SCAFFALE LECCHESE/52: i Piani Resinelli in un libro a cura di Aroldo Benini e Pino Comi

C'è voluta una pandemia perché tornassimo ad accorgerci di quell'incanto che sono i Piani Resinelli, dopo che in una domenica di febbraio si è arrivati a chiudere la strada per l'eccessivo afflusso di gitanti, costretti dai confini ridotti a riscoprire mete a portata di mano. Così, ora, finalmente si torna a parlare della necessaria collaborazione tra i quattro Comuni che lassù hanno giurisdizione: Abbadia, Ballabio, Mandello e Lecco. I quali Comuni, nell'ultimo scorcio del Novecento, presero la sciagurata decisione di sciogliere il consorzio che li aveva raggruppati per qualche decennio e di andare ciascuno per conto proprio. Staremo a vedere.

La copertina

Se del futuro non c'è certezza, il passato è un racconto affascinante tutto da sfogliare. C'è un libro prezioso, stampato dalle Edizioni Agielle nel 1989, che è anche un album fotografico: "Quando i Piani Resinelli si chiamavano ‘I Roccoli'. Vecchie immagini di una villeggiatura ai piedi delle Grigne". Ed è una storia che si intreccia con le vicende di una importante famiglia lecchese: appunto quella dei Resinelli dalla quale già nell'Ottocento i "monti di Mandello" mutuarono il nome.
«In famiglia si raccontava che nell'anno in cui morirono, a distanza di pochi mesi, mio nonno Cesare e mio padre Giuseppe, detto Pino, il grande faggio che abbraccia la vecchia casa, quel Roccolo Resinelli che sta all'origine del nome di questi luoghi, non avesse germogliato e messo foglie. L'accaduto era preso a testimonianza del reciproco amore che ci lega». Così leggiamo nell'introduzione firmata da Giuseppe Resinelli, detto Pinin, sindaco lecchese dal 1979 al 1983. Che aggiunge: «Seduto davanti casa, anzi le case, perché accanto al Roccolo c'era la "ca' di omen" dei roccolatori, posso socchiudere gli occhi e intravedere tra i barbagli del sole, tra gli alberi, fantasmi di quattro generazioni di Resinelli: il trisnonno Francesco, che costruì forse la casa, il bisnonno Giuseppe Antonio suo primogenito, mio nonno Cesare e l'allegra brigata dei sui fratelli e sorelle Antonio, Giuseppe, Paolo, Carlo, don Francesco, don Giovanni, Teresa, Luisa, Amalia. E poi il mio papà e la mia mamma, insieme, per così poco e per sempre».

La moda del telemark, 1922

Erano ancora semplici pascoli e alpeggi mentre la febbre delle miniere stava già declinando quando, il 19 aprile 1845, Francesco Resinelli «acquista il Roccolo chiamato volgarmente della Pessina, situato sui monti detti di Mandello, composto da semicerchio piantumato con grossi e vecchi alberi di faggio non che di altre specie posteriormente introdotte, col rispettivo casino di caccia. Ma acquista anche il diritto di attivare la caccia. L'acquisto è fatto per 400 lire austriache e retrodatato - non sappiamo perché - al 1° agosto 1844.». Così «la località comincia a essere frequentata e, successivamente, diventa luogo di villeggiatura, sede di imprese sciistiche ed alpinistiche.»
Ad accompagnarci in questo viaggio del tempo sono le parole del docente e storico Aroldo Benini e dell'alpinista Pino Comi, entrambi ormai scomparsi. Di questa storia famigliare, tra l'altro, Benini fa pienamente parte, avendo sposato una Resinelli: Mariadele, sorella di Pinin.

Il racconto parte da lontano: l'ambiente, certo, i dettagli geologici delle Grigne, la Porta di Prada e la Ghiacciaia di Moncodeno, le guglie e i canaloni, il paesaggio tra i più straordinari. Ma soprattutto le miniere: «I Busca e un Pedrotti si propongono di avviare una miniera di piombo sulla Grigna o, meglio, sul Coltignone, avendo ottenuta regolare autorizzazione, o patente, alla data del 30 luglio 1676. Ma si deve tener conto che già quasi cent'anni prima, nel 1582, il dott. G. F. Gerosa aveva chiesto dieci anni di immunità fiscale, cioè l'esenzione dalle tasse, per scavare "certe miniere di piombo, ferro et altri minerali" nel territorio lecchese.». Non sempre i filoni erano generosi, ma sempre le condizioni dei minatori erano infernali: «la giornata lavorativa non aveva orario né soste, e talvolta "quando le circostanze lo richiedevano, rimanevano nella buca fino a notte inoltrata"». L'attività estrattiva durò fino a Novecento inoltrato, anche se in ultimo ridotta all'osso e infine dismessa. La capanna dei minatori divenne un rifugio alpino e oggi qualcuna delle vicine gallerie è attrazione turistica. Ma mnel 1989, quando venne scritto il libro che abbiamo tra le mani, le miniere erano ancora abbandonate, recita infatti una didascalia: «I cunicoli sono ancora percorribili, e non si cesserà di raccomandare la maggiore cautela data l'esistenza di pozzi e la non remota possibilità di perdersi all'interno di itinerari che spesso si intersecano, salgono e scendono. Mai entrarvi da soli, e sempre con pile o torce controvento.»

Escursionisti di inizio novecento

Per il resto e per secoli era stata la montagna dei contadini: lo sfalcio, la monticazione, il legnatico. E la caccia, più o meno autorizzata. Con i roccoli per l'uccellagione. Si trattava di case vere e proprie, non di semplici capanni, ed erano cornice di briose adunate. «Anche sulle nostre montagne si segnalano per la loro presenza impianti venatori fissi, utilizzanti reti, alcuni dei quali col tempo hanno assunto l'aspetto di veri e propri monumenti verdi.» Il racconto di Benini e Comi ci spiega come fossero e funzionassero i roccoli, ci dice delle "retate" e delle seguenti scorpacciate: «Lì, durante pranzi a base di scricchiolii delle ossa delle bestiole piumate, si impartivano lezioni sull'osservazione e (paradossalmente) sul rispetto della natura e fiorivano leggende.»

Il roccolo Resinelli nel 1986

Ospiti più o meno illustri si davano dunque così appuntamento anche nella casa abbracciata dal grande faggio, appunto al Roccolo dei Resinelli. E quel nome s'impose.
«La località - parole di Benini - è ormai definita con il nome dei suoi maggiori proprietari almeno dal 1884, quando vien stampato un album, subito inaugurato dagli "autografi dei visitatori del Roccolo Resinelli"»: tra i primi l'avvocato mazziniano Enrico Corti, i Bertarelli, cugini dei Resinelli e proprietari d'altro roccolo, poi i Ciceri di Valmadrera, il Francesco Alippi detto Poma, i Pini, un Antonio Camozzi quasi certamente bergamasco, Pietro Mantegazza, Vittorio Muttoni....
«L'album - peschiamo ancora dall'Introduzione -, zeppo di firme, di impressioni, schizzi, è la cronaca vera del primo periodo del Roccolo Resinelli. C'era una sola casa ed era questa, e la gente che voleva guardar da vicino la Grignetta o salire, vi si fermava.»

Già. Avevano cominciato a farsi vedere certi matti che si dilettavano ad andar su per le guglie della Grignetta: le prime "esplorazioni" sono registrate già negli anni Settanta dell'Ottocento, ma bisognerà attendere la fine del secolo perché l'alpinismo prenda quota (nel vero senso della parola) e gli anni Trenta del Novecento per assistere alla vera esplosione. La conquista della montagna diventava movimento di massa: attorno ai pochi matti che arrampicvaano, c'erano comitive di escursionisti che scarpinavano su quei sentieri percorsi in passato solo da contadini, pastori e minatori. Se Mandello e Abbadia avevano un proprio intricatissimo reticolo di cammini, per i lecchesi di città la via maestra era la Val Calolden, percorsa da intere generazioni. Oppure «per chi non se la sentiva di salire a piedi, c'era sempre la possibilità di salire a dorso d'asino, offerto per poche lire dal "Leluja" di Ballabio o dal "Coera" lungo la Val Grande.» La diffusione della fotografia consentiva inoltre di immortalare quelle scampagnate.
Non solo: già alla fine dell'Ottocento si «calzano i legni (questo il primo nome degli sci)» e anche gli sport invernali conosceranno così la loro stagione di splendore: «Il 17 gennaio 1932 è una data storica: si inaugura infatti il nuovo trampolino di salto dedicato a Nino Castelli, una delle glorie dello sport lecchese. Su questo trampolino verranno disputate il 31 marzo di quello stesso anno le gare nazionali di salto: il record per il miglior salto è stato di metri 26.»

Paolina Agliati col marito Francesco Resinelli e il figlio Giuseppe Antonio

L'anno seguente si svolsero invece le gare regionali di sci. Erano presenti il generale Attilio Teruzzi, accompagnato dal prefetto di Como, «giunti alla meta a cavallo ciascuno di un mulo, fradici per l'imperversare della tormenta di neve che li ha accompagnati lungo tutto il tragitto.» E così «davanti al caminetto acceso di casa Gerosa Crotta, i due personaggi si persuasero della necessità di una strada più agevolmente percorribile, lasciandosi strappare la promessa destinata a realizzarsi nel 1935.»
In quegli anni di fascismo imperante, l'ambiente delle Grigne non restò estraneo allo scontro politico. Se nel 1932 «in occasione del decennale fascista il fascio littorio viene installato in vetta alla Torre Costanza» perché «anche lo sport serve al regime che si fa grande delle imprese degli scalatori lecchesi», tre anni prima Giuseppe Perego, Giovanni Gandini e Rinaldo Ponzini avevano scalato una guglia filiforme che battezzarono "Punta Giulia" dedicandola «a Giulia Resta che andava sposa in quei giorni al loro amico Riva. Ma quel nome non aveva soltanto un significato amichevole e romantico, ma ne aveva anche uno politico, poiché i due sposi non facevano mistero della loro ideologia di estrema sinistra, a fascismo ormai saldamente al potere».
La strada e, dopo la fine della seconda guerra mondiale, il "boom economico" e il benessere diffuso decretarono lo sviluppo di quelli che ormai si chiamavano a tutti gli effetti i Piani Resinelli. Il roccolo esisteva ed esiste ancora, ormai conosciuto solo dagli "intimi". Fu sviluppo invero disordinato, con amministrazioni quanto meno distratte, se non proprio miopi: al dì là di un incongruo grattacielo, la località si è ricoperta di case di villeggiatura, ormai alla portata non più soltanto di famiglie facoltose. E quasi tutte, quelle case, sono di lecchesi legati con l'anima a quel paesaggio.

La vecchia miniera


Proprio i lecchesi un po' avanti con gli anni, sfogliando queste pagine, trovano personaggi, nomi e scorci che hanno caratterizzato la loro vita e costituiscono quasi il lessico di una comunità: il panificio Forestan, la fonte Carlanta, il cavalier Paolino Redegalli e il suo chiosco, l'Alveare alpino oggi ridotto a struggente rudere, il Parco Valentino. Parole che, se evocano ricordi, sanciscono un'appartenenza.
Dario Cercek
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