SCAFFALE LECCHESE/18: omaggio a Vitali, in attesa del 'federale', trent'anni dopo 'Il procuratore'

La copertina del primo romanzo
Per via del covid e di “Un uomo in mutande” stava per finire in cavalleria il trentesimo anniversario dell’esordio letterario di Andrea Vitali. Anno 1990: il romanzo “Il procuratore” ottiene il primo premio “Mont blanc” per giovani scrittori inediti e la pubblicazione per i tipi dell’editrice Camunia fondata e diretta da Raffaele Crovi. Ci piace ritornarvi, proprio alla vigilia dell’uscita nel nuovo romanzo dello scrittore bellanese: “Nessuno scrive al federale”, nell’ormai inaugurata serie delle indagini del maresciallo Maccadò e atteso nelle librerie per il 29 ottobre.
C’era una volta, dunque, il “procuratore”. Che magari uno pensa a qualche figura istituzionale d’alto profilo. Trattasi invece di un procuratore di “donnine”, per dirla come usavano le cronache di qualche tempo fa. E cioè un lenone, un ruffiano. Si chiama Marco Perini, lascia Bellano per Milano e altre città, si lega a giovani prostituite, vive nulla facendo e campando sulle spalle delle ragazze, opportunamente peritandosi di sperperare senza patemi.
La vicenda raccontata da Vitali inizia il 1° novembre 1938, quando Perini torna in battello a Bellano, accolto come un forestiero qualsiasi e invero un po’ sospetto. Di mezzo c’è una cospicua eredità famigliare. Si tratta, per intenderci, del romanzo in cui le ceneri del colonnello Reginald Scott, il defunto marito di zia Egle, vengono utilizzate per l’impasto degli gnocchi. I quali – ohibò –risulteranno un po’ aciduli. La storia non la raccontiamo naturalmente, non volendo rovinarne la lettura a chi eventualmente non dovesse ancora conoscerla. Diciamo solo che inanella colpi di scena e un finale a sorpresa, magari un po’ troppo sbrigativo e con un surplus di edificante.
In quelle pagine, però, già c’è – c’era – tutto il Vitali degli anni a venire. A cominciare dal microcosmo bellanese che è un mondo intero: la piazza di paese tra l’imbarcadero e l’albergo “Cavallino”, tra la caserma dei carabinieri e la parrocchia; un popolo di personaggi che abbiamo via via apprezzato negli anni, personaggi un po’ bislacchi che hanno, se non tutti la gran parte, qualcosa da nascondere o da far dimenticare.
E, naturalmente, la penna. Già allora, ben appuntita. Col tempo, naturalmente, si farà più raffinata, i personaggi diverranno ritratti memorabili, l’intreccio più articolato con l’opportuna suspense e quelle battute fulminanti che, sole, valgono un libro.
La schiera di lettori, ormai affezionata ad Andrea Vitali da molti anni e molti libri, non ha certo bisogno di queste nostre righe per scoprirne la stoffa del gran narratore. A tutto tondo: spassoso lo è anche sentirlo raccontare dal vivo altre nuove storie che magari diventeranno romanzo e magari no.
Però, lo stesso, in questo anniversario, più che alle avventure del “procuratore” ci soffermiamo sullo scrittore esordiente.
Se l’edizione Camunia è un pezzo da collezione per bibliofili o fan incalliti, d’interesse è la riedizione nel 2006 da parte di Garzanti, con tanto di prefazione dell’autore che racconta i suoi primi passi letterari: «Confesso che sin da giovane ho avvertito la necessità di scrivere, di usare la scrittura come mezzo di comunicazione con gli altri». Una scrittura, dunque, «non concepita come esercizio solitario, ma come sperienza da condividere. Insomma, ci voleva qualcuno che leggesse quello che scrivevo».
Andrea Vitali
In principio, furono appassionate lettere adolescenziali a una ragazzina che preferì però spasimare per l’amico con il motorino. Ora, la speranza è che di quelle lettere non rimanga traccia alcuna.
Poi, la scelta del liceo classico e la decisione d’imboccare la strada del giornalismo. Restava da spuntarla su papà che ascoltò sereno e attento e dopo un mezzo minuto di silenzio profferì un “no” tanto laconico quanto perentorio da stroncare seduta stante una carriera.
«Mio padre – ricorda Vitali – era uomo di poche parole: casa, lavoro, telegiornale e poi a letto, dove spesso tirava tardi leggendo. Era la sua regola e, con il passare del tempo, è divenuta anche la mia.»
Alla quale regola, «lui concedeva, ogni tanto, un’eccezione. In quel caso chiacchierava un po’ di più, raccontava storie, avventure che gli erano capitate quand’era giovane o che aveva sentito raccontare da altri. Accadeva di rado, occhio e croce a ogni cambio di stagione. Fu proprio durante un passaggio di stagione, dalla primavera all’estate, che ascoltandolo ebbi l’idea di scrivere un romanzo, il rimo, “Il procuratore”. Era il 1988, il mese di maggio.»
Da quel momento «ho cominciato a rubare storie per restituirle scritte sulla carta», ma anche a ripensare a quelle ascoltate in passato.
«E se tante ne avevo già sentite – la conclusione di quella prefazione del 2006 – chissà quante altre aspettavano di essere scoperte. Da allora non ho più smesso di pensare a quelle che già so né di andare alla ricerca di quelle che ancora non conosco. E, a dire la verità, non ho propria nessuna intenzione di farlo.»
Da quella serata di maggio, Andrea Vitali ha dato alle stampe decine di libri. Una quarantina di titoli potrebbe essere catalogata come la “saga” bellanese. Ci sono poi la collaborazione con il pittore Giancarlo Vitali, quella con il disegnatore grigionese Bruno Ritter per una “novella grafica”, con il pittore Velasco per uno straordinario “Dilaghée”. E ancora, con il fotografo Carlo Borlenghi e con il criminologo Massimo Picozzi.  Recentemente, la linea noir e gotica con il kafkiano  "Documenti, prego" e  "Il metodo del dottor Fonseca" che richiama le atmosfere dello svizzero Friedrich Durrenmatt, nella collana "Stile libero" di Einaudi. Dulcis in fundo, libri per bambini e sul calcio. Siamo arrivati a contare poco meno di un’ottantina di titoli, ma siamo certi che qualcosa ci è sfuggito. Per esempio, i racconti sparsi su vari giornali… E giovedì arriva il “federale”.
Dario Cercek
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