SCAFFALE LECCHESE/49: "Pietre di fede", i volumi di Angelo Sala sulle chiese di Lecco

«Un gran silenzi in gir per un mument: desmetten i ses lodoj de cantà, el par ch'i tremen pioeu i fujett al vent e l'acqua la finess de ciciarà: l'è alura che se sent una canzon che corr per el seree de la matina da Lecch e da Laurca a Varigion da Cius e da Belee ala Bunascina; l'è alura che soeu a San Giovan nel va giò in fund al coeur la puesia sentend, adess de magg, i nost campann ch'i suna toeucc insemm l'Ave Maria».

Angelo Sala

Così, nel 1929, il giornalista lecchese Uberto Pozzoli dipingeva in una poesia il concerto di campane delle chiese lecchesi in una mattina di maggio «quand i sunen toeucc insemm l'Ave Maria». Quei rintocchi diffusi sembravano e sembrano voler essere segno tangibile di una presenza, un richiamo, una testimonianza proveniente dalle tante chiese della città, grandi e piccole. Non che tutte si uniscano al concerto, alcuni campanili ormai sono ormai muti da tempo: talune chiesette sembrano avere esaurito la loro funzione e se ne restano lì, piantate in mezzo a un campo, monumenti di un'epoca passata. Di altre, addirittura, i più non sanno nemmeno l'esistenza.

Castello

A condurci in una lunga e appassionata passeggiata tra le chiese e i campanili della città è Angelo Sala con quell'importante opera pubblicata tra il 2008 e il 2010 intitolata "Pietre di fede": tre volumi per quasi settecento pagine complessive, pubblicati con le Edizioni Monte San Martino, logo ideato appositamente - e poi soltanto, a quanto ci consta - per questa iniziativa dall'editore Claudio Redaelli. "Pietre di fede" si può senz'altro dire rappresenti quasi una summa della storia religiosa della nostra città.

Angelo Sala, morto nel 2013 all'età di 61 anni, è stato un giornalista e un ricercatore storico, un cattolico impegnato, autore di numerose pubblicazioni di storia e di religiosità locale. Con questa impegnativa opera ha praticamente messo ordine in uno sterminato archivio, cucendo scritti che autori differenti hanno disseminato tra giornali, libri e libretti, semplici opuscoli e più corposi approfondimenti, alternando testi dall'indiscusso taglio didattico ad altri che sfoderano la brillantezza dell'articolo di giornale. Il racconto delle chiese cittadine, di ciascuna chiesa, non è un'arida descrizione storica o artistica, ma uno spunto per guardare alla religiosità di questa terra, alle feste, ai riti, al vivere dunque di una comunità raccolta attorno al proprio campanile. E quello del campanile non è luogo comune. Perché accanto alle buone azioni ci sono anche gli episodi meno edificanti. Delle une e degli altri si trovano tante tracce scorrendo queste pagine.


Questo raccontar di chiese è diventata dunque l'occasione per indagare il sentimento religioso lecchese. Oltre a essere un tributo a tutti coloro - e tante sono le persone citate - che nel corso del tempo hanno faticato su vecchie e nuove carte per ricostruire epoche, riesumare storie, descrivere una realtà dalle tante sfaccettature: storici, giornalisti, appassionati, ai quali Sala cede la parola nel tentativo di attraversare tempi e luoghi con un grande racconto polifonico.
Il testo è inoltre integrato da uno straordinario corredo fotografico. Definirlo corredo sarebbe peraltro oltremodo riduttivo, trattandosi di una mole incredibile di immagini provenienti da fonti diverse e molte certamente da inusitati cassetti a documentare da una parte il patrimonio artistico e dall'altra i momenti della devozione popolare.

La passeggiata si sviluppa in senso geografico più che storico. La scelta è stata infatti quella di predisporre una sorta di mappa: rione per rione, chiesa per chiesa. Comprese quelle scomparse. Come il monastero di San Giacomo fuori le mura demolito dal Medeghino e dallo stesso trasferito a Castello dove sarà soppresso da Napoleone e poi abbattuto definitivamente nel 1936 (gli affreschi salvati sono conservati alla Vittoria). O come il monastero della Maddalena pure cancellato dal Medeghino. O quelle "ritrovate", come la chiesina dell'orfanotrofio che la gran parte dei lecchesi ha conosciuto soltanto con l'abbattimento dell'acciaieria del Caleotto.

E' impossibile di questi tre libri comporre una sintesi. Ci contentiamo, qui, di semplici spigolature, molto dovendo trascurare e lasciando ai lettori interessati il gusto di sfogliare quelle quasi settecento pagine.
In origine, si sa, c'era il poggio di Santo Stefano, sul quale sorse attorno al VI secolo un presidio fortificato bizantino e il primo edificio cristiano cittadino dedicato appunto a Stefano. Il quale sarà stato il primo "patrono" lecchese: «Nei secoli successivi, quando l'insediamento militare del colle lasciò il passo al nuovo centro civile dedicato ai traffici del lago» e dove sorse quella che diventerà la basilica, «la scelta del patrono cadde su san Nicola, popolare tra i naviganti. Stefano rimase come compatrono»: risale a quei tempi lontanissimi l'usanza ancora viva di bruciare il pallone durante la messa solenne in basilica il 26 dicembre.

Festa della Madonna del Rosario

Intanto, i nuovi borghi che si formavano nella conca lecchese voltavano sempre più le spalle all'antico poggio e all'oratorio di Santo Stefano che all'inizio del XVII secolo era in condizioni ormai disastrose Solo molti secoli dopo, nella seconda metà del Novecento, quando il borgo ormai era città a tutti gli effetti, sotto quel poggio tornò a erigersi una chiesa: quella dei francescani che ritornarono a Lecco dopo lo sfratto napoleonico di un secolo e mezzo prima da Pescarenico.

Nel frattempo, anche la rocca si era trasferita a dare aspetto e nome a un luogo che ancora oggi chiamiamo appunto Castello e la cui chiesa di San Gervaso e Protaso fu per un periodo non brevissimo la principale della pieve.
Il Seicento fu anche il secolo in cui i lecchesi del borgo a lago decisero che un patrono e un compatrono non bastassero, volgendo lo sguardo alla Madonna del Rosario in nome della quale sarebbe stata celebrata la festa grande del borgo, lasciando a San Nicola le mele per i bambini e Santo Stefano il suo pallone natalizio: «Si sa che nel ‘600 c'era il vizio di esagerare un tantino: ma quando Giannantonio Agudio ci dice che Padre Mariano, cappuccino, era "una gran tromba della parola divina, abisso di virtù e pelago di scienze", bisogna credergli anche senza averne tutta la voglia, perché doveva essere davvero un oratore straordinario per riuscire, in una sola predica, ad indurre i lecchesi a fare quel po' po' di festa, con la quale, la domenica in Albis del 1624, il 14 aprile, coronarono la Madonna del Rosario acclamandola Regina e Imperatrice di Lecco!».

L'organo di Acquate

Campanili, dicevamo. Le comunità crescevano assieme all'animosità e i contenziosi. Quando nel 1584, per esempio, l'arcivescovo Carlo Borromeo, nell'ambito di una riorganizzazione plebana, decretò che prevosto e canonici dovessero trasferirsi in San Nicola, Castello non gradì il declassamento. Sorse allora quell'annosa controversia del cosiddetto perdono conteso, a lungo causa di discordia.

Olate

Non distante dalla basilica, c'è la chiesa che sarebbe intitolata a San Calimero benché nessuno abbia memoria di quella dedica: i lecchesi l'han sempre detta di santa Marta per via della Scuola dei disciplini di Santa Marta che vi aveva sede. Del resto anche a Castello, la piccola chiesa rossa dei santi Nazaro e Celso è conosciuta come la chiesa di san Carlo, mentre a Chiuso il piccolo scrigno affrescato di San Giovanni Battista non è sempre stato chiamato la chiesa del beato Serafino?

E' ai disciplini, tra l'altro, che si deve la tradizione della distribuzione dei "michini" (piccoli pani) proprio per la festa di santa Marta. Soppressa la scuola, nel 1795 subentrò la Confraternita del Santissimo Sacramento che mantenne la consuetudine, ma le casse non permettevano sciali: «Si dovettero quindi pagare i "michini": e prima i confratelli ne diedero un cartoccio per una palanca, poi ci vollero due soldi, poi diventò piccolo il cartoccio e quest'anno con cinquanta centesimi non si compravan due dozzine i "michini". Come si fa ad andare avanti con questo carovita?».

L'altra chiesa di quello che oggi è il centro cittadino è Nostra Signora della Vittoria alla cui costruzione si cominciò a pensare durante la Grande guerra proprio per onorare i Caduti (venerati nella cripta e ricordati quotidianamente coi rintocchi a martello delle ore 19): venne consacrata nel 1932 mentre nel 1940 venne posta sul campanile la grande croce di ferro all'interno della quale c'è una reliquia della Croce di Cristo «conservata in una cassettina di rame argentato e circondata da quattro liste di pergamena con le firme di oltre mille lecchesi».

Proclamato santuario mariano, il nuovo edificio di culto era ritenuto necessario anche per venire incontro alle esigenze dei fedeli di quelle zone un tempo prateria e ora sempre più popolose: il borgo ormai andava oltre la vecchia cinta muraria estendendosi verso Pescarenico
Già, Pescarenico, il piccolo villaggio dei pescatori che aveva addirittura due chiese, quella secolare di San Gregorio e quella del vicino convento dei cappuccini. Con conflitti costanti, dai risvolti a volte grotteschi. Oggi, scomparso da due secoli il convento, la vecchia chiesa dei cappuccini è dedicata a San Materno: è la parrocchiale del rione e ha praticamente inglobato la piccola San Gregorio.

Processione della Madonna di Lourdes

Mentre Castello e Lecco facevano baruffa, c'era un altro villaggio che cresceva. A dirla tutta, era anche il più esteso e popoloso e dal punto di vista ecclesiastico godeva di una certa autonomia: Acquate, con la chiesa parrocchiale dalle radici antichissime e dedicata ai santi Giorgio, Caterina ed Egidio. Ma la più venerata è santa Lucia, culto derivante probabilmente da Venezia per via bergamasca e scesa quaggiù probabilmente dai passi montani.
La "perla" della chiesa è l'organo, legato nientemeno che a Massimiliano d'Asburgo, il fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe, che ne fece dono agli acquatesi nel 1858: «Casa d'Asburgo inviava nel Lombardo Veneto l'arciduca ereditario Massimiliano in veste di paciere e di mediatore per ingraziarsi gli italiani. Un bel mattino, Massimiliano capitò inaspettato ad Acquate e restò colpito dal fatto che, come gli disse il parroco don Giosuè Valsecchi, «la chiesa è nuovissima, il paese è povero e mancano i fondi per acquistare perfino un modesto armonium: speriamo che in avvenire qualche benefattore ci venga in aiuto».

San Giovanni

Fermiamoci qui. In tutto questo nostro scrivere abbiamo elencato soltanto un pugno delle tante chiese contemplate in questa sorta di censimento. Di tante resterebbe ancora da parlare. Per i tesori conservati (le tele di Bernardino Luini e Gaudenzio Ferrari a Maggianico, ad esempio; quelli novecenteschi di Ennio Morlotti all'Airoldi-Muzzi di Germanedoi o di Orlando Sora in Erna a al Caleotto), i templi sui dolci colli alle pendici del Resegone (Falghera, Malnago e Versasio nel 1999 data alle fiamme da teppisti inneggianti a Satana) o quasi minacciate dagli incombenti San Martino e Madela (Rancio, Laorca), l'affascinante antìtichità di Sant'Egidio a Bonacina, le leggende di San Martino in Agra.

Versasio

E naturalmente c'è anche tutta una schiera di preti e parroci che in queste chiese hanno officiato, chi lasciando segni indelebili e chi invece eclissatosi nel gorgo della storia: raccontando la storia delle pietre, Sala si sofferma anche sulle figure che hanno vivificato quelle pietre, tra personaggi in odor di santità e altri d'eresia.
Dario Cercek
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