SCAFFALE LECCHESE/21: un manicomio e una storia d'amore nel primo romanzo del giovane Mattia Conti

C’è una strana umanità a Lecco e sul Lario nell’anno 1891. Un’umanità di teatranti alla deriva, di pazzi non pazzi e di pazzi veri, di streghe e marginalità varie. Quasi una corte dei miracoli su cui veglia, quale sorta di nume tutelare, nientemeno che Antonio Ghislanzoni. Proprio lui: il librettista, scrittore, giornalista, che sta passando i suoi ultimi anni di vita a Caprino Bergamasco. Unico personaggio reale. E in qualche modo “ispiratore” del dramma che andiamo a raccontare. Il resto è autentica finzione o autentici travestimenti: nessuno è realmente esistito, però «la loro voce, le loro lettere, i loro gesti sono spesso eco delle storie incontrate» durate una ricerca negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico di Como, il manicomio, il San Martino. Per quanto nulla di quanto narrato sia mai accaduto e di vero ci siano soltanto i luoghi teatro della vicenda.



Siamo tra le pagine del romanzo “Di sangue e di ghiaccio” del lecchese Mattia Conti, uscito nella primavera del 2018 per le edizioni “Solferino” legate al Corriere della Sera. Se non ricordiamo male, ebbe addirittura l’onore, quel titolo, di essere il primo in assoluto della nuova iniziativa editoriale. Oltre che primo romanzo di un autore già in precedenza premiato (con il Campiello Giovani, per esempio) per i suoi racconti.
La vicenda narrata da Conti è una fantasmagorica storia d’amore che vede protagonista un ragazzo soprannominato Ranocchia: i genitori lo hanno affidato all’attore, regista e improbabile impresario Baldo Baldini, il quale vede in lui qualche talento teatrale.
Sennonché, il giovinetto un giorno finisce in manicomio. Per scelta. Con un disegno preciso: ritrovare la propria maestra, rinchiusa tra le mura della “pazzeria” per le turbe provocatele da una seduzione finita male e da un parto incombente.
«Lecco si presentava come una cittadina disadorna, che solo l’arrivo al lago, con il respiro aperto delle montagne raddoppiate dall’acqua, rendeva memorabile. I suoi abitanti non spiccavano certo per galateo, attenzione al cappello o al belletto, ma piuttosto per un senso pratico che compensava l’inettitudine al lusso».


Mattia Conti e la copertina del libro

Si muovono in questa cornice i personaggi lecchesi: il Ranocchia, prima di tutti. E con lui Mariuccia, figlia del mugnaio ma non proprio. Considerati entrambi “non del tutto finiti”, per usare il gergo un po' sprezzante dei giorni nostri. Testimonierà ben l’opposto, l’evolversi della trama. Si aggiungono appunto Baldo Baldini a capo di una compagnia teatrale senz’arte né parte; Bianca Gonzalo, per i borghigiani semplicemente “la maestrina” («nomignolo che odiava, dal quale si sentiva sminuita, neanche fosse un insulto»). E un sindaco affascinato dallo spiritismo a quei tempi di moda; il parroco don Romerio in guerra o in combutta (non è molto chiaro, forse tutt’e due le cose) con la strega Patrizia che abita in una catapecchia sopra Onno con un cane chiamato Inferno e alla quale si rivolgono anche emeriti insospettabili.
Ci sono poi gli “altri”, quelli del manicomio: i pazienti naturalmente, non manca neppure un Napoleone; ma anche il Dottor Lucio, medico lombrosiano che effettua interventi sperimentali dalle nefaste conseguenze sui pazienti fornitigli da Clementina, infermiera e domina della struttura psichiatrica; infermiera a sua volta ricattata, per via di debolezze sessuali, da Damiana, pazza popputa che nottetempo si aggira liberamente tra i reparti, intrufolandosi con gaudio anche in quelli maschili. Oltre a un corteo di altre figure grottesche. Senza trascurare un ragazzino particolare la cui identità sarà chiara soltanto nelle ultime pagine.


Un'illustrazione contenuta nel libro

Ranocchia, dunque. Per qualche tempo ospite di Antonio Ghislanzoni che per misurarne la tempra eccede forse un po’ nei metodi pedagogici. Il quale Ghislanzoni, dirà al Baldini, che glielo aveva raccomandato: «Io e te, i nostri teatri, e i nostri taccuini, e i nostri capricci, quanto dureranno? Noi non siamo il Manzoni o Stoppani, siamo dei vecchi scapigliati stanchi, buoni solo a fare scherzi e prendere per i fondelli i borghesucci. (…) Moriremo magari prima che inizi il Novecento e dureremo ancor meno nella memoria e nella storia. Il Ranocchio, invece, io credo che il Ranocchio durerà. Non lui, certo, capiscimi. La sua razza però non si può estinguere. E’ la dinastia dei pazzi e dei diversi, di quelli che come casa hanno la strada o il lebbrosario, gli appestati che solo a vederli senti il campanello dei monatti. Il Ranocchio è uno di loro».
Dopo il breve soggiorno a Caprino, il giovane prende lezioni da Bianca Gonzalo: il padre vorrebbe vederla musicare e la istruisce all’uopo, non lesinando bacchettate severe che lasciano le mani segnate. Si innamora, Ranocchia? Diciamo di sì, anche se si tratta di un sentimento indefinito. Certo, è geloso del rapporto che lega Bianca a Kristof, «un crucco muso di topo», un austriaco apparentemente sulla via di diventar guardia svizzera, ma in realtà impenitente donnaiolo.
L’imparare a leggere, scrivere e far di conto lascia poi il posto a discussioni più profonde, al parlar dei poemi che Baldo dà a Ranocchia, il quale non tutto discerne e ne chiede dunque spiegazione a Bianca. Alla cui voce, Conti affida una stroncatura dei Promessi sposi, racchiusa nelle parole di una riflessione molto femminile (femminista?): «Non leggerlo, quel romanzo, non ci perdere tempo. La protagonista è una sposina che non alza mai la testa, non puoi imparare niente sul mondo di lei. Le donne reali non sono così, anche a testa bassa noi si lotta, nessuna si rassegna e fa voti ai santi quando le cose vanno male. Si capisce che quel libro l’ha scritto un uomo, voi ci sognate a quel modo. Ma le donne così non esistono. Se non sulla pagina, si capisce».


L'ex manicomio in una foto d'epoca

Il dialogo diventa anche un’introspezione reciproca, un raccontarsi le fatiche d’ogni giorno, la fatica del vivere. Un dialogo tra un giovanissimo discente, aspirante attore pieno di paure, e una giovane docente che a poco a poco va immalinconendosi sempre più. E a lui che parla di morti fatti di neve, lei risponde che «noi siamo di sangue, non di ghiaccio. E dobbiamo ricordarcelo sempre, anche quando ci sembra di scioglierci… noi abbiamo un corpo e siamo di sangue».
Poi, il manicomio come un girone infernale popolato di pellagrosi (la malattia che arrivava d’estate, «cucchiaio dopo cucchiaio»), dementi, idioti, imbecilli scesi da «piccoli paesi di montagna, in cui tutti erano cugini e ne bastava uno, di cretino, per insozzar le gambe di due o tre montagnatte», gli ubriaconi «cacciati in quelle stanze a calci in culo dal prefetto», qualche sifilitico. Ciascuno poteva «vantare storie e precedenti agli antipodi ma i più erano stati rinchiusi da qualche manciata di parenti o da mezzo paese».
In quella bolgia, Ranocchia va alla ricerca di Bianca, ma a questo punto ci fermiamo: la storia è soltanto da leggere. E merita. Conti è un grande narratore e ci sono pagine davvero potenti. Forse, qualche raro passo l’abbiamo letto come una sbavatura, ma si tratta davvero di dettagli. Piccoli: nulla tolgono al romanzo. Che è un bel romanzo.
Dario Cercek
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