensì i miei vecchi mi raccontavano che un conte Ariprando di qui si invaghì della figlia di uno dei Capitani di Santa Maria Hohe; e questo, perché nemico, la chiuse nel convento di Cremella».
Dopo tanto indugiare, giunge però il momento di «attender la promessa che mi fece di accompagnare l'Adda dalle foce alla sorgente».
Bisogna continuare, dunque, con la navigazione che da Brivio in giù «riesce sempre incomoda e a volte pericolosa», sparpagliandosi l'Adda in molti rami con disamene isolette e tortuose correnti: servirebbe un buon canale «ma bisognerebbe avere per l'Adda la passione che ho io: bisognerebbe non accorgersi che le ferrate rendono inutili le vie fluviali». Eppure in passato di canali artificiali si parlò molto, ma con poco costrutto anche perché «non mancarono mai quei critici che, inetti nel fare, son opportunissimi a disturbare chi fa». Finché tra 1773 e 1777 venne realizzato il canale di Paderno inaugurato dall'arciduca Ferdinando in una giornata memorabile.
Il canale, del quale Cantù ci fornisce caratteristiche e utilità, restituisce l'acqua all'Adda a a Trezzo, dove «una robusta diga traversa il fiume, gettandovi le acque nel naviglio della Martesana».
Lasciamo ora che l'Adda prosegua, e il viaggiatore la costeggi, attraversando terre milanesi, cremonesi, lodigiane tra la leggenda del lago Gerundo e la foce che «al tempo della battaglia di Bebriaco» doveva essere tre miglia sotto Cremona «e i segni si possono riconoscere ancora, mentre ora si scarica a sette miglia sopra Cremona a Castel Nuovo Bocca d'Adda».

 

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Dario Cercek
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