SCAFFALE LECCHESE/44: nelle pagine sulla Liberazione il sacrificio di Alberto Picco

Mezzogiorno e mezzo del 27 aprile 1945. Milano era già libera da due giorni. A quell'ora, Benito Mussolini era ingloriosamente in fuga travestito da soldato tedesco verso l'Alto Lago, chissà se davvero confidando in quel favoleggiato, e a detta di molti improbabile, ridotto valtellinese. Ma a Lecco si combatteva ancora: a Pescarenico, lungo quel corso Vittorio Emanuele poi intitolato proprio ai Martiri della Liberazione. Un gruppo appartenente alle brigate nere era asserragliato in una casa assediata dai partigiani. Gli ultimi colpi di una guerra ormai finita e dall'esito scontato. Ma ancora si continuava a sparare e morire.

 

Alcune immagini di Alberto piccolo da bambino e da giovane


Sul ponte della ferrovia in via Previati c'era un giovane studente universitario. Poco prima, in piazza Manzoni, aveva chiesto ai capi partigiani «che lo si mandasse in qualche posto dove ci fosse del "lavoro" da fare. Fu mandato. E fu la fine. Sul ponte della ferrovia il proiettile di un cannoncino lo colpiva alla testa asportandogli quasi tutto il cranio». Quel giovane si chiamava Alberto Picco: non aveva ancora compiuto vent'anni e già da tempo era impegnato nella lotta clandestina contro i nazifascisti. Era studente universitario a Milano, facoltà di medicina, dopo il diploma ottenuto al liceo classico "Manzoni" diretto da don Giovanni Ticozzi. Proprio del prete-preside sono le parole che raccontano il sacrificio del giovane: sono estratte da un fascicolo di una ventina di pagine solamente ma tanto prezioso. Venne stampato nell'aprile del 1946 dalla tipografia dell'orfanotrofio lecchese proprio su iniziativa dei docenti del liceo e degli amici: «Fu la calma, serena freschezza della notte di veglia presso la salma di Alberto a ispirare ad alcuni suoi amici questo disegno - così si legge nella premessa di Guglielmo Paolo Persi, insegnante -. Furono alcuni pomeriggi estivi, passati nel riordinare i suoi libri e i suoi scritti, a maturare questo frutto della amicizia memore e grata». Oltre a quelli di Persi e don Ticozzi, la pubblicazione raccoglie anche gli interventi degli amici Alfredo Gaffuri, Domenico Colombo, Elio Rossi, Gianni Discacciati e Boris Georgiev, pittore di nazionalità bulgara ma trapiantato in Italia, oggetto di particolare apprezzamento nella prima metà del Novecento e oggi non del tutto dimenticato.

Alberto Picco nel ritratto di Georgiev

Proprio Georgiev disegnò l'ultimo ritratto del molto più giovane amico (contenuto nel fascicolo assieme ad alcune fotografie). Nei loro libri dedicati alla lotta di liberazione lecchese (rispettivamente "Una Resistenza" del 1965 e "Nerina non balla" del 1995), i compianti Silvio Puccio e Aroldo Benini scriveranno poi abbondantemente della battaglia di Pescarenico e del suo seguito discusso: la fucilazione dei sedici fascisti allo stadio, per la quale ancora oggi la destra nostalgica coltiva sentimenti di rivalsa. A noi, qui, interessa rivolgere lo sguardo alla vicenda umana di Alberto Picco, scorrendo appunto quelle pagine del 1946, scritte dunque soltanto un anno dopo e perciò tanto importanti e significative, quando ricordi e sensibilità erano ancora vividi, nonostante la città avesse già voglia di dimenticare: per non angustiarsi oltre, per poter guardare avanti, ma anche per convenienza. Il tempo non aveva ancora lenito talune ferite o consolidato quell'epica della Resistenza impostasi negli anni successivi. Epica la quale avrebbe finito col mettere in ombra il consenso degli italiani al fascismo e alle sue nefandezze. In quella primavera del 1946 i fatti nudi e crudi, le compromissioni, le vigliaccherie, gli opportunismi, le "zone grigie", erano ancora evidenti: piaghe aperte. E certi volti ancora sotto gli occhi.

Il ponte della ferrovia di via Previati con la lapide commemorativa

«Mi è caro - scriveva don Ticozzi parlando di Picco - trovare nella sua recente attività la spiegazione di buona parte della sua condotta negli ultimi due anni di liceo. Erano gli anni sciagurati in cui cominciava a sgretolarsi sempre più rapidamente e rovinosamente quel castello fittizio costruito sulla violenza, sulla frode, sulla menzogna che si chiamava "potenza dell'Italia imperiale e fascista"; e i credenti dell'"immancabile vittoria" diventavano sempre più pochi, illusi e fanatici pur questi». Dopo l'8 settembre - proseguiva in maniera impietosa il preside -, passato «un brevissimo tempo in cui parve che un soffio di idealità scotesse gli animi giovanili e li chiamasse alla riscossa, si cadde in una strana condizione di attesa, di incertezza, di paura, di apatia; e ragioni più di pusillanimità che di prudenza, più di tornaconto immediato e personale che di dignitosa e vigile astensione, regolarono la condotta di troppa gioventù». Non così, Alberto Picco che «fu uno dei primi ad entrare in formazioni clandestine, dirette a procurare viveri e armi ai partigiani, a condurre oltre il confine i perseguitati politici, a promuovere agitazioni, a mantenere vivo il fuoco sacro della ribellione e della redenzione nazionale dall'obbrobrio della doppia schiavitù. Frequentava la scuola. Talvolta era assente dalle lezioni; e veniva poi nel mio ufficio per dare spiegazioni sul motivo. Non mi diceva bugie, che gli ripugnavano. Diceva che "impegni gravi" gli avevano impedito di essere presente. E mi guardava. Io guardavo lui: e vedevo ancora i segni della stanchezza in quel volto onesto e fiero; sapevo che aveva dovuto viaggiare intiere giornate per strade impervie e pericolose per salvare persone dal carcere, dalla deportazione, dalla morte». Così testimoniava anche il professor Persi: «In iscuola, ogni volta che alle lezioni del mattino Egli non era presente, noi sapevamo dov'Egli era. Ci si intendeva tacendo. Ancora qualche perseguitato politico, ancora qualche israelita, ancora qualche soldato alla macchia, questa notte ha varcata la frontiera, verso la libera Elvezia, con l'aiuto di Alberto Picco. Così pensavamo. E il cuore silenzioso ci sorrideva». Proseguiva il docente: «La vigilia del Natale 1943 non ebbi i suoi abituali auguri. Era stato catturato dai tedeschi. Fu trattenuto in carcere per oltre un mese. Soffrì percosse e torture e non parlò» Rilevava don Ticozzi: «Imprudenza e delazioni (a tal punto di abbiettezza morale si era precipitati da denunciare i fratelli con tale frequenza e accanimento da suscitare meraviglia e sprezzo persino nel Tedesco!) lo fecero arrestare, con due compagni; con loro fu sottoposto a interrogatorio e percosse; e fu detenuto fino agli ultimi del gennaio del '44». Alfredo Gaffuri, uno dei suoi compagni di classe, ricordava: «Nelle belle giornate di sole spesso e volentieri ai banchi di scuola preferivano una panca del lungolago o i praticelli che lambiscono verdi i piedi del Resegone e sui quali cercavamo di studiare la vita». Erano gli anni dell'adolescenza «ch'è forse il più bello e il cui ricordo resta incancellabile per quanti anni possano trascorrere». «Leggeva molti libri - aggiungeva Gianni Discacciati -: leggeva intensamente, con capacità e intelligenza. Era facile trovarlo in tale raccoglimento su quella sua panchina in fondo al lungolago e discorrere con lui di quanto ci circondava, di chi ci voleva bene o male, delle nostre passioni, dei nostri tormenti ed erano tanti in quei giorni». E di giorni vennero poi quelli «perigliosi della guerra - rammentava ancora Gaffuri - e quelli tremendi della oppressione nazista. Fu allora che si rivelò, in piena luce, il carattere indomito di Alberto, che aborriva l'invasore straniero e i suoi turpi reggicoda e di questo aborrimento non faceva mistero».

«Terminato il liceo - parole di Persi -, sovente egli veniva a trovarmi. Si parlava di freudismo, della psicoanalisi, il suo animo filosofico esplorava volentieri l'abisso del subconscio. Il misterioso lo attraeva. Amava molto anche la musica, Mi parlava di Beethoven». «Era vero amore, quello di Alberto per la musica - sottolineava Domenico Colombo -: non mera brama di godimento, ma ammirazione sconfinata verso i grandi Maestri. E aveva in cuore un anelito continuo di immedesimazione» che «lo teneva immobile presso la radio per ore e ore, lo spingeva alla ricerca dei dischi incisi dai migliori interpreti, lo portò allo studio del pianoforte» e «infine, intraprese egli stesso l'arduo lavoro della composizione. La morte lo ha arrestato ai primi righi, riempiti a matita di note confuse, che si intitolano: "Impressioni dal Werther di Goethe - Pianto dirotto su Werther morto". Presentimento? Dio solo lo sa». «O musical corona di gran tempesta immane! - recitava così una poesia che lo stesso Picco scrisse il 17 novembre 1944 ("Armonia e vita") - La polvere è già ghiaccio e dardeggianti abissi aprono le stelle. Tu questi riempi e su quello t'adagi. E pensi che il mio canto sia soffice silenzio poiché l'uom non t'ascolta. Ma t'ode Iddio e gode che l'uomo e l'animal hanno ugual sorte conservati nei ghiacci alla memoria dei mondi che verranno». La spiritualità: per l'amico Boris Georgiev «egli stupiva con la sua volontà di realizzare una sua cultura assolutamente al di là di quello che oggi costituisce la aspirazione della maggior parte dei giovani, con un tenace lavoro di studio, di lettura e di approfondimento dei problemi superiori dello spirito. La sua esuberante giovinezza e forza fisica avrebbe potuto fare di lui uno sportivo professionale di non comune valore. Si vede che egli era conscio della superiorità dei valori spirituali su quelli fisici».

In quanto al purtroppo breve periodo universitario, era stato Elio Rossi a condividere taluni momenti con Alberto Picco che si interrogava sul da farsi «per svegliare un poco la scarsamente combattiva Università milanese: convinto com'era «che la classe operaia aveva essa pure diritto di accedere liberamente alle più alte e più pure fonti della cultura, e di far scaturire dal suo seno, in tal modo, i dirigenti di una Patria rinnovata, Alberto pensava che l'Università sarebbe potuta divenire uno degli organismi più decisivi, per la formazione di nuovi uomini di governo, qualora i suoi frequentatori fossero stati moralmente ed intellettualmente degni. "E' forse meno dannosa l'ignoranza che una dottrina male assimilata o mal spesa", mi diceva, "l'abbiamo visto negli ultimi anni"». In quel fascicolo, era lo stesso Rossi a raccontare la morte di Picco lungo la ferrovia: «Aiutò anch'egli a spingere sulla linea di Como il carro blindato con la mitraglietta a quattro canne: ritornò quindi indietro, per vedere di apprestare anche l'altra mitraglia, ma i tentativi lunghi e infruttuosi lo stancarono. Alle 12,30 lasciò la mitraglia, prese il suo mitra e andò a raggiungere i compagni, nel punto più vicino al nemico: pochi minuti dopo cadeva presso il binario. Fulminato da un proiettile». «Due immagini mi stanno fisse, di lui, nell'animo - lo strazio di Persi -. La prima, dai banchi della scuola: un po' irrequieta, prigioniera quasi nel chiuso dell'aula, scintillante nei piccoli rotondi occhi neri ogni qual volta la mia parola, cauta per gli avversi tempi, afferrava un ricordo e suscitava un anelito di libertà. L'altra, immobile, distesa sul letto di morte Sempre rivedrò questa immagine, nel suo pittoresco costume alpigiano. Ma quegli occhi erano chiusi, suggellati per sempre. Gelida la fronte. Una bianca benda nascondeva l'orribile ferita del cranio che la mitraglia aveva aperto». A ricordare Alberto Picco rimane una lapide sotto la volta del ponte della ferrovia in via Previati. A poche centinaia di metri dal Politecnico: sarebbe bello che l'università lecchese dedicasse un suo spazio a un giovane universitario (anche se d'altro indirizzo di studi) morto per la libertà.

Il funerale di Alberto Picco

A tramandarne la memoria - va giustamente ricordato - c'è anche la società di pallavolo cittadina che proprio quest'anno celebra il cinquantesimo: venne infatti fondata nel 1971 da quattro giovani universitari lecchesi: Gianni Beretta, Andrea Frigerio, Renato Maggi e Marco Sangalli. I quali vollero appunto onorare la memoria di Alberto Picco.


PER VISUALIZZARE LE PUNTATE PRECEDENTI DELLA RUBRICA CLICCA QUI.
Dario Cercek
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.