SCAFFALE LECCHESE/14: i cento anni della 'Mutilati' nel libro di Angelo Faccinetto

E’ una pagina di storia spesso trascurata. Per i motivi più diversi, non ultimo un malcelato imbarazzo. Politico e non solo. Nonostante certa retorica patriottica voglia far credere spesso il contrario, le guerre – tutte le guerre – creano fratture profonde nelle comunità. Ideologiche. Ma non solo: la faglia si allarga anche tra chi sta al fronte e chi no, tra chi indossa la divisa e chi rimane in abiti borghesi. Infine, il ritorno a casa, tanto atteso, spesso ha l’aria di un inciampo, se non di una maledizione. Per un semplice reduce. Figuriamoci per chi testimonia la mattanza con le mutilazioni del corpo. La società chiamata a riaccoglierli, sovente sembra impreparata, tentata di non vedere. Per cattiva o buona coscienza che sia, volge lo sguardo al futuro perché al futuro occorre guardare, dovendosi tutto sommato rimettere in piedi un Paese in macerie. I mutilati, dunque, gli invalidi di guerra: tornati menomati, fanno i conti con una società che sembra voler fare a meno di loro. I meriti, gli onori, le decorazioni vanno bene per le cerimonie, le ricorrenze, le fanfare. Non certo nella quotidianità. Diventano “emergenza sociale” e si sentono trascurati da quello stesso governo che li aveva spediti in prima linea.


La copertina del libro

In quanto lecchesi, ci piace sapere che in parlamento, tra coloro che si danno da fare per aiutare reduci e mutilati, uno dei più attivi sia il nostro Mario Cermenati. Ma l’azione romana è insufficiente. Non è un caso, quindi, che ancora in piena Grande Guerra – anno 1917 - si costituisca a livello nazionale l’Associazione dei mutilati e degli invalidi di guerra. Due anni dopo viene aperta una sezione anche a Lecco, su iniziativa di Dante Airoldi che ne sarà presidente per mezzo secolo (con una parentesi misteriosa durante l’ascesa del Fascismo: sospettato di collaborare con i “cospiratori”, gli viene perquisita anche la casa).
A raccontarci la storia dell’associazione lecchese è il giornalista Angelo Faccinetto, peraltro figlio di quel Giuseppe che ne è stato il presidente tra il 2012 e il 2016.



Da qualche anno, il sodalizio ha allargato le iscrizioni anche ai famigliari degli invalidi per garantirsi un futuro che naturalmente non potrà che essere diverso, essendo il compito statutario – l’assistenza ai mutilati – destinato a esaurirsi naturalmente, con la scomparsa degli ultimi reduci. Un esaurimento che sarebbe un bene, significa che non ci sono più guerre: lo disse, intervenendo a un’assemblea dei soci, l’allora sindaco Giulio Boscagli (egli pure, figlio di un mutilato dalla vita rocambolesca: di famiglia italiana, arrivò nel nostro Paese da Montecarlo con il nome di Jean Pierre Albert, venne arruolato come Giovanni e spedito in Montenegro da dove tornò con una gamba amputata).



La storia dell’associazione è raccontata da Faccinetto nel libro “…E sono tornati. I cent’anni della ‘Mutilati’ di Lecco”, uscito recentemente dall’editore varesino Macchioni (174 pagine, euro 15) e il cui progetto era stato messo a punto in occasione del centenario del sodalizio, celebrato lo scorso anno: tra le altre iniziative, la pubblicazione di un altro volume dedicato agli ospedali militari cittadini e scritto dallo stesso Angelo Faccinetto.
La storia, allora. Si parte da Lecco, dopo di che altre sezioni si aprono nel territorio: in Brianza, in Valsassina. Sono anni difficili e sono gli anni del primo dopoguerra, gli anni che portano al Fascismo. E’ stato scritto molto sul debito di Mussolini nei confronti dei reduci, del cosiddetto combattentismo, avendo la propaganda littoria puntato anche sullo scontento e lo spaesamento di chi, ritornato dal fronte, anziché gratitudine e riconoscenza per i sacrifici in trincea, si trova di fronte mille porte sbarrate. Il Fascismo si impadronisce così delle associazioni d’arma, per quanto non si può dire si sia poi dimostrato particolarmente generoso nei loro confronti.



Ai mutilati della prima guerra mondiale si aggiungeranno poi quelli dei conflitti coloniali e, infine, quelli della Seconda guerra che, all’indomani della Liberazione, produrranno una significativa metamorfosi nell’associazione che accoglierà i reduci storici, i cavalieri di Vittorio Veneto, e quelli usciti dalla nuova carneficina: mischiati, ci sono i militari regolari che indossano la divisa dell’Esercito sabaudo, i combattenti per la Repubblica sociale e i partigiani che quei “repubblichini” hanno avversato con le armi. E anche i deportati civili – un nome per tutti: Pino Galbani –, gli operai finiti nei lager per avere scioperato nel marzo 1944.
Sostanzialmente, l’associazione non fa politica, anche se in certe occasioni le tendenze della dirigenza sono evidenti – nel secondo dopoguerra, il partito di riferimento è naturalmente quello dominante della Democrazia cristiana – mentre gli inevitabili legami con altre realtà combattentistiche creano un po’ di diffidenza in una società giovanile che ha già dimenticato e che va cambiando e modernizzandosi. Con il pacifismo e l’antimilitarismo – nota l’autore – che da sentimenti di nicchia diventano pratica di molti.



Compito principale dell’associazione è quello di assistere i propri iscritti sul fronte burocratico e pensionistico: le pratiche da istruire e inoltrare, le protesi da ordinare, le rivendicazioni sindacali per pensioni più consistenti e per contributi centrali più sostanziosi per garantire la vita associativa della periferia, per quanto la sezione lecchese sia tra le più virtuose. Ma c’è anche il supporto concreto, quotidiano, con iniziative che si potrebbero definire di beneficenza per i più bisognosi: le borse di studio, i pacchi-dono, il sostegno sotto l’aspetto sanitario.
Tra le iniziative di spicco, anche la realizzazione di edifici residenziali, nei rioni di Castello e a Santo Stefano, e vere e proprie attività imprenditoriali con la gestione, finché possibile, di parcheggi pubblici, impegnando i mutilati che non sono riusciti a trovare altri sbocchi professionali.
Nel libro di Faccinetto, però, non c’è soltanto la fredda ricostruzione storica, ma anche il racconto delle storie personali, delle “avventure al fronte”, la testimonianza di chi ha visto la morte in faccia ed è scampato per un pelo, le vite rocambolesche e l’intreccio di vicende umane in tempo di pace: per esempio Angela Castelli, solerte impiegata dell’associazione che un giorno molla tutto, diventa suor Ritarosa e parte missionaria per il Mozambico - in piena guerra per conquistare l’indipendenza dal Portogallo - dove morirà in un banale incidente stradale.



L’associazione, attualmente presieduta da Giovanni Marco Mauri, sembra ormai aver esaurito il suo compito. Sperando che i venti bellici spiranti in vari angoli del mondo non finiscano con il soffiare pure su questi lidi. Se i compiti tradizionali sono finiti, i discendenti degli invalidi si pongono un altro obiettivo, quello del ricordo. Già, si è cominciato a farlo lo scorso anno, con una mostra allestita a Palazzo delle paure.
Si parla ormai di una Casa della memoria, un luogo in cui custodire e tramandare il ricordo di quel che è stato e raccogliere frammenti di una lunga storia. Un’occasione – ci vien da pensare – per non nascondere le atrocità dei conflitti, abbandonare definitivamente la retorica e non voltare lo sguardo davanti alle vittime.
Dario Cercek
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