SCAFFALE LECCHESE/50: tappa a Valmadrera per riscoprire il senator Lodovico Gavazzi e... i suoi

I segni sono ancora lì. Nitidi, forti: le ville, la filanda, un asilo e altro ancora. Segni di una presenza importante. Anche se oggi li vediamo come i resti di un’epopea trapassata. Del resto, ovunque nel mondo, c’è abbondante letteratura sull’intreccio di destini tra una comunità di campagna e la famiglia nobile o borghese che in quella terra è andata a costruirvi dimore e fortune. Per esempio, se state a Valmadrera, pensate ai Gavazzi e avrete tutto chiaro.

Villa Gavazzi a Valmadrera

I Gavazzi, appunto: ceppo originario della Vallassina documentato a Canzo già nel XV secolo e nel XVIII, dopo un itinerario un po’ contorto, affacciatosi su Valmadrera, determinandone le sorti per almeno 150 anni. Tra i non pochi personaggi di spicco della stirpe c’è anche Lodovico Gavazzi che per mezzo secolo – tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento – fu parlamentare, prima deputato e poi senatore. Figura che i lettori dello “Scaffale” hanno già incontrato nelle pagine dedicate a Mario Cermenati (QUI).

La ex filanda. Sotto la casa della torre

Quando, alle elezioni del 1900, lo scienziato lecchese fu scelto dai Radicali quale proprio candidato alla Camera dovette infatti sfidare proprio il deputato uscente Lodovico Gavazzi, esponente della cosiddetta Destra storica che era stato eletto per la prima volta nel 1892. In ben due tornate elettorali (1900 e 1904), Gavazzi ebbe la meglio su Cermenati. Con tanto di tumulti provocati dai radicali delusi. Va tra l’altro ricordato come, all’epoca, l’elettorato fosse costituito da un’esigua minoranza di cittadini (nel 1904, a Gavazzi bastarono 3570 voti nell’intero collegio per essere eletto): ciò nonostante, le campagne elettorali erano senza esclusione di colpi, i giornali erano fogli di battaglia, lo scambio d’accuse avvelenato a dir poco. Nel 1909, infine, solo la decisione dell’industriale di non ripresentarsi, consentì a Cermenati di ottenere il seggio di deputato. L’anno seguente, comunque, Gavazzi entrò in Senato (nessuna elezione: allora i senatori erano di nomina regia) dove resterà fino alla morte avvenuta nel 1941.

La copertina del libro

A raccontarci la storia del “senatore” è la giornalista milanese Luisa Bove in un libro (“Lodovico Gavazzi. Senatore del Regno. La famiglia, il lavoro, l’impegno politico”, 319 pagine, 28 euro) edito nel 2013 dall’editore Francesco Brioschi, ma in realtà su iniziativa della stessa famiglia Gavazzi, in particolare di Antonio Bozzi e della moglie Ginia che, in occasione del loro cinquantesimo anniversario di nozze, vollero ricordare il bisnonno comune, appunto Lodovico Gavazzi.
Ne è derivato un volume che è quasi un album di famiglia, una genealogia approfondita (e in coda, una quindicina di tavole dispiegano alberi genealogici intricatissimi). Trattandosi di una sorta di omaggio famigliare, il racconto inevitabilmente ne risente per atmosfere e indulgenze, mentre il tentativo di comporre un mosaico esauriente finisce con il risultare a tratti un po’ dispersivo. Però, a merito, va detto che non ci sembra di imbatterci in censure (anche se il giudizio spetta agli storici e non a noialtri semplici lettori).

La famiglia di Giuseppe Antonio Gavazzi

Il racconto parte da quello che è ritenuto il capostipite dei Gavazzi valmadreresi: Giuseppe Antonio che «nacque il 12 maggio 1768 a Ospedaletto Lodigiano dove suo padre Pietro, nativo di Canzo, era stato dal 1761 esattore, impiego che proprio nel 1768 lasciò per tornare nella sua Brianza dove il clima, la coltivazione del gelso e quindi la bachicoltura erano ideali per chi voleva fare il filandiere. Pietro si stabilì a Valmadrera dove diede vita alla ditta che chiamò appunto “Pietro Gavazzi”.» Partì così l’ascesa della famiglia, consolidata appunto da Giuseppe Antonio che, tra le altre cose, nel 1805 aprì una filanda anche a Bellano e nel 1821 fondò una banca a Milano. Morì nel 1835: ai funerali «concelebrarono trentanove sacerdoti e vi fu una grandissima partecipazione di persone provenienti anche da lontano. La sua morte fu una grave perdita per Valmadrera che nel 1819 lo aveva eletto sindaco. Egli infatti amava profondamente quella città e ne era senz’altro contraccambiato e considerato “figlio di adozione”.»
Dopo Giuseppe Antonio ci fu un altro Pietro che i Gavazzi appellano scherzosamente “il grande”,  il nonno di Lodovico. Ma non stiamo ora a seguire nei dettagli la storia famigliare e i tanti personaggi che la popolano, le trasformazioni societarie, gli intrecci con le dinastie imprenditoriali lecchesi. Limitiamoci solo a dire che dalla piccola filanda aperta nella seconda metà del Settecento a Valmadrera si era arrivati a un vero e proprio impero: nel 1890 annoverava una ventina di opifici in Lombardia. Uno dei quali a Desio per il quale, nel 1851, Pietro scelse come dirigente, pensa un po’, «un certo Francesco Antonio Ratti, “uomo laborioso, forte, umile ed onesto” originario di Rogeno», ma soprattutto padre di Achille Ratti, futuro papa Pio XI (com’è piccolo il mondo, suol dirsi: ci siamo già imbattuti nell’uno e nell’altro (QUI). Complessivamente, erano quattromila gli operai, soprattutto donne e naturalmente tanti, tantissimi bambini. Per una giornata lavorativa di 12 ore che diventavano 14 nella stagione estiva.

Lodovico Gavazzi nacque il 17 luglio 1857 a Milano: «Si sa poco della sua infanzia, se non che ricevette un’educazione severa che segnerà senz’altro anche il suo stile rigoroso in età giovanile e poi adulta.»
Dopo qualche viaggio di formazione all’estero, a 21 anni il servizio militare e a 24 il matrimonio con Vittoria Stabilini con un patto nuziale di 19 pagine che sembra «piuttosto un contratto economico, con reciproci impegni e dichiarazioni del patrimonio posseduto da parte di ciascuno dei futuri coniugi. D’altra parte, questa era la prassi dell’epoca.»
Nel 1892, a 35 anni, la decisione di candidarsi alla Camera. Era un conservatore («Io credo che si ingannino a partito coloro i quali ritengono che occorre strappare agli industriali, agli imprenditori, alla classe borghese, delle concessioni; queste vengono, se debbono venire, per altre ragioni… Noi dobbiamo essere strumento di pace e di conservazione sociale»), era un cattolico ( «Io so perfettamente che mi si chiamerà clericale e reazionario, del che non m’importa nulla; confesso però che non arrivo a comprendere perché chi, nei paesi latini, professa sinceramente sentimenti religiosi, debba essere quasi oggetto di scherno e di ridicolo, mentre nei paesi tedeschi ed anglo-sassoni è onorapo per questi stessi sentimenti»); era un rappresentante degli interessi industriali (non a caso tutti i grossi imprenditori del territorio lo sostennero: Badoni, Fiocchi, Cima, Tubi, Falck). Poteva contare sugli abitanti (su quei pochi che votavano, almeno) di Valmadrera, Malgrate e Bellano dove erano impiantate le sue filande e sui parroci (ufficialmente vincolati dal non expedit papale ma ufficiosamente infaticabili procacciatori di voti): «L’anno della sua prima candidatura – ammette Bove -, ma anche nelle successive elezioni, raccolse la maggior parte dei voti nelle circoscrizioni rurali, politicamente più arretrate e più sottoposte a influenze clientelari e clericali.»
Eletto nel novembre 1892, già il mese successivo guadagnò la prima linea. Assieme a Napoleone Colajanni (repubblicano, che allora significava estrema sinistra, quasi un eversore, stante il regime monarchico), Gavazzi denunciò davanti al Parlamento il caso della Banca Romana che fu il primo grande scandalo politico dell’Italia unita nel quale erano coinvolti i vertici della classe dirigente, financo al presidente del consiglio Giovanni Giolitti al quale Gavazzi chiese un comportamento da gentiluomo e parole di chiarezza. Fu un trauma epocale.

Nel 1902 arrivò in Parlamento la legge che tentava di innalzare l’età minima (ferma a 12 anni) per l’ingresso dei fanciulli al lavoro. Naturalmente, Gavazzi non poteva essere d’accordo. Allontanando il sospetto che agisse per interessi personali e per insensibilità, «a chi gli diceva – scrive ancora Bove – che “gli industriali sfruttano i fanciulli con un lavoro eccessivo”, Lodovico rispondeva con un’altra domanda e, rivolgendosi agli onorevoli Dell’Acqua, Guassoni e Crespi, tutti cotonieri che sedevano dall’altra parte della Camera e sostenevano la proposta di legge (non tanto per ragioni etiche o morali, ma solo perché l’industria cotoniera era in difficoltà), chiedeva: “Mi dicano essi se noi industriali non siamo ogni giorno assediati da genitori che ci impongono quasi di prendere i loro figlioli nei nostri stabilimenti, solo perché hanno raggiunto il nono anno, disertando la scuola senza nemmeno attendere l’esito degli esami? Non è questa la verità? Ora io non voglio esagerare dicendo che i genitori sfruttano la loro prole, anzi dico: è il bisogno che spinge questi padri di famiglia a cercare di ricavare qualche guadagno dal lavoro dei loro figliuoli. Purtroppo qualche volta lo sfruttamento c’è, ed è fatto da quei padri che assoggettano i loro figliuoli al lavoro, mentre essi vanno a sciuparne i guadagno, gavazzando per le osterie ed in luoghi di divertimento” .» Un eventuale divieto al lavoro dei fanciulli avrebbe avuto conseguenze disastrose per molte famiglie. Ancora, si domandava se «per l’igiene del corpo è peggiore la fame o il superlavoro?» paventando la «triste piaga» dell’emigrazione infantile «con fanciulli che finiscono nei fondi di Londra o di New York a vendere figurine di gesso, lustrini di scarpe, fiammiferi o giornali. Parla anche dell’infanzia abbandonata e delle fanciulle, del rischio della tratta delle bianche. Meglio, allora, offrire loro un’occupazione, perché “il lavoro è il più forte scudo, la più forte difesa delle fanciulle (…) Se si alzasse anche per loro l’età fino a 18-20 anni, domanadava Gavazzi, non si faciliterebbe la via alla prostituzione».

Lodovico e Vittoria Gavazzi con il loro discendenti (foto scattata nel 1921 per il loro 40esimo di matrimonio)

Insomma, saranno stati anche filantropi e benefattori, questi industriali di fine Ottocento, ma non possiamo negare loro un’indole padronale delle più retrive. Del resto, a proposito di riposo settimanale e festivo, lo stesso Gavazzi argomentava in questo modo: «Occorrerebbe anzitutto togliere l’inconveniente pel quale il riposo festivo per alcuni individui, costituisce un sopralavoro per altri. Da noi l’abitudine è che nella domenica e nei giorni festivi tutta la popolazione si riversa sui tramways, sulle ferrovie, sui battelli a vapore, nei teatri, nelle osterie, nei circoli di ricreazione; è evidente che se noi non restringiamo o sopprimiamo il lavoro in questi esercizi, il riposo festivo delll’uno si risolverà in una maggior fatica per coloro che a questo servizi debbono attendere». La domenica dovrebbe essere riservata solo ai doveri religiosi.
Naturalmente, cinquant’anni di attività politica del deputato e poi senatore Lodovico Gavazzi non possono essere liquidati così ed è nel contempo difficile una sintesi soddisfacente. Da parte sua, il libro di Bove non si azzarda in un bilancio in qualche modo definitivo. E, del resto, il 1892 e il 1941 sono due mondi completamente diversi.
Certo, Gavazzi fu molto attivo destreggiandosi tra grandi e piccoli temi: dai problemi economici italiani alle piccole esigenze di collegio.

L'immagine scelta per la quarta di copertina

Era, quella, l’epoca delle ferrovie e del dibattito sui trafori alpini con lo Spluga che aveva buone carte (avrebbe significato il passaggio di una linea internazionale da Lecco), ma poi gli svizzeri scelsero il San Gottardo: il “nostro” spinse per lo Spluga e si rassegnò poi a sostenere il Gottardo.  Ma c’erano anche i collegamenti minori che dovevano essere l’ossatura del sistema industriale (e fu Giuseppe Gavazzi, il padre di Lodovico, a promuovere la realizzazione della linea ferroviaria Lecco-Como sulla quale Valmadrera poté avere la sua stazione). E i le strade (la Bellano-Taceno, per esempio), i collegamenti telefonici e quelli telegrafici, l’allargamento del ponte Visconti a Lecco.
Poi, gli eventi storici spazzarono poi via non solo l’Ottocento, ma l’intera classe politica liberale, con il macello della prima guerra mondiale, il cosiddetto irrompere delle masse sulla scena politica e il trionfo del fascismo. Nei confronti del quale – ci dice la stessa Luisa Bove – Gavazzi avrebbe sempre nutrito un’avversione esplicita per quanto non lo si vide  impegnato in  un’opposizione organizzata. Però, nel 1928, fu tra i 46 senatori che votarono contro la riforma elettorale voluta da Mussolini: «fui questa l’ultima volta che si poté votare liberamente» ebbe a scrivere nei suoi “Ricordi” la figlia Adele.

Con la figlia Adele alle terme

Il libro non si dedica solo all’attività pubblica di Gavazzi ma indugia, come detto, anche sulle vicende famigliari seguendo nascite e matrimoni distribuiti nell’arco di oltre  un secolo dispiegando l’evoluzione dei Gavazzi di Valmadrera con i vari rami che si dipartono dal tronco principale e dando anche spessore a una serie di piccoli episodi “domestici”. Oltre a raccontarci le vite di altri esponenti della stirpe. La sensazione dell’album di famiglia è del resto rafforzato dalle tante fotografie che arricchiscono il libro con un a galleria che alterna i tradizionali ritratti in posa alle scene più prosaiche come una vacanza al mare o una gita in montagna. E soprattutto grandi gruppi a raccogliere intere generazioni.



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Dario Cercek
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